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Autore: Grouper    18/09/2011    11 recensioni
Harry cominciò il suo assolo verso la fine della canzone; già troppi sguardi erano stati scambiati tra i due, ma in quel momento la cosa diventò ovvia: quelle parole erano rivolte a lei, a lei soltanto. La spalla che l'aveva sostenuta durante tutto questo tempo, i riccioli con cui aveva giocato tante sere, gli occhi in cui poteva sempre rifugiarsi e la voce avvolgente che le dava la sicurezza per andare avanti... tutto ciò si tramutò in un incubo: per Harry era tutta una farsa per poter arrivare a qualcosa di più che un'amicizia, amicizia che per Vittoria era la cosa più bella che potesse esserle capitata.
Il suo cuore traboccava d'ansia e panico, e gli occhi ne erano la limpida riflessione.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era passata ormai una settimana da quella sera: la sospensione di Harry era finita, e da quel lunedì Vittoria avrebbe ricominciato a vederlo e incontrarlo tutte le mattine. Durante i giorni precedenti aveva sempre ignorato le sue chiamate e messaggi che la imploravano di ascoltarlo e di incontrarsi. Vittoria aveva bisogno di pensare e di assimilare bene ciò che era successo; non voleva chiudere il loro rapporto così a sangue freddo: voleva per prima cosa fare chiarezza su se stessa e in quella settimana non aveva fatto grandi passi avanti, e ancora alcune domande erano rimaste in sospeso nella sua testa.
Passava i pomeriggi tra un libro e l'altro, passivamente: ogni suo pensiero tornava a riflettersi sugli occhi cristallini di Harry; li trovava ovunque, tra le pagine di chimica e quelle di Platone, in una tazza di tè e un pacchetto di Haribo. Se lo immaginava ovunque: dietro agli scaffali della biblioteca, sul marciapiede opposto al suo, nelle macchine che le sfrecciavano accanto. Lo vedeva in ogni persona le stesse accanto, sia che stesse facendo la fila alle poste o al supermercato. Per quanto non avesse intenzione di incontrarlo e di parlargli, la verità è che lo cercava in continuazione: se sentiva qualcuno alle sue spalle esitava sempre qualche secondo prima di voltarsi e vedere chi fosse. La sua testa aveva paura di incontrarlo, ma allo stesso tempo il suo cuore non chiedeva altro. Vittoria passò gran parte di quei giorni in giro per la città, pensando che, come era già successo quella notte quando si ritrovò senza nemmeno accorgersene sopra ad un ponte, girovagare senza meta fosse il modo migliore per mettere in ordine le idee. Anche dopo una settimana non era del tutto convinta di ciò che avrebbe fatto, di come avrebbe affrontato un discorso con Harry, e per questo aveva deciso che per il momento avrebbe l'avrebbe semplicemente evitato.
Il lunedì successivo la routine ricominciò come se nulla fosse mai successo. Harry era là, davanti all'armadietto grigio che gli risaltavano il colorito pallido della sua carnagione e gli occhi verde acqua. Vittoria si fermò un secondo all'entrata della scuola, per poi avanzare tranquilla verso il suo armadietto B26; quando lo raggiunse, Harry, da rilassato qual era, si drizzò subito tenendo i muscoli tesi come se avesse visto un serpente passargli sotto ai piedi. Vittoria si limitò a guardarlo e molto tranquillamente inserì la combinazione del suo lucchetto e cominciò a fare qualche cambio di libri all'interno della sua borsa. Harry aggrottò le sopracciglia, confuso, e la guardò per un attimo prima di aprire bocca senza sapere esattamente cosa dire: si aspettava che fosse lei quella a mandarlo a quel paese o ad insultarlo, e invece se ne stava lì, tranquilla, come se lui non esistesse. Harry deglutì quel boccone amaro e poi si rivolse a Vittoria: “Ho bisogno di parlarti” disse a bassa voce. La mora si voltò un attimo e incontrò i suoi occhi verdi, quelli che aveva cercato per tanti giorni e che finalmente si ritrovava davanti, più belli che mai, senza una minima traccia della rabbia e della furia che vi si poteva scorgere quella notte. Non riuscì a rispondergli, abbassò la testa e continuò a mettere a posto l'armadietto. Harry continuava a tenere lo sguardo fisso su di lei. “Vittoria, parlami...” questa volta la mora non lo guardò affatto. “Ti prego, mi manchi e questa situazione mi sta uccidendo, non capisci?” Per un attimo Vittoria alzò lo sguardo davanti a sé, dentro all'armadietto; poco dopo lo chiuse sonoramente e si voltò verso Harry inclinando la testa e aggrottando le sopracciglia. “Ah, sta uccidendo te. E secondo te io non ci sto male? Sono giorni che mi sto tempestando di domande, giorni che cerco di rimettere a posto i pezzi della nostra amicizia ma non ci riesco. Devo pensare Harry, e devi darmi tempo.” Harry la guardava quasi preoccupato, la bocca socchiusa e gli occhi incatenati a quelli di Vittoria. “Come fai a rimettere a posto i pezzi da sola? Devi ascoltarmi...” pronunciò le ultime parole con un filo di voce, come se la stesse supplicando. Le accarezzò il braccio ma Vittoria si scanzò lentamente per non dare nell'occhio. “Non voglio sentire nulla, Styles, non ora.” rispose Vittoria con tono freddo e conciso ma con una punta di dolore. Si allontanò incerta: non voleva perderlo di vista un'altra volta, non voleva lasciarlo solo, voleva stringerlo forte e sentire lo stesso profumo che quella notte le aveva dato la nausea, del quale ora sentiva la mancanza. Harry rimase là, immobile, mentre la guardava allontanarsi e seguiva i suoi movimenti con gli occhi spenti: non si sarebbe arreso. Se una canzone non aveva funzionato allora si sarebbe semplicemente dichiarato, a quattrocchi.
Quella mattina di scuola sembrò non finire mai: le lancette dell'orologio andavano visibilmente a rallentatore per i gusti di Vittoria che non riusciva a seguire neanche una parola di ciò che stessero dicendo i vari professori. Nella mente le frullavano una serie di pensieri contorti e tutti in qualche modo avevano a che fare con Harry. Non voleva incontrarlo un'altra volta, non voleva sfidare il suo autocontrollo davanti a quel viso angelico; nonostante ciò durante tutta l'ora del pranzo non fece altro che guardarsi intorno in cerca di quel viso, ma non lo trovò. Quando la campana segnò la fine della giornata, Vittoria, travolta dall'intera scuola che non vedeva l'ora di uscire, si avviò lentamente verso la porta d'ingresso. Scrutò il parcheggio intero, per vedere se quella Toyota blu fosse ancora parcheggiata ad aspettarla, ma della macchina neanche una traccia. Si fermò in cima alle scale davanti al portone: stringeva forte la mascella ed ebbe un tuffo al cuore quando realizzò che forse quello stupido le aveva dato ascolto per una volta, invece di fare di testa sua. Probabilmente l'avrebbe lasciata veramente in pace aspettando che fosse Vittoria a farsi avanti. Scosse la testa, e si avviò fuori dal grande cancello arancione. Stretta nel suo cappotto, camminava lentamente guardandosi intorno, e continuando a chiarirsi le idee che finivano sempre per incasinarsi ulteriormente. Il vento soffiava forte e pungente, le foglie volavano a gruppi per la strada asfaltata e i capelli di Vittoria si erano uniti a quella danza.
“Mi ricordo ancora cosa indossavi il primo giorno.” Una voce ruppe il silenzio del vento. Vittoria si fermò di scatto, senza voltarsi: teneva gli occhi sgranati e la bocca socchiusa. Avrebbe riconosciuto quel timbro di voce su un milione: era la voce che l'aveva confortata tanti giorni difficili, quella che stava cercando da tutta la settimana, la stessa voce che le aveva spezzato il cuore.
“Sei piombata nella mia vita e sai cos'ho pensato? -Potrebbe essere quella giusta!-” Vittoria rimaneva immobile; la voce alle sue spalle si faceva lentamente più vicina e riusciva a sentire i passi leggeri dietro di sé. Mandò giù un altro boccone amaro che le stava uccidendo la gola, senza dire niente. “Ogni cosa che fai e dici mi sconvolge. Non posso vederti soffrire neanche per un secondo, e non puoi capire quanto stia male pensando che adesso tu stia soffrendo per causa mia.” Poteva sentire l'aria muoversi a contatto con il suo corpo: si stava avvicinando. “Suona assolutamente patetico e il fatto che lo stia per dire è la prova di quanto tu sia importante: Vittoria...” si fermò un attimo per prendere fiato, avrebbe voluto che la mora si girasse e incontrasse i suoi occhi per provarle la sua sincerità. Sospirò e con un filo di voce, ma pur sempre convinto disse: “io ti amo” Harry si morse le labbra in attesa di una qualche reazione da parte della ragazza davanti a sé.
Il cuore di Vittoria, che già da subito aveva accelerato i suoi battiti, per un momento si fermò, insieme al suo respiro, per poi scoppiare. Poteva sentirlo spingere forte nel petto e vi mise istintivamente una mano sopra. Il fiato, al contrario, era corto per lo stupore e l'emozione: per la prima volta in vita sua un ragazzo le stava facendo quell'effetto. Subito spostò l'attenzione sulla pancia, in cerca di quelle maledette farfalle con cui tutti rispondono alla domanda “ma mi piace davvero?”. Qualcosa stava andando in corto circuito là dentro, ma non era piacevole.Di dolci farfalle blu svolazzanti neanche l'ombra. Non c'era niente di dolce in quelle sensazioni: il suo corpo stava fibrillando dalla testa ai piedi, poteva crollare da un momento all'altro, ma fece in tempo solo a girarsi verso quella testa riccia. Harry ignorò l'espressione indecifrabile di Vittoria: doveva farcela, almeno questa volta. “Forse ci siamo incontrati per stare insieme, non separati.” Vittoria continuava a fissare gli occhi chiari. Cosa doveva fare? Cosa doveva dire? Non lo sapeva semplicemente perchè non le aveva dato tempo di chiarirsi le idee. Dopo una settimana di rimuginamenti ancora non era in grado di rispondere ad una domanda che fosse una. Harry sforzò un sorriso e le prese la mano che ciondolava sul fianco. Si guardarono per attimi interminabili, finchè Harry più lentamente che mai decise di sporgere il suo viso verso quello di Vittoria che, incantata, non mosse un muscolo e lo lasciò fare. Il respiro caldo di Harry incredibilmente vicino al suo svegliò improvvisamente la mora che fece un passo indietro, senza staccargli gli occhi di dosso e come se nulla fosse successo, tornò sui suoi passi verso casa. Harry abbassò lo sguardo e, travolto da lacrime silenziose, tornò indietro a sua volta, sapendo che quella era stata l'ultima occasione. Ed era fallita, come le altre.
Quando Vittoria tornò a casa trovò Rebecca e Alexander impegnati in una conversazione in salotto. Non se n'era nemmeno accorta, a dir la verità: fu la voce della sorella infatti a far tornare lucida Vittoria. “Vittoria...” disse prima a bassa voce “Vittoria! Che è successo?” alzò il tono di voce per farsi notare dalla sorella che non sembrava dare segni di vita. Era rimasta appoggiata alla porta appena chiusa alle sue spalle, con lo sguardo perso nel vuoto. “Sono un'imbecille” si limitò a rispondere Vittoria mentre Alexander e Rebecca la guardavano confusi. “Ma che cosa...” la rossa, da tipica premurosa qual era, non fece in tempo ad andare a fondo della questione che Vittoria era corsa su per le scale e chiusa in camera.
“Dovrei andare a parlarle...”
“Ci penso io”.
Una mano bussò alla porta bianca della camera di Vittoria. Se ne stava seduta sul letto a gambe incrociate mentre si stava torturando un'unghia un tempo laccata di smalto. Non rispose. “E' permesso?” la porta lentamente si aprì, e il viso invecchiato di Alexander entrò per la prima volta nella camera di Vittoria dopo tanto tempo. La figlia lo guardò sbalordita, dimenticando per un attimo tutto quello che era successo: vedeva solo suo padre, e stranamente in quel momento riaffiorarono solo i ricordi migliori del loro rapporto, trai quali c'era il “parlare”. Rebecca aveva preso da Alexander la parlantina no stop. “Vieni pure...” mugolò Vittoria facendo spazio al padre accanto a sé. Alexander si sedette sulla coperta verde chiaro del letto e osservò lo sguardo turbato della figlia che tentava di nascondere. Le sorrise dolcemente, e Vittoria riconobbe quel sorriso non solo tra i suoi ricordi d'infanzia, ma anche tra i più recenti: era la stessa espressione che Harry aveva quando voleva fare il padre premuroso. Le scese una timida lacrima che cacciò via in un attimo con la manica del golf blu. “Qual è il problema, Eff?” chiese dolcemente Alexander senza troppi giri di parole.
Vittoria esitò un attimo. “Ho fatto un casino, papà..” disse con voce fioca sull'orlo del pianto. “Ho fatto un casino e me ne sono già pentita!” Vittoria si buttò tra le braccia del padre singhiozzando: lui l'accolse con un abbraccio caldo e premuroso, come farebbe un padre che veramente tiene alla propria figlia. “Shh...” sussurrò Alexander mentre le accarezzava i capelli morbidi.
Vittoria tornò seduta e con il trucco completamente sciolto sul viso guardò il padre, che le osservava gli occhi, come per rimediare a tutto quel tempo in cui se li era persi. “E se lo amassi anche io, papà? Che devo fare, io non lo so!” mise la testa nelle mani, singhiozzando, mentre Alexander le cinse con il braccio la spalla e le baciò la testa.
“Solo il fatto che te lo stia chiedendo vuol dire che sai già la risposta” Accarezzò un'ultima volta i capelli di Vittoria e si alzò dal letto per poi andarsene. Eff alzò lo sguardo nel momento in cui il padre pronunciò quelle parole: tutte quelle domande, e la risposta stava proprio al loro interno. Rimase seduta senza muovere un muscolo per minuti interminabili; finalmente tutti i pezzi erano tornati al loro posto, formando un'immagine diversa, inaspettata, ma perfettamente chiara.
Con uno scatto felino Vittoria si alzò dal letto, si sciacquò la faccia e si precipitò fuori di casa, cominciando a correre come al solito quando le sue domande trovano finalmente una risposta.


Notaaaaaaaaaaaaare bene: 
Allooooora, vi è piaciuto?! :D Finalmente la zuccona qua fa 2+2="sono innamorata", yeee! 
Ringrazio tutte le fantastiche ragazze che continuano a seguire la storia. Di nuovo, non ho idea di numeri e robe varie, quindi non posso dirvi grazie per le 35487365837 visualizzazioni e cose così, e sinceramente non mi importa nemmeno(: 
Purtroppo il prossimo sarà l'ultimo capitolo, e spero di renderlo memorabile. Lo devo soprattutto a voi che avete seguito questa storia sin dall'inizio. 
Grazie ancora, 
un abbraccio e tante caramelle, 
vichi. 

  
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