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Autore: Miki_TR    18/09/2011    6 recensioni
Alphard Black è sempre stato un ipocrita, fino alla fine dei suoi giorni.
"Tutte le storie hanno un periodo dorato, dove sembra che nulla possa andare male e che tutto debba rimanere per sempre così perfetto.
Tutte le storie assistono inevitabilmente alla fine drammatica di quest'epoca preziosa.
"
Questa fanfic si è classificata prima nel Contest "Eroi della mitologia classica", indetto da Chu sul Forum.
Attenzione! Questa fic parla di incesto: si sconsiglia la lettura a chi trovasse l'argomento fastidioso.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Famiglia Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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L’ipocrita
"Quello che c'è di meglio in noi è soltanto quello che gli altri riescono ad immaginare di noi."
(dal film "La terrazza")

A mia nonna

 

 

Quando sarò finalmente sepolto mi ricorderanno come un uomo migliore di quello che sono stato.
Non lo dico per falsa modestia; lo dico perché la morte ha questo grande potere su tutti noi, e io stesso anno dopo anno ho sepolto persone mediocri e insulse, e persino nemici dichiarati, con il viso grave e la mente sempre concentrata su quel piccolo, infinitesimale atto di gentilezza, o bontà, che d'improvviso ai miei occhi li redimeva di ciascuna loro colpa.
Per lo più a piangermi saranno persone migliori di me.
Perché la morte, come ho scoperto, copre di tenerezza i ricordi in entrambi i sensi, ed anch'io ricordo tutti loro per il buono che ho immaginato dietro il più casuale dei gesti.

Quando ero piccolo, i miei genitori dicevano che ero buono. Ero il bambino che ubbidiva, che sedeva composto a tavola e scendeva le scale con attenzione. Così mi avevano dato questa bizzarra etichetta, senza nemmeno sospettare che non avesse nulla a che fare con le mie intenzioni, questo "essere buono".
Provavo solo un grandissimo desiderio di essere diverso.
Credo che dipenda dal fatto che sono un gemello; se fossi nato da solo probabilmente sarei diventato un uomo migliore. Ma c'era Walburga, dal primo istante fino all'ultimo, a strillare di notte e a riempire le stanze di confusione e capricci. Mia sorella è nata mezz'ora esatta prima di me, e fin dal mio primo respiro, o così mi sembra ora, ho voluto ricordare ai miei genitori di non essere lei, di non essere la sua ombra, nemmeno per un attimo.
Quando lei a cinque anni spadroneggiava in casa, e veniva rimproverata e castigata, io me ne stavo quieto nella mia stanza perché tutti vedessero che Alphard non era come sua sorella.
E quando io ero il bambino bravo, Walburga cominciava a strillare per attirare su di sé l'attenzione: per quanto fossimo diversi, eravamo pur sempre gemelli. Probabilmente da qualche parte nel nostro sangue c'era scritto questo eterno bisogno di essere notati e distinti l'uno dall'altra.
Walburga era una piccola carogna, fin da bambina, e le riconosco che in questo non si è mai smentita. Mi tirava i capelli quando nostra madre non guardava, prendeva i miei giocattoli per il gusto di romperli, strillava a pieni polmoni come se la stessi picchiando se solo provavo ad arrabbiarmi con lei.
Io l'adoravo. Non ne potevo fare a meno. Volevo che mi sorridesse, che giocasse con me, che tra tutti, in casa, preferisse me.
Volevo essere la sua metà perfetta; ma naturalmente, allora, ero solo un bambino. E lei mi voleva bene, nel suo modo capriccioso e terribile che mi ha spinto spesso a pensare, da adulto, che forse essere odiati da mia sorella fosse meno pericoloso che essere amati da lei.
Mi stendevo sul suo letto, nei torridi pomeriggi d'estate, vicino a lei quando lo permetteva la calura, e le parlavo di un mucchio di sciocchezze. Ad otto anni, come usava a quell'epoca per le bambine, le facevano due treccine strette strette che le incorniciavano il viso; a me piaceva giocarci, mentre ci scambiavamo i nostri segreti su giochi e fantasie infantili, arrotolare i suoi capelli attorno alle dita e tirarli piano. Lei mi lasciava fare finché non la infastidivo; poi fingeva di volermi abbracciare e mi mordeva forte un braccio, o un orecchio, stando attenta a non lasciare segni che gli adulti potessero vedere.
Walburga è sempre stata così; qualcuno sussurra che sia pazza, ma io non lo penso. Non del tutto.
Penso che la persona che è oggi sia ancora quella bambina, quella cattiva e disobbediente a cui volevo così bene che a volte mi sembrava si dovesse vedere da fuori. Penso che qualcosa di piccolo si sia rotto dentro di lei, da qualche parte tra i giorni dorati dell'infanzia e la tempesta della giovinezza, e lei non sia mai più riuscita a cambiare.
Ma non mi è mai importato; era mia sorella e l'ho sempre amata.
Sarò felice di vederla, domani. Sopporterò persino di guardarla arrivare con Orion, di vedere la sua smorfia d'ira quando saprà che scherzo le ho fatto con il mio testamento, per saperla vicino a me fino all'ultimo istante.

La verità è che l'amavo. La famiglia Black si porta dietro tanti di questi scandali familiari, perché nessuno ci fa caso; perché il nostro sangue è sempre stato così torbido che nessuno ebbe nulla da ridire, quando Walburga si fidanzò con Orion, che pure era nostro cugino.
Eravamo ancora ad Hogwarts, all'ultimo anno. Ora che posso essere onesto, dirò che in quel momento cominciai ad odiare Orion. Fino a pochi istanti prima di sapere che si sarebbe preso mia sorella lo trovavo un ragazzino come tanti altri dei nostri parenti; un po' insulso, forse, come mio fratello Cygnus, con cui per la verità passava la maggior parte del suo tempo, tanto che si sarebbe detto fossero loro, i gemelli.
Però da quel momento l'ho odiato.
Io non volevo essere come mia sorella, da bambino. Volevo rimarcare le nostre diversità; mi fece infuriare che lei preferisse qualcuno che non la completava altrettanto.
Litigammo in maniera terribile quando me lo disse; la trattai male per la prima volta in vita mia, le diedi della sgualdrina, le chiesi se era già incinta. Pazzo di gelosia, le diedi uno schiaffo.
Non c'eravamo mai somigliati tanto. Non ero mai stato così furioso, e onestamente non lo sono stato mai più.
Walburga mi accusò di ipocrisia; io avevo la mia vita, le mie donne ed occasionalmente qualche amico, come usava allora. Perché volevo rinchiuderla in una gabbia? Non riuscivo ad ammettere che fosse perché la volevo per me.
Quando me ne andai, furioso, sbattendo la porta della sua stanza e facendo risuonare per tutta la casa i miei passi irati, lei rimase a piangere sul letto come l'eroina di uno dei romanzi d'appendice babbani che leggevo di nascosto, a scuola. La famiglia fu molto stupita da quella lite, dal mio comportamento feroce e probabilmente anche dalla sua improvvisa remissività. Tuttavia nessuno ci fece molto caso; fu solo un episodio, e tornammo ad essere noi stessi prima ancora della fine di quelle vacanze di Natale.
Anche a scuola eravamo come sempre; una delle ragazze che corteggiavo svogliatamente mi chiese, civettando, come potessimo essere così diversi, se eravamo gemelli. Le risposi senza pensarci che ci compensavamo proprio perché insieme eravamo perfetti. Ricordo che lei ridacchiò, e che non detti peso alla mia stessa risposta fino a qualche ora dopo, quando mi ritrovai da solo con i miei pensieri ossessivi di lei che dormiva tra le braccia di Orion, sebbene allora fosse improbabile che fossero andati oltre il leggero bacio sulla guancia che era permesso tra fidanzati, e che comunque era comune con le donne della famiglia, per tutti noi. Ma anche quella notte, con quell'idea allettante di noi due, perfetti insieme, che mi risuonava nella mente con la precisione di una campana, non potevo ammettere che avrei voluto essere suo cugino, e non suo fratello, ed eliminare Orion da quadro.
La mattina dopo mi sentii un uomo nuovo.
Adesso penso che fu il fatto che davvero, in quella nottata insonne, ero andato vicino a scoprire il mio più grande segreto. Allora pensai semplicemente di essermene fatto una ragione, finalmente.
Decisi di prendere ad ignorarla; e naturalmente non ci riuscii mai, perché era la mia Walburga, ma in qualche modo feci un passo leggero lontano da lei, smisi di soffiarle il mio respiro sul collo e mi rassegnai.

La mia prima vera infatuazione risale a quel periodo.
Prima avevo sempre corteggiato le ragazze di buona famiglia che inevitabilmente mi ronzavano intorno, spingendomi fino a quegli amoreggiamenti che, se non proprio leciti, venivano considerati perdonabili nella gioventù. Qualche esperienza più intima ed appagante l'avevo fatta con alcuni miei amici, altra cosa piuttosto tipica nella mia cerchia di conoscenze. Ma non mi era mai capitato di volere una ragazza che non si fosse avvicinata a me per prima, e che non fosse naturalmente quella così proibita da darmi i brividi.
È interessante ed ironico, adesso, pensare che non l'ebbi mai, quella prima ragazza lecita che attirò il mio sguardo, nemmeno per un minuto.
Lei era Minerva McGranitt.
Se ci ripenso ora, la ricordo come una giovane forte e sempre allegra, vivace e seria allo stesso tempo; a differenza degli altri Grifondoro non si rifiutava di parlare con me solo perché ero un Serpeverde. Eravamo amici, ma mi ci volle del tempo per capire che era solo quello, a legarci.
In fondo era una ragazza; stavo bene in sua compagnia, era facile stare con lei, più che con le fanciulle dabbene della mia Casa, che si comportavano sempre come signorine a modo. Di lei mi piaceva la voce sicura con cui parlava, la sua passione per le materie che preferiva, per il Quidditch e per lo studio; cose che avevamo in comune e che mi sembrarono il presupposto migliore per iniziare a corteggiarla seriamente.
Mi spinsi fino a pensare che avrei potuto essere felice con lei; che sarebbe stata una compagna dignitosa agli occhi della famiglia, e più che ideale per uno come me. Immaginavo persino, sciocco ed ingenuo com'ero, che lei e Walburga potessero essere amiche, un giorno.
Ma ero molto convinto di quell'idea, e giocai con quelle immagini nella mia mente al punto che, quando mi svegliavo la notte per un sogno dal contenuto irripetibile, i suoi contorni si fondevano con quelli del corpo di mia sorella, che allora pensavo di evocare solo perché la conoscevo così bene. Decisi che l'avrei corteggiata seriamente dopo uno di quei sogni, senza chiedermi nemmeno per un istante se non ci fosse qualcosa di strano.
Il primo problema fu decidermi a fare una mossa. Da ragazzo ero timido; non in maniera troppo evidente, finché ero circondato da amici o da ragazze di cui non mi importava, o eventualmente spalleggiato da Walburga. Ma l'idea di cimentarmi nel conquistare una ragazza che mi interessava davvero e che mi piaceva proprio perché non era come tutte le altre che avevo avuto... Posso dire che in quella situazione non diedi il meglio di me.
I miei diciassette anni forse erano una scusante; probabilmente lo era anche il fatto che, per quanto come tutti i Black io fossi effettivamente attraente, tendevo a rivedermi ancora nel mio vecchio titolo di "buono", ed esercitavo il fascino tipico, oggi come allora, del ragazzo molto studioso ed appassionato di scacchi. Insomma, non ero propriamente un Don Giovanni nemmeno dove la purezza del mio sangue e l'importanza della mia famiglia contavano. Per di più, non avevo mai dovuto lanciarmi in acque sconosciute: ero stato sedotto spesso, ma non avevo mai tentato seriamente di farlo io, se non quando ormai le intenzioni erano chiare.
Mi innervosiva davvero l'idea di corteggiare Minerva.
Fortunatamente non durò molto.
Arrivai a baciarle la mano; lei mi sorrise molto gentilmente e non mi lasciò sperare neanche un minuto.
-No, Alphard- mi disse, soltanto, prima di rimettersi a studiare.
Finì così, semplicemente, il mio sogno di costruirmi una vita con Minerva McGranitt.
Adesso ringrazio per quell'esito che allora mi ferì profondamente, più che altro nell'orgoglio. Minerva ed io abbiamo continuato a corrispondere per tutta la mia vita, e dalle ceneri delle mie sciocche pretese di seduzione è nata un'amicizia che so la porterà da me, domani.

Sarò felice di salutarla. Potendo le metterei una mano sulla spalla e la ringrazierei per il modo delicato in cui mi spezzò il cuore, allora. È stata una bella esperienza, nonostante tutto, non essere ricambiato da lei, e so che anche lei ricorderà con un po' di tenerezza quel momento, e con un sorriso la nostra amicizia.
E non saprà mai cosa covavo veramente dentro di me, già a quell'epoca.

Non credevo Walburga sapesse della mia breve infatuazione, ma lei mi smentì non appena tornammo a casa per le vacanze, quell'estate.
Entrò in camera mia mentre disfacevo il baule per l'ultima volta, le carte del mio nuovo lavoro già pronte sulla scrivania e appena qualche giorno di vacanza davanti, prima di diventare un uomo. Walburga si sedette sul mio letto con quell'aria un po' crudele che aveva sempre prima di colpirmi in maniera particolarmente dolorosa, con i morsi quando eravamo bambini, e con le parole negli ultimi anni.
Era bellissima, e come sempre mi fermai a guardarla.
Mi sorrise dolcemente. -La tua Minerva va a letto con Tom Riddle- disse, senza preamboli che risparmiassero il mio povero cuore, e senza nemmeno un pizzico di malizia nella voce. -Lo sapevi, Alphard?- mi chiese.
Scossi la testa. Non lo sapevo, e se volevo che smettesse di affondarmi le unghie nella carne era meglio che non dessi a vedere troppo che la cosa mi toccava.
-Che sudiciume- commentò, storcendo il naso appena un poco, senza perdere la dolcezza della voce. -Li ho sorpresi a baciarsi dietro la serra; lui aveva le mani sotto la sua gonna. È un Sangue Sporco, mi chiedo come lo sopporti-.
Mi strinsi nelle spalle. Se non le davo l'impressione di essere interessato poteva annoiarsi di quel gioco e lasciarmi perdere.
Lei si alzò dal mio letto, rassettandosi la gonna per abitudine, e mi diede un rapido bacio sulla guancia.
-Sono contenta che tu non ti sia insozzato con quella feccia- disse, prima di voltarsi e sparire velocemente come era arrivata.
Mia sorella, pensai, adorabile e pazza.

Sapevo già quanto quelle idee estreme avrebbero condizionato la sua vita e quella dei suoi cari, in futuro? Mi piacerebbe poter dire che già allora vedevo qualcosa di sbagliato in quello che diceva; forse mi farebbe sembrare un uomo migliore, e ci sono persone che ho amato a cui ho lasciato credere che fosse così.
Ma non è vero, naturalmente; le pensavamo tutti, quelle cose, tutti parlavamo di purezza di sangue e scandali. Solo che il resto di noi lo faceva con il gusto del pettegolezzo, mentre Walburga prendeva seriamente quei concetti, era sinceramente nauseata da quel genere di contaminazioni.
E quindi, sapevo già allora, quando uscì dalla mia stanza, quanto lontano si sarebbe spinta su quella strada, e potevo immaginare con che conseguenze? Naturalmente no: era solo Walburga con le sue piccole manie. Mia sorella era un po' ossessionata da quelle cose, ma in fondo faceva solo per parlare.
Se avessi capito, quell'estate, quanto profonde fossero in lei le radici di quelle idee, probabilmente qualcosa sarebbe cambiato. E anche qui in passato ho mentito, lasciando intendere che avrei potuto convincerla di altro, se avessi compreso, impedirle di trasformare la nostra famiglia nel covo di pazzi esaltati che è ora. La verità è che sarebbe cambiato qualcosa solo per me, per il mio infinito egoismo: avrei capito, naturalmente, perché voleva sposare Orion.

Allora invece la spiavo in ogni gesto, quando lui era presente, cercando qualche segno dei sentimenti che la immaginavo provare. Orion era un ragazzino, tanto più giovane di noi che a quell'epoca solo questo era quasi uno scandalo. Cosa vedeva Walburga in quel cugino allampanato? Non me ne capacitavo. Facevo continuamente paragoni tra me e lui, lo sfidavo amichevolmente a duello (sebbene sapessi che era già barare in partenza, con un ragazzo così giovane) per il segreto piacere che trovavo nel dimostrarmi migliore di lui in quel modo sciocco.
Non vedevo, e non lo vidi per moltissimi anni, che quello che attirava mia sorella di nostro cugino era il sangue, e il potere che lui rappresentava.
Walburga voleva sangue purissimo e potere; era questo che vedeva in Orion. Quale sangue più puro che il suo stesso sangue? E Orion era l'erede, naturalmente, del ramo principale della nostra famiglia, qualcosa che ai nostri tempi contava. La sua scelta non aveva niente a che fare con me, ma allora non lo capivo. Walburga voleva la famiglia Black per sé, e fu esattamente quello che ottenne sposando nostro cugino Orion.
Ma per quel matrimonio dovevano passare ancora molti anni.

Frattanto, fuori da Hogwarts, lei era completamente mia.
Finita la scuola iniziava davvero la nostra vita in società; allora c'erano feste e occupazioni mondane, dove le belle ragazze in età da marito si pavoneggiavano e giocavano a rincorrere i migliori partiti sotto gli occhi severi dei loro chaperon. Walburga era tagliata fuori dalla maggior parte di quei giochi, perché era fidanzata.
Però quell'anello con lo stemma dei Black al suo dito (identico, per altro, a quello che era suo per diritto di nascita, ma così diverso nel significato, perché naturalmente apparteneva ad Orion) le permetteva di sfuggire ai controlli più severi del parentado, ed in genere per le occasioni mondane il suo cavaliere ero semplicemente io.
A chi affidare la graziosa fanciulla il cui promesso sposo è lontano, a scuola, durante gli interminabili ricevimenti e le feste vivaci della buona società? Ma naturalmente al fratello gemello, che l'avrebbe protetta dai malintenzionati e l'avrebbe fatta danzare in perfetta innocenza.
Ad affidarmela erano i miei genitori, e loro avevano sempre visto solo l'Alphard buono dei loro desideri.
Mi piacevano molto quelle feste; Walburga era bellissima e deliziosa, con le guance accese e la risata facile perché si divertiva; mentre ballavamo mi sembrava di poter dimenticare la realtà del suo imminente matrimonio, e sognavo che saremmo rimasti così per sempre: lei che mi guardava con i bellissimi occhi dipinti e le labbra rosse, io che aspettavo solo che mi chiedesse di farla ballare ancora.
E quando era stanca e si sedeva a chiacchierare con le amiche, per me c'erano tutte le distrazioni possibili, in quelle feste. Buon vino e buona conversazione, e naturalmente quelle stesse ragazze che avevo abbracciato di nascosto e in fretta ad Hogwarts, fattesi donne e disposte a concedermi molto più del loro tempo.
Eravamo due viveur, Walburga ed io. Come usava allora, di giorno conducevamo la vita dei figli devoti e perfetti della famiglia Black, ma la notte era nostra e nessuno ci contestava i nostri divertimenti.
Tutto questo non finì quando Orion divenne adulto e venne a casa da scuola per non doverci tornare più.
Temevo quel momento, infinitamente. Nella mia mente ormai Hogwarts era quello che li teneva separati, e permetteva a me di avere Walburga in qualsiasi momento. Mi sentii molto fortunato quando la famiglia si mosse inconsapevolmente per dividerli, ancora un po'.
Come Black, facevamo funzionare gli affari di famiglia in maniera molto rigida; tutti noi uomini, freschi di diploma, ci ritrovavamo immancabilmente ad entrare al Ministero prima ancora di aver fatto un solo colloquio, indipendentemente da cosa volessimo. Era il modo in cui la famiglia controllava le cose; io stesso prima dei ventitré anni avevo lavorato in diversi uffici, sempre seguendo le indicazioni che mi venivano dai parenti più anziani, per assicurarmi al tempo stesso una brillante carriera personale e che le cose andassero complessivamente come desideravano i Black.
L'estate in cui Orion e Cygnus si diplomarono ci fu uno scandalo in famiglia. Il mio prozio Phineas, che era fratello di mio nonno e che tutti avevano sempre considerato uno dei pilastri di questo nostro sistema, andò per qualche motivo giù di testa. Dissero che era impazzito. Fu messo a tacere il fatto che lasciò la moglie per andare a vivere con un'amante babbana vent'anni più giovane, ma si poté fare di meno per annullare le leggi che fece passare nel suo ufficio prima che la famiglia si rendesse conto di cosa accadeva.
È ironico che allora noi ne parlassimo come di un insulto al buon nome dei Black, e che invece tutt'ora quelle leggi vengano indicate come tra le migliori tutele dei Babbani nel nostro Codice. In puro stile Black, del resto, Phineas ebbe l'abilità politica di compiere un grande gesto per fini assolutamente egoistici e personali; moderato sostenitore dei diritti del Babbani, come in fondo erano anche altri di noi, cambiò le leggi sull'ereditarietà dei patrimoni all'estero per il puro capriccio di poter lasciare un pezzetto della fortuna di famiglia ai figli avuti dall'amante.
-Bruciatelo via dall'arazzo,- commentò Walburga tranquillamente, quando si seppe di quella storia.
Naturalmente nessuno lo fece; all'epoca il capofamiglia indiscusso era Arcturus Black, e lui proprio non era il tipo da abbandonarsi a quel genere di sciocchezze. Anni dopo la mia adorata sorella avrebbe giocato a suo piacimento con l'arazzo e la bacchetta, ma allora cancellare un Black era una cosa grave e in genere veniva concordata con l'interessato: mia zia Cedrella, ad esempio, aveva sposato un Weasley ed aveva accettato di essere eliminata purché le fosse concesso di farlo; ed i motivi, comunque, erano puramente questioni di denaro ed eredità che bisognerebbe essere uno di noi per capire.
Però la questione di Phineas rimase sospesa per gran parte di quell'estate: gli venne fatto sapere discretamente che non aveva più l'appoggio politico ed economico della famiglia, e lui si dimise dal suo posto di lavoro senza tanto chiasso. Ma il suo ufficio era uno dei più influenti ed importanti occupati per tradizione dai Black, e la questione primaria diventò rapidamente la successione a quella carica.
Io ero il più qualificato tra i giovani, e per un periodo piuttosto lungo pensai che sarebbe toccato a me. Mi seccava; si trattava infatti di un posto all'Ufficio Relazioni con l'Estero, e per poterlo occupare avrei dovuto lasciare immediatamente il mio lavoro, che mi piaceva e mi lasciava molto tempo libero, per qualche anno obbligatorio di tirocinio presso i Ministeri Esteri della Magia.
Non volevo andarmene. Ero un uomo abitudinario, e volevo rimanere nella mia casa, con la mia famiglia, e naturalmente soprattutto con Walburga. Lei non diceva nulla di tutta quella faccenda, ma quell'estate prese a venire nella mia stanza con ogni scusa, quando mi ritiravo per leggere in pace, dandomi la sensazione che non volesse separarsi da me. Quel suo comportamento mi riempiva di gioia, soprattutto quando per passare il tempo con me trascurava evidentemente Orion e i suoi doveri.
-Io non voglio andare via, Walburga- le dissi un pomeriggio, proprio nei giorni in cui sembrava più probabile una mia partenza ancor prima della fine dell'estate. Ero seduto alla scrivania con il giornale aperto davanti, e lei si mise alle mie spalle e mi accarezzò i capelli, facendomi perdere la concentrazione al punto che non comprendevo più nemmeno i titoli della Gazzetta.
-Vedrai Parigi, e tutte le grandi città- mi disse, insolitamente dolce, per consolarmi. -A me piacerebbe poter viaggiare-.
Impulsivamente le afferrai un polso, mi girai e la fissai negli occhi.
-Verresti con me?- le chiesi.
Walburga non ha mai abbassato lo sguardo neppure per gioco, davanti a me. Non lo fece neanche quella volta; mi fissò con un'intensità che mi fece tremare le gambe, nonostante mi sforzassi di pensare che era solo mia sorella, dopo tutto, che conoscevo da prima ancora di venire al mondo, nel grembo che avevamo diviso.
Poi si chinò su di me e mi baciò morbidamente le labbra, appena un istante. Troppo sconvolto, le lasciai la mano e rimasi a guardarla senza la capacità di parlare, mentre usciva. Fissai la porta per qualche minuto, troppo imbambolato anche solo per iniziare a capire cosa fosse successo tra di noi in quel breve istante.

Sarebbe una buona storia, a questo punto, se io raccontassi che in quel momento cambiò qualcosa. Eppure non successe; mi interrogai su quel bacio, ma più ancora sul suo significato. Mi sembrava evidente, e mi faceva felice, che Walburga non fosse contenta della mia imminente partenza. Ma il significato che cercavo in quel gesto era molto più concreto: dunque, sarebbe venuta con me? L'avevo chiesto per dimostrarle perché non volevo partire, ma l'immagine mi tentava infinitamente. Sapevo che era impossibile: le donne dei Black avevano fin troppi doveri per andarsene in giro per l'Europa con i loro fratelli, soprattutto alle porte di un matrimonio a cui la famiglia teneva particolarmente. Ma avevo assaggiato quella speranza con la sua bocca ed era così dolce che non volevo privarmi di quel sogno.
E naturalmente, se avevo interpretato il suo gesto correttamente, significava anche che le avevo domandato di scegliere tra me ed Orion, e lei aveva scelto me. Quel pensiero mi riempiva di una gioia così grande che dimenticai quasi di essere suo fratello, e senza accorgermene scivolai molto naturalmente nel ruolo del pretendente, almeno nella parte più istintiva delle mie fantasie.
Scesi a cena, quella sera, più di buon umore di quanto lo fossi stato nei giorni precedenti.
Avevamo ospiti, come quasi sempre quell'estate: se noi non cenavamo a Grimmauld Place, erano Orion e la sua famiglia ad essere invitati da noi, da quando tirava aria di matrimonio tra i nostri due rami.
E naturalmente c'erano tutti; Arcturus con il suo cipiglio severo, Lucretia e il suo novello sposo, mio fratello con la sua fidanzata e i nostri genitori. Walburga sedeva vicino ad Orion, come sempre, di fronte a me. Mi sorrise molto naturalmente quando mi sedetti, e la ricambiai allo stesso modo. Nessuno, mai, vedeva nulla di strano nei nostri comportamenti. Nessuno faceva caso a come guardavo mia sorella.
La conversazione virò in breve sul problema creato da Phineas, come capitava sempre, in quelle serate. Ogni volta la mia necessaria partenza sembrava più vicina e probabile, e quella sera non fece eccezione, complice il mio buon umore che sembrava rassicurare i miei genitori sulla mia buona disposizione per quel compito.
Poco prima del dolce sembrava che si sarebbe arrivati ad una decisione quella stessa sera.
Poi Walburga prese la parola. Non lo faceva spesso, nelle cene di famiglia; da tempo aveva smesso i suoi adorabili capricci, in favore di un comportamento che lei stessa definiva "decoroso e degno del nostro buon nome". Tutti si voltarono a guardarla, quando si schiarì la voce.
-Perché deve farlo Alphard?- chiese, con un'aria abbastanza innocente e casuale da ingannare quasi tutti, al tavolo. Tranne, ovviamente, me, che fin da bambino avevo preso le misure ad ogni sfumatura della sua voce e della sua espressione. Mia sorella sorrise ad Arcturus, che in fin dei conti doveva prendere la decisione, e si voltò verso Orion guardandolo con aria fiera, e prendendogli la mano.
-Orion è molto più qualificato- continuò. -Alphard non sa che poche parole di francese; Orion adora le lingue straniere, e sarebbe una bellissima esperienza, per lui. Inoltre Alphard ha già intrapreso tutta un'altra carriera. Quel posto è importante, e con un po' di preparazione Orion sarebbe l'uomo ideale per quella carica- disse.
Arcturus la osservò con il suo cipiglio più pensieroso, mentre si asciugava la bocca nel tovagliolo.
-Ci avevo pensato- ammise. -Orion ha l'inclinazione per questo genere di lavoro molto più di Alphard; e io stesso ho sperato spesso che avesse la possibilità di viaggiare e vedere il mondo, come l'ho avuta io da giovane. Ma mi sembrava di aver capito che voi due voleste sposarvi prima possibile- disse, fissando Walburga.
Orion aprì la bocca per parlare, ma con tutta la discrezione possibile io gli colpii un ginocchio sotto il tavolo, e mentre mi scusavo Walburga lo precedette.
-Ma è importante che in quel posto ci sia una persona qualificata, soprattutto adesso che è necessario rimediare ai guai che ha combinato quel Babbanofilo. Orion è la persona più adatta, e se è per il bene della famiglia, siamo pronti ad adeguarci- disse, decisa, guardando nostro cugino.
Lui esitò un attimo, ponderando chissà cosa, sorpreso dall'intervento di Walburga. Poi annuì, frastornato da lei, come sarebbe sempre stato.
Probabilmente in quel momento capimmo tutti chi avrebbe veramente retto le sorti della famiglia negli anni a venire. Sicuramente lo capì Arcturus, ed io non ero mai stato così fiero di mia sorella come quando vidi l'apprezzamento negli occhi del nostro capofamiglia.
Sarebbe durato poco. Ma allora non lo sapevo; non sapevo a cosa stavamo condannando la famiglia Black, tutti, per omissione o complicità. Quella sera mi importava solo del fatto che non sarei partito, che sarei rimasto con Walburga mentre Orion andava lontano, come nei sogni che coltivavo da anni.

Provo un po' di vergogna nell'ammettere che quello fu il periodo più bello della mia vita. Tranne nei brevi momenti in cui scriveva ad Orion, per la maggior parte delle giornate mia sorella era tutta per me. E ancor di più mi compiaceva il pensiero che le avessi in qualche modo chiesto di scegliere tra Orion e me, e lei avesse scelto me, al di là delle mie aspettative. La guardavo, meravigliato ed incantato dalla sua incredibile furbizia, e continuavo a vederla sorridere ad Orion mentre lo spediva fuori dalle nostre vite per un periodo lunghissimo.
Passavamo quasi tutto il nostro tempo insieme. Cygnus si sposò la primavera successiva, lasciandoci in casa soli con i nostri inconsapevoli genitori. Per un po' si parlò anche di farmi sposare un qualche buon partito di cui ora nemmeno ricordo il nome; ma ero contrario ed ancora giovane, e mio padre lasciò perdere. Dicevano che amavo starmene da solo, e visto che in genere ero portato per carattere alla solitudine, non mi premuravo di ricordare loro che in realtà dedicavo più che volentieri il mio tempo ad un'altra persona.
Walburga ed io frequentavamo sempre assiduamente le occasioni mondane. Lei era molto ammirata per la radicalità affascinante e limpida delle sue idee politiche, che già allora prendevano forma sempre più decisamente e trovavano una risposta forte nella buona società che era tutto il nostro mondo. Io, dal canto mio, stavo diventando rapidamente uno scapolo d'oro; ero apprezzato per il mio lavoro al Ministero, perché tendevo ancora, come da ragazzo, a prepararmi al meglio per non essere colto in fallo. Per di più ero ovviamente ricco; e per far contenta Walburga, che teneva molto alla mia immagine, avevo cominciato a vestirmi e pettinarmi secondo le mode del momento, finendo per rappresentare sempre e comunque l'immagine del perfetto Purosangue da Settimanale delle Streghe.
Solo una piccola parte della mia vita strideva con il resto, ma all'epoca non le davo nessuna importanza. Andava molto di moda avere dei vizi segreti, e anch'io ne avevo uno.
Mi piaceva frequentare il mondo del Babbani.
Walburga non ne sapeva nulla, e stavo molto attento che quella situazione non cambiasse; ma nella nostra cerchia ristretta mi mancavano certe emozioni, e la buona società londinese suppliva a quelle mancanze, le sere che uscivo da solo. Non credo che lei sia mai venuta a sapere di quella mia vita parallela. Quando tutto poi cambiò e lasciai la diretta protezione della mia famiglia, però, mi tornò utile quella conoscenza segreta.
Avevo persino un amante babbano, un ragazzo bellissimo con una bocca incredibile e mani nervose che mi facevano impazzire. Era un giovane alcolizzato, ma non nella maniera becera di tanti: beveva con una tristezza squisita e, anche se non vendeva affatto i suoi favori e spergiurava di essere pazzo di me, si aspettava sempre che gli dessi un po' di denaro dopo i nostri incontri, e accettava volentieri i miei regali. Anche così, lo preferivo a tutte le donne che comunque avevo, ma che finivo inevitabilmente per confrontare dentro di me con colei che non aveva rivali.
Per il resto, ero tutto di Walburga e lei era tutta mia.
Giocavamo con le nostre nipoti, parlavamo di qualsiasi cosa e la sera, quando non uscivamo ed io non ero perso nel mio mondo segreto, facevamo tardi discutendo del mio lavoro, della nostra famiglia e di tutto quello che ci aspettava nel futuro.
Nonostante tutto ciò che successe poi, nonostante l'odio che si intromise tra di noi, più avanti nella nostra storia, ancora adesso posso vedere che eravamo fondamentalmente felici, in quegli anni.
Tutte le storie hanno un periodo dorato, dove sembra che nulla possa andare male e che tutto debba rimanere per sempre così perfetto.
Tutte le storie assistono inevitabilmente alla fine drammatica di quest'epoca preziosa.

La nostra fu segnata dal ritorno di Orion in Inghilterra.
Nostro cugino aveva trascorso diversi anni a far da ambasciatore nei ministeri stranieri, traendone grande soddisfazione personale e aumentando di momento in momento il suo potere in patria, sebbene all'epoca non ce ne rendessimo conto. Tornò in grande stile, annunciando il suo rientro con settimane di anticipo, per arrivare tra i fasti a casa, dove tutti noi, la sua famiglia, attendevamo trepidanti il ritorno dell'erede.
Quasi tutti. Io naturalmente ero tutto tranne che contento di quello sviluppo. Quando sapemmo che quell'esilio era finito mi ritrovai ad augurarmi che quell'idiota si Spaccasse prima di mettere piede sul territorio nazionale, o che accadesse qualcosa di altrettanto definitivo e crudele. Non mi sentivo in colpa per quell'odio; mi sembrava giustificato, perché Orion tornava a togliermi di mano la vita perfetta e felice che ormai sentivo mia di diritto.
E lo fece. Si presentò con tutto lo sfarzo di cui noi Black siamo capaci, volendolo, una mattina di dicembre. Portava con sé doni per le sue nipoti che non aveva mai conosciuto, e naturalmente per Walburga. Offrì con grazia la sua presenza e ciascuno dei suoi racconti a tutti noi, conquistando in breve tempo la famiglia con modi adulti e sicuri che solo a me sembrarono sempre falsi.
Persino Bella ed Andromeda l'adoravano. Walburga poi, a detta di tutti, era rifiorita con il suo ritorno. Amici e familiari se lo contendevano a cena, e in generale per qualche tempo non si parlò d'altro. Io trovavo tutta quella situazione molto pacchiana, e se prima ero sembrato solitario, presi a ritirarmi nei miei spazi personali talmente spesso che mi feci una discreta fama di asociale, in famiglia.
Persino la risata di Walburga cominciò a suonarmi sgradevole. Di giorno leggevo quasi con ferocia qualsiasi cosa mi capitasse sotto mano, lamentandomi se venivo interrotto e facendomi servire i pasti alla scrivania.
La sera uscivo da solo, affogando nei vizi della Londra babbana, dimenticando la mia famiglia e quello spocchioso tra le braccia di donne ed uomini, che spesso e volentieri arrivavo a pagare per i loro servizi.
Non so cosa volessi ottenere. Non l'attenzione, come quando ero bambino, che evitavo con cura. Non Walburga, che comunque aveva occhi solo per Orion, con le sue forze tutte rivolte ai dettagli dell'imminente matrimonio.
Mi lasciavo andare, come se estraniandomi da tutto potessi convincermi che tutto quello non stesse capitando a me.

Alla fine mia sorella si sposò.
Non ricordo molto di quel matrimonio: avevo previsto di essere così ubriaco per tutto il tempo da non rendermi conto di cosa stesse accadendo.
Ma poi Walburga mi fece chiamare mentre le donne la preparavano, e varcai la soglia della sua stanza solo per rimanere abbagliato da lei, perfetta e bellissima come solo una sposa può essere, la mattina delle sue nozze.
-Comportati bene, Alphard- mi disse, seduta alla toeletta, guardandomi dallo specchio.
Annuii, troppo sconvolto dal vederla così per prendere sul serio le sue parole.
-No- mi rispose lei, e si alzò per mettersi davanti a me e posarmi le dita sulle spalle. Profumava di fiori. -Alphard,- mi disse, -giurami che non farai nulla di sconveniente-.
Non potevo dirle di no. Non sapevo dirle di no, non ne ero mai stato capace.
Fui l'ospite perfetto, senza il minimo dubbio. Mi limitai al vino che potevo sorseggiare durante i brindisi, e la guardai da lontano senza che il mio sorriso risultasse falso nemmeno per un istante. Dopotutto ero un Black, e se trent'anni in quella famiglia non mi avevano insegnato a mentire con disinvoltura, nulla l'avrebbe mai fatto.
Walburga mi concesse l'ultima danza di quella festa terrificante, prima di ritirarsi con il suo nuovo marito.
Mi sussurrò all'orecchio che mi voleva bene poco prima che la musica si fermasse.
E quella doveva essere la fine inevitabile di tutta la nostra storia.

Invece cominciò tutto qualche settimana dopo, dopo il ritorno di Walburga ed Orion dal loro viaggio di nozze.
Loro vivevano, naturalmente, in Grimmauld Place. La casa era stata la dimora principale della famiglia negli ultimi cent'anni; vi si trasferirono subito.
Non vidi nessun buon motivo per non seguirli.
A Walburga faceva piacere avere la compagnia di suo fratello, e con Arcturus ero sempre andato d'accordo. La casa era enorme e non vi abitava nessun altro, quindi, pensai, perché negarmi la possibilità di stare vicino a mia sorella?
Ormai mi rendevo conto che qualcosa di strano c'era, nei miei sentimenti per Walburga. Ma se ero stato così capace di rimanere sereno vedendola sposare Orion, cosa mi impediva di dichiarare conclusa la fase dei sogni sbagliati e della gelosia?
Walburga teneva moltissimo alla mia presenza. In un mese di matrimonio le ero mancato più di quanto avesse pensato. Eravamo gemelli; forse non eravamo fatti per essere separati.
Fu un inferno terribile.
Per la prima volta avevo mia sorella vicina, e percepivo ogni istante che lei non era mia. Era con Orion che parlava, con lui andava a passeggiare ed ogni volta che c'era una festa lei si metteva obbediente al suo fianco. Io ero solo Alphard, il fratello scapolo e solitario che non aveva diritti su di lei.
In capo ad un mese non potevo più sopportare quella situazione.

Ricordo la mattina in cui glielo dissi.
Orion era fuori. Io andai nella stanza privata di Walburga e mi sedetti sul suo letto, con la testa tra le mani. Walburga mi guardò; era vestita di chiaro, e curiosa, e bellissima.
-Non lo sopporto più- le dissi. -Vado via-.
Avevo sempre avuto un certo dono innato per la drammaticità.
-Non farlo, Alphard- mi pregò. Si sedette di fianco a me e mi prese una mano. -Non è la stessa cosa senza di te- disse.
Non l'avevo mai odiata come in quel momento. Ma in realtà era come me: non poteva volermi per sé, ma nemmeno lasciarmi andare. Mi arrabbiai, messo di fronte a quella realtà innegabile in cui eravamo incastrati.
-Non è vero!- le urlai contro. -Tu hai Orion, appartieni a lui. Lasciami andare- la implorai.
Non mi rendevo nemmeno conto di ammettere per la prima volta che il mio ruolo non era più quello del gemello; era, già da così tanto tempo da farmi impazzire, quello dell'amante eternamente illuso e respinto.
Walburga si allontanò da me come se l'avessi picchiata. Andò alla porta, e se fosse uscita forse non sarebbe successo nulla di più. Ma si fermò, e mi accorsi che piangeva, anche se mi dava le spalle, dal tremore della mano che serrava la maniglia.
-Non capisci, Alphard?- mi chiese. -Lui è mio marito. Tu sei mio fratello... che cosa devo fare?- chiese, non so se a me o a se stessa.
Smise di importarmi in quell'attimo.
Mi alzai, la raggiunsi e la feci voltare. Le guardai il viso, gli occhi grigi e le lacrime che li facevano splendere, la bella bocca imbronciata, la pelle bianca.
E poi la baciai.
Non avevo mai osato tanto e, anche se l'avevo sognato spesso, non avevo mai fatto nulla del genere. La baciai come baciavo i miei uomini e le mie donne, le sollevai i capelli con le mani, mi chinai su di lei e presi quello che, malgrado tutto, consideravo mio da sempre.
La presi contro il muro, come fosse una delle mie donne da poco. Ma non lo era; era Walburga, e da quel primo momento di passione fino al giorno in cui ci separammo non feci che adorarla, come avevo sempre fatto.
Dopo rimanemmo abbracciati sul suo letto, sentendo lentamente la coscienza che tornava a dominarci e si portava via quella gioia.
-Lo volevi anche tu, vero?- le domandai senza guardarla, perché non riuscivo a ricordare di averglielo chiesto.
-Non sono mai riuscita ad evitarlo- mi rispose. C'era qualcosa di amaro nella sua voce.
Mi resi conto che, a differenza di mia sorella, io non ci avevo mai nemmeno provato, ed improvvisamente era troppo tardi.

Durò quasi quattro anni.
Dovevo essere felice? Non penso di averlo mai saputo. Avrei dovuto esserlo; ma allo stesso tempo, come potevo? Lei era tutto quello che avevo sempre desiderato ed apparteneva ad un altro, ed era mia sorella.
Persino che lo sentissi come qualcosa di naturale era così sbagliato da darmi la nausea. Ma non potevo smettere di volerla, e comunque avevo problemi più gravi degli scrupoli morali che mi tormentavano, anche se me ne resi conto solo dopo.
Mi chiedo ancora se fu in quel periodo che Walburga impazzì. Propendo per il no; c'è una vena di follia che scorre nel nostro sangue senza che possiamo evitarlo, fin dalla nascita. Lo provava, al di là di ogni dubbio, il fatto che fossi l'amante di mia sorella e nessuno di quanti ci erano vicini se ne accorgesse. Tuttavia fu in quel periodo che la sua pazzia cominciò a corrodere la nostra famiglia, trasformandola in quello che è ora.
Ed io la amavo, e non vedevo cosa stava diventando.
Era sempre stata un po' ossessionata dal sangue puro; bizzarra nella sua inflessibilità, che per lo più in famiglia consideravamo un vezzo. Quando cominciò a consultare vecchi libri pieni di genealogie non ci facemmo caso. Sicuramente non io; in quegli anni ogni volta che la guardavo riuscivo solo a sentire il sapore della sua pelle sulla lingua ed il calore del suo corpo, e la vergogna che dimenticavo per qualche ora ogni volta che entravo nel suo letto.
-Lo sai- mi disse, una notte, durante uno dei viaggi di Orion, -il nostro sangue è il più puro di tutti, in famiglia-. Aveva una voce sognante e dolce.
Le dissi che non lo sapevo; le dissi che mi faceva piacere, solo perché mi sorridesse in quel modo tenero e fiero, come ogni volta che l'accontentavo.
-Quello di Orion non lo è altrettanto- continuò, pensandomi interessato e ignorando completamente che lo ero, ma solo alla sua bocca, e che mi chiedevo se avesse voglia di fare di nuovo l'amore. -Quasi; ma non è la stessa cosa- disse, e se ben ricordo un attimo dopo la baciai, ignorando il discorso, insieme alla sua sempre crescente ossessione.
Non vedevo; non mi importava, e non era affare mio.
A quel tempo non poteva fare nulla di concreto, comunque. Arcturus era il capofamiglia; anche se Orion era il solito smidollato, e lei lo manipolava a suo piacimento, non erano loro a tenere le sorti dei Black in mano. Le permettemmo di giocare con i suoi sogni di sangue purissimo. Nessuno di noi capì.

Mi chiedo ancora, ero felice, in quel periodo?
Ero turbato ed inquieto, forse, ma erano brevi momenti, come quelli in cui annegavo nel disgusto per me stesso e nella nostalgia. Forse, a ripensarci, erano i momenti in cui ero davvero lucido e cosciente quelli in cui stavo male; ma erano pochi e distanti tra loro, e sempre e comunque soffocati dalla presenza di Walburga.
Non frequentavo più la Londra babbana. Avevo dimenticato i miei amanti dal giorno alla notte, quando avevo avuto quella che desideravo davvero, e non parlavo più di lasciare Grimmauld Place. Non odiavo neanche più Orion, per la verità; lo trovavo irritante e noioso, ma ero più che ben disposto a sopportarlo. Se lui faticava a tollerare me, era un problema suo.
La mia esistenza era tranquilla quanto poteva esserlo in quella situazione; vivevo per Walburga, come avevo sempre fatto, ma finalmente dopo anni di rinunce avevo il mio premio. Definirei la mia vita in quei giorni in equilibrio; andavo avanti giorno per giorno, e il male compensava il bene, ai miei occhi.

Quando Walburga rimase incinta, l'equilibrio cambiò.
Fu una cosa sottile. All'inizio non mi sfiorò nessun dubbio; vedevo solo che lei era felice, ed ero felice per lei, come era sempre stato. La vedevo persino più bella; mi ero rifiutato di farmi toccare dal fatto che i suoi lineamenti si erano fatti più duri, anno dopo anno, che la sua dolcezza era pian piano scomparsa, dopo la prima giovinezza. La gravidanza ammorbidì il suo viso, oltre che la sua figura. Era felice, radiosa, persino tenera nel modo in cui si sfiorava la pancia, prima ancora che si vedesse il più vago gonfiore. Sembrava incredibilmente contenta di diventare madre.
Non vedeva l'ora di avere un figlio di sangue puro. Ma tutti le sorridevamo indulgenti quando lo diceva; ormai era quasi un gioco, quella sua ossessione.
Con il crescere del bambino dentro di lei, crebbe anche la mia inquietudine. Andavo ancora da lei, di notte, quando Orion era impegnato o distante. La accarezzavo come avevo imparato, persino più teneramente, ed osservavo ogni segno del manifestarsi della vita che cresceva in lei. Più si avvicinava il momento del parto, e la sua gioia cresceva, più io mi facevo delle domande. All'inizio mi sembrava impossibile, impensabile avere il dubbio. Ma arrivai al punto di esserne ossessionato.
Fu colpa di Walburga; la trovai a ricamare un motivo di fiori sul risvolto di un lenzuolino da culla, che poteva essere appartenuto a lei o a me, da piccini. Mi sembrò strano, però, il colore del filo che aveva in mano.
-Non esistono fiori grigi, sorellina- le dissi, chinandomi ad osservare il suo lavoro.
-Lo so,- mi rispose, senza nemmeno alzare gli occhi, dando un altro punto, -ma è probabile che il bambino abbia gli occhi grigi, e si intoneranno bene con il ricamo-.
Quell'affermazione mi gelò completamente. Io e Walburga avevamo gli stessi occhi grigi; ma quelli di Orion erano verdi, ed Arcturus, che era suo padre, li aveva neri. Il bambino avrebbe potuto avere gli occhi di uno qualsiasi di questi colori, se non di mille altri. Perché grigi, come i nostri? Come i miei?
Non avevo mai valutato davvero le conseguenze delle mie azioni. Era un tratto del mio carattere, probabilmente. Tendevo ad essere impulsivo, e non mi era mai dispiaciuto. Ma acquistava un altro significato, in quel momento.
Cominciai a cercare di convincermi che fosse solo un caso, quell'affermazione di Walburga; ma più mi ripetevo che non era possibile che fosse accaduta una cosa del genere, più mi sembrava concreta la possibilità.
Mi terrorizzava; non era nemmeno una questione morale. Mi piacerebbe poter dire che avevo scrupoli etici, ma la verità è che mi disgustava in maniera molto istintiva l'idea che il figlio di mia sorella potesse essere mio figlio.
Lei si comportava come se la possibilità non la sfiorasse nemmeno; continuava a toccarmi la mano, la sera, quando voleva che la raggiungessi, ed io continuavo ad andare da lei. Non sembrava turbata.
Io mi agitavo. Cominciai ad allontanarmi, un paio di giorni alla volta, da quell'atmosfera sempre più gioiosa, che a me faceva sempre più paura, man mano che la gravidanza procedeva.
La famiglia aveva una vecchia proprietà trascurata in campagna, nel Surrey, una casa e un bel pezzo di terreno; mi dedicai in segreto a risistemarla, e in breve divenne una specie di rifugio per me, come anni prima era stata la vita della Londra babbana. Ripresi i contatti con vecchi amici dei tempi della scuola, che avevo lasciato allentare negli ultimi quattro anni, pieni solo di Walburga. Mi ritagliai un mio spazio; di lì a poco mi sarebbe tornato utile.

Ero nel Surrey quando Walburga ebbe le doglie, e nessuno si premurò di avvisarmi, naturalmente. Credo che Orion, per lo meno, si godesse quanto me le mie assenze, e non avesse nessuna voglia di richiamarmi; o forse non ne ebbe il tempo. Ho sempre pensato il peggio possibile di lui, e a volte mi chiedo se davvero fosse così insopportabile come lo ritenevo. Ma è passato tanto tempo; non mi sento in dovere di riconciliarmi con lui nemmeno nei miei ricordi.
Tornai a casa dopo una vacanza di tre giorni, dunque, e scoprii di avere un nipote, il primo maschio della famiglia dalla nascita di mio fratello.
Un piccolo erede per i Black. Grimmauld Place era in festa.
Trovai Walburga nella sua stanza, china sulla minuscola culla.
Non osavo guardarvi dentro; salutai mia sorella dalla porta, senza trovare il coraggio di entrare.
-Come l'hai chiamato?- chiesi, per prendere tempo.
Lei mi guardò, con gli occhi cerchiati per la stanchezza, ma scintillanti di orgoglio.
-Sirius- rispose. -Vieni a vederlo, Alphard- mi ordinò.
Feci un passo avanti, esitante. Un parte di me, decisamente irrazionale, si figurava in qualche modo un qualcosa di mostruoso; i piccoli vagiti che venivano dalla culla mi sembravano inquietanti.
Poteva essere...? Non volevo vederlo.
Ma Walburga non me lo permise. Sollevò dalla culla un fagottino di stoffa scalciante, lo accostò al petto e si sedette sulla sedia comoda che era stata di nostra madre, e attorno a cui avevamo giocato quando eravamo veramente piccoli. Il bambino accennò a piangere, ma Walburga lo cullò e lui smise quasi subito.
-È buono,- commentai, scioccamente. Mi ricordavo bene i pianti di Andromeda neonata.
Walburga rise. -Perché ha appena mangiato; non ho ancora dormito un'ora da quando è nato,- mi rispose.
Mi colpì il fatto che nel dirlo sorridesse al bambino; sembrava felice.
-Vieni a vederlo, Alphard; è bellissimo- disse.
Dunque non era il mostro che popolava i miei incubi. Mi avvicinai, esitando ancora un poco. Quando le fui di fronte, Walburga scostò la cuffietta dal viso del bambino, e vidi per la prima volta mio nipote.
Sirius Orion Black era effettivamente un bambino molto bello, per quanto possa esserlo un neonato di due giorni. Aveva la testa coperta di una morbida lanuggine, già nera come i capelli di sua madre, una piccola bocca aperta, e mi guardava con due occhi grandi e allungati che conoscevo benissimo. Avevo molte foto di un bambino identico.
Mi mancò il fiato.
-Walburga,- le dissi, -lui è... somiglia a...- balbettai, incapace di finire una frase. Mi sentivo male.
Mia sorella mi guardò con un'espressione dura. -Anche se fosse, somiglierà a me- disse.
La guardai. Ero sempre stato concentrato su quanto fossimo diversi, lei ed io. Per carattere, inclinazioni, modi di fare. Tendevo a dimenticare che eravamo anche identici; due versioni della stessa persona. Avevamo gli stessi occhi, gli stessi capelli, le stesse mani magre e nervose e la stessa mascella decisa. Da bambini era veramente difficile distinguerci, e le nostre fotografie erano mescolate.
E sapevo bene che se ne avessi presa una, mia o di Walburga, per metterla vicino al neonato sarebbe stata identica.
Rimasi a guardare quel bambino che poteva essere mio nipote, o che poteva essere mio figlio, per diversi minuti, senza sapere cosa pensare. Sua madre lo cullava dolcemente, come se non ci fosse nulla di meglio al mondo, e quella inusuale visione di mia sorella così affettuosa mi intenerì, nonostante tutto.
Allora abbassai la testa, sfiorai con un dito la guancia del bambino e baciai quella di mia sorella.
Fu un momento di serenità, credo, in tutto quel marasma di emozioni.
Poi, naturalmente, Sirius cominciò a strillare.

Mi piacque fin da subito occuparmi del piccolo Sirius; e naturalmente, la sua nascita non cambiò affatto l’amore che provavo per Walburga. Eppure presi a passare sempre più tempo nel Surrey.
La nascita di mio nipote alterò un equilibrio da cui non sapevo di dipendere, e in quel momento di nuovo tentai di lacerare la trama di quel legame troppo denso e allontanarmi da mia sorella.
Competere con Orion per le sue attenzioni era sempre stato, per me, una sfida, fomentata dall’antipatia per mio cugino e dal valore immenso che davo al premio promesso. Ma quando Walburga prese a trascurarmi per prestare attenzione al piccolo Sirius, non potei risentirmene. Era felice di essere madre, di passare le sue giornate cullando quel bimbo, di vantarsi con i parenti e gli amici in visita della sua bellezza e del suo sangue purissimo. Non mi cercava più, la sera, ma sapevo che era stanca e che la maternità l’assorbiva completamente, e non ci feci caso. Mi rendeva solo le cose più semplici.
Avevo deciso di troncare la nostra relazione intima. Mi illudevo di poter smettere di desiderarla; ma anche non riuscendoci del tutto, pensavo che in fondo ero un uomo, non più un ragazzo, e potevo controllarmi. Sirius era arrivato, perfetto e in salute, indipendentemente da chi fosse suo padre; ma non avrei rischiato una seconda volta.
Era, naturalmente, molto più facile convincermi della giustizia del mio intento che mantenerlo. Addirittura, attribuivo alla mia scelta una certa nobiltà: pensavo al futuro della famiglia Black, chiaramente, a quel che sarebbe accaduto se le azioni sconsiderate mie e di mia sorella avessero provocato uno scandalo. Era giusto, dunque, lasciarla perdere, nell’interesse di tutti; ma non era facile mantenere quel proposito, restando a Grimmauld Place.
Presi a recarmi nel Surrey sempre più spesso. Il mio lavoro mi permetteva di passare molto tempo a casa, e non avrei davvero avuto bisogno di soggiornare a Londra. Ma, devoto com’ero, non trascuravo mai di passare un po’ di tempo con la mia cara sorella e il mio vivace nipotino.
Mi dichiarai guarito dall’infatuazione che aveva sconvolto la mia vita fino a quel momento, circa quattro mesi dopo la nascita di Sirius. Due mesi dopo, Walburga era di nuovo incinta ed ebbi modo di rendermi conto di quanto fossero futili le mie pretese, e di quanto io fossi sempre lo stesso egoista, sciocco e presuntuoso uomo che continuava a mentire a chiunque, prima di tutto a se stesso.

Quando infine nacque Regulus, poco più di un anno dopo la nascita di Sirius, ero ormai un ospite fisso in Grimmauld Place, ma nessuno si comportava più come se abitassi lì. Rimanevo morbosamente legato a mia sorella, ma ero sicuro che il suo secondogenito non fosse figlio mio.
Per un ironico scherzo del destino, Orion era all’estero quando suo figlio venne al mondo, e fu a me che Walburga si rivolse subito dopo il parto, perché l’aiutassi con la casa ed i parenti in attesa di notizie, ed in generale, perché le stessi vicino.
Andai a trovarla che era ancora a letto, con il neonato attaccato al seno. Avevo Sirius in braccio, che mi guardava un po’ spaventato da tutta quella confusione nella sua casa e giocava con i miei capelli, per rassicurarsi.
-Andiamo a vedere tuo fratello?- gli chiesi.
Non sapevo trattare con i bambini; come avevo fatto con le mie nipoti, anni prima, mi limitavo a parlare loro come se fossero adulti, ed a spiegare più semplicemente possibile qualsiasi cosa non capissero. Sirius mi guardò molto seriamente, per un attimo, poi si mise un dito in bocca e fece segno di sì con la testa.
Risi, ed insieme ci avvicinammo a Walburga e Regulus.
Quello era un bambino che non avevo paura di guardare. La sua nascita non mi riempiva di disgusto o ripugnanza; non temevo che fosse mostruoso, e non pensai, vedendolo per la prima volta, che somigliasse a qualcuno in particolare. Guardandolo provai la stessa sensazione che ricordavo dalla nascita di Bella, o di Andromeda, o di Narcissa. Ero felice di avere un nipote, ma fin da subito sentii indiscutibilmente la differenza tra l’affetto spontaneo per il nuovo nato e l’attaccamento viscerale ed istintivo che fin dai primi giorni della sua vita avevo sentito per Sirius. In fin dei conti, mi accorsi con orrore proprio facendo quel confronto, non mi disgustava più così tanto che il figlio di mia sorella potesse essere mio. Non avevo dunque più nemmeno quello scrupolo morale? Eppure, a poche ore dalla sua nascita, già sapevo che non sarei mai stato legato a mio nipote Regulus come lo ero a Sirius.
Poi Walburga mi sorrise, e dimenticai quei ragionamenti. Mi sedetti sul materasso di fianco a lei e feci al piccolo Regulus i complimenti e le moine del caso. Lo presentai formalmente a Sirius, cosa che fece ridere persino Walburga, nonostante fosse esausta, e rimasi con loro per qualche minuto, ritirandomi proprio quando Arcturus entrava a conoscere suo nipote.
Sorrisi al vecchio orgoglioso, mi chiusi la porta alle spalle e posai a terra Sirius, che aveva da poco imparato a camminare da solo, perché potesse muoversi liberamente per il corridoio.
Poi mi sedetti sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro, guardando il bambino che giocava e chiedendomi ossessivamente quanto disgustosa fosse, in quella situazione, la mia gelosia.

Forse a questo punto della mia storia avrei potuto semplicemente allontanarmi gradualmente da Walburga, lasciare che la distanza tra Londra e il Surrey spegnesse quello che ci legava, e magari rifarmi una vita. Non avrei mai potuto, in ogni caso, essere un padre per Sirius; mi andava benissimo il ruolo dello zio dedito a visite sporadiche e latore di regali.
Ma successero due cose che cambiarono definitivamente la mia storia. La prima mi riportò di peso in seno alla famiglia; la seconda mi riportò a Walburga, e in seguito decretò la mia rottura con i Black.

Sirius aveva quattro anni quando sua madre assunse per lui il primo precettore; se avessero chiesto a me un’opinione in materia, avrei detto che era troppo piccolo: nessuno di noi aveva cominciato la sua istruzione prima dei cinque anni. Ma è pur vero che Sirius era precoce, e molto vivace già a quell’età, e che la sua educazione era importante per tutta la famiglia, visto che un giorno sarebbe stato lui a capo dei Black. Preoccuparsi in anticipo di formare la sua mente ed incanalare in attività adeguate la sua energia non sembrava del tutto sbagliato a nessuno di noi.
Walburga ed Orion non facevano davvero molto caso al bambino, se non per richiamarlo quando non si comportava bene. Arcturus era sempre stato attento, e sono sicuro che fosse molto affezionato a Sirius, ma era vecchio e, anche se non ce ne rendevamo conto, all’epoca, la sua mente non era più quella di un tempo.
Io mi accorsi che Sirius aveva qualcosa di strano; tuttavia all’inizio pensai che faticasse ad adattarsi al nuovo regime di studio imposto dai suoi genitori, e non ci feci molto caso.
Notai che nei tre mesi dall’inizio della sua istruzione Sirius si era fatto taciturno ed ombroso, e mi parve anche, prendendolo in braccio durante uno dei nostri giochi, che avesse perso un po’ di peso. Tuttavia non ne parlai a Walburga, né tantomeno ad Orion; non credevo fosse importante.
Una mattina in cui mi trovavo a Grimmauld Place, mentre aspettavo che un elfo domestico mi servisse il tè nel salotto in cui stavo leggendo la Gazzetta, sentii chiaramente mio nipote che mi chiamava, dal piano di sopra. L’avevo salutato poco prima, lasciandolo alle cure del precettore per dedicarmi alle mie attività mattutine.
Mi sembrò strano che chiamasse me, se aveva bisogno di qualcosa: come avevo previsto quando avevo smesso di considerare Grimmauld Place casa mia, per Sirius ero lo zio preferito, quello che lo faceva giocare e lo portava, di nascosto da sua madre, allo zoo babbano e al parco. Ma non era certo a me che si rivolgeva quando aveva fame, o era triste, o aveva qualsiasi altra necessità che lo costringesse a chiamare un adulto.
Salii le scale ed entrai in biblioteca senza bussare; la scena che vidi mi gelò il sangue nelle vene.
Sirius stava piangendo disperato, in piedi in mezzo alla stanza. Attorno a lui i libri ed i quaderni, su cui, immaginai, stava facendo lezione fino a poco prima, erano sparsi sul pavimento, strappati come se fossero stati lanciati in giro da un vento furioso; mi resi conto per la prima volta che Sirius era già in grado di fare magie spontanee, ma quel pensiero piacevole sparì in un attimo, quando vidi il giovanotto che la mia famiglia aveva assunto perché si prendesse cura dell’erede alzare una sottile canna di legno e calarla violentemente sulle mani di mio nipote.
Gli urlai di fermarsi e Sirius, sentendo la mia voce, si girò e fuggì via dal secondo colpo che l’uomo stava già preparando, per venire a rifugiarsi in braccio a me.
Lo strinsi; non ero mai stato così arrabbiato in vita mia, e sfoderai la bacchetta.
-Dammi un buon motivo per cui non dovrei sfidarti a duello, qui ed ora,- dissi al precettore. –Stai picchiando mio nipote-.
L’uomo si imporporò.
-È il mio lavoro, Monsieur,- mi disse. Parlava con uno sgradevole accento francese, ed osava persino avere l’aria offesa dalle mie parole.
-Non credo proprio,- ringhiai. Sirius singhiozzò, e nascose il viso contro il mio collo. –Ti paghiamo per insegnargli. Nessuno ti autorizza a fargli del male-.
Quell’uomo disgustoso ebbe il coraggio di storcere il naso. –Il bambino mi manca di rispetto, e non si impegna-.
Io persi la testa completamente. –Ha quattro anni!- gridai. –Pensi che voglia starsene a sentire le tue ciance?-
Avevo già cambiato la presa sulla bacchetta in quella da duello. Ero pronto a colpirlo, senza dubbio.
-Cosa ti salta in mente, Alphard?- disse una voce alle mie spalle.
Mi girai e mi trovai faccia a faccia con la persona che meno avevo voglia di vedere, specialmente in un momento in cui ero già arrabbiato di mio. Mio cugino Orion stava sulla porta, e guardava me come se fossi impazzito.
-Questo idiota stava picchiando il bambino- gli dissi.
Orion non si indignò. Non sembrò nemmeno stupito, e la sua indifferenza mi ricordò perfettamente perché lo odiavo. Scrollò le spalle. –Sirius è indisciplinato- disse, semplicemente. –Se non obbedisce, ci vuole una mano ferma-.
-Non intenderai permettere una cosa del genere?- chiesi. Fino a quel momento, onestamente, avevo pensato che l’odio per Orion fosse una mia colpa. In quel momento, mi sentii del tutto giustificato, per la prima volta nella mia vita. Forse per quello mi fece così infuriare quello che Orion disse dopo.
-Non intrometterti, Alphard,- rispose. –Sirius è mio figlio, e la sua educazione non è certo affar tuo-.
Sirius singhiozzò di nuovo, contro la mia spalla. Di riflesso, gli appoggiai una mano sulla schiena, per rassicurarlo. Per compiere quel gesto così semplice, rinunciai alla Maledizione che avevo in mente di lanciare ad Orion.
Comunque, se quello di mio cugino voleva essere un colpo basso, era andato più a segno di quel che credeva possibile. Non avrei mai potuto neanche pensare di agire come se Sirius fosse mio figlio, ma non tolleravo nemmeno per un momento l’idea che uno dei suoi genitori si comportasse con tanta inutile durezza con un bambino così intelligente ed allegro. Ripensai a come era cambiato Sirius negli ultimi mesi, e provai colpa e rabbia per non essermi accorto di quel che stava succedendo, e ancor di più per non averlo fermato.
-Questa feccia è il meglio che puoi permetterti per la sua educazione, Orion?- chiesi. Volutamente, usai un tono disgustato e duro che non era da me; stavo imitando Walburga, cosa che non avevo mai fatto, prima, almeno consapevolmente. Tutti sapevano quanto fossimo diversi. Quel giorno, davanti all’ingiustizia commessa ai danni di Sirius, mio cugino finì per imparare quanto potessimo essere uguali.
Orion sgranò gli occhi. Non gli lasciai il tempo di ricomporsi abbastanza da trovare una risposta.
-Hai deciso di trascinare tutta la famiglia nel fango?- continuai. –Come puoi affidare l’erede dei Black ad un idiota che non sa nemmeno catturare l’attenzione di un bimbo di quattro anni, se non picchiandolo?-
Il precettore respirò rumorosamente, ma ebbe il buon senso di non interrompermi.
-Fuori- gli intimai. –Sei licenziato-.
-Come osi?- sbottò Orion. –Non spetta a te decidere chi debba insegnare al bambino!-
-Gli insegnerò io, personalmente- dissi.
Non credo di essermi reso conto, in quel momento, che mi stavo offrendo di tornare ad abitare a Grimmauld Place in pianta stabile. Non feci altro, in realtà, che reagire alle circostanze. Non pensavo di poter fare nulla di diverso.
Orion spalancò la bocca, ed io gli sorrisi, un po’ malignamente. Aveva appena riguadagnato un nemico tra le mura domestiche.
Senza aggiungere una parola, strinsi Sirius e me ne andai dalla stanza, con il bambino in braccio che si aggrappava al mio collo con tutte le sue forze. Il cuore mi batteva a mille, come se avessi corso. Ero elettrizzato e, a dire la verità, non mi ero mai sentito così fiero di me stesso.
Posai Sirius solo quando arrivammo in cucina. Lo feci sedere sull’enorme tavolo di mogano che usavamo per la colazione, quando abitavo in quella casa. Che, mi resi conto in quel momento, a quanto pareva avrei usato ancora, in futuro.
Sirius aveva il viso rosso e bagnato di lacrime; mi guardava con occhi sgranati, enormi e grigi sotto la frangia spettinata, e con un misto di paura ed ammirazione che mi spinsero a sorridergli. Lui si asciugò le lacrime con la manina, su cui spiccava il segno rosso della bacchetta del precettore.
-Kreacher- chiamai. L’elfo domestico preferito da mia sorella si Materializzò subito.
-Padron Alphard?- chiese, inchinandosi.
-Essenza di Dittamo, subito- ordinai. –E poi una bella cioccolata calda per me e per Sirius- aggiunsi. Il bambino si illuminò.
L’elfo si inchinò di nuovo.
-Kreacher?- chiamai ancora, poco prima che scomparisse. –Avverti mia sorella che avrò di nuovo bisogno di una stanza personale-.

Forse sarebbe finito tutto molto prima, e molto meglio, tra me e Walburga, e più in generale tra me e il resto della famiglia, se non avessi mai avuto la malaugurata idea di diventare il precettore di Sirius, e l’anno successivo anche di Regulus, se pur per breve tempo. Con un passo affrettato ed impulsivo colmai la distanza che avevo lasciato si creasse tra noi, gettandomi nuovamente di peso nel vortice di sentimenti contrastanti che rappresentava per me Grimmauld Place.
Orion non mi aveva mai avuto in simpatia; sicuramente non rimediai a quel distacco, di cui francamente non mi importava, umiliandolo in pubblico. Ancor di più persi quel poco di affetto familiare che era sopravvissuto, in lui, dopo la nostra complessa gioventù, quando Walburga si schierò dalla mia parte.
-Alphard ha il sangue mille volte più puro di quell’istitutore,- disse a suo marito, in tono ragionevole, ma definitivo. –Non avrei creduto che gli interessasse far fa maestro ad un bambino, ma è di sicuro più qualificato-.
Mia sorella chiuse la questione; con Orion che pendeva dalle sue labbra e Arcturus sempre più vecchio e vago, ormai Grimmauld Place era il suo regno. Nessuno l’avrebbe contraddetta.
Io mi sentivo molto soddisfatto di me stesso, e vergognosamente era sempre per i vecchi, sporchi motivi: l’avevo avuta vinta di nuovo contro Orion, e di nuovo era successo per bocca di mia sorella, che continuava, almeno ai miei occhi, a scegliere me, tra noi due.
Avevo pensato di essere ormai libero da quella morbosa attrazione. Ero solo un illuso.

Da quella pazzia avventata che mi fece tornare a Grimmauld Place, però, guadagnai qualcosa di meraviglioso.
Parlo dei miei nipoti, ovviamente. Regulus era un bambino timido, silenzioso, che tendeva a sforzarsi di compiacere sempre gli adulti che aveva vicino; occuparmi di lui ed insegnargli non fu mai un problema, né una vera sfida.
Sirius, però, era di tutta un’altra pasta.
Cercavo di capire se mi somigliasse. Era più forte di me: volevo che fosse mio figlio, ed ero terrorizzato all’idea che lo fosse. In definitiva, non sapevo la verità, ma qualsiasi suo successo mi riempiva di orgoglio, molto più che con Regulus o le mie nipoti; lo guardavo crescere e mi chiedevo, mi domandavo, e non avevo il coraggio di rispondermi. Lo amavo come se fosse stato figlio mio, comunque; almeno in questo, in realtà, non c’era poi nulla di male.
Non somigliava a me, comunque, se non nell’aspetto e in qualche comportamento che non mi era esattamente abituale. Era tutto Walburga, quasi completamente.
Era un bambino vivace, curioso e rumoroso, che rideva facilmente e faceva dispetti agli elfi domestici, ma capace allo stesso tempo di una grande dolcezza, e di intenerirmi quotidianamente con le sue moine.
Sotto la mia guida, nei due anni in cui gli insegnai le basi della sua educazione, rifiorì; onestamente, non credo fosse dovuto a qualche sorprendente capacità da parte mia. Gli volevo bene, e a Sirius questo bastava per impegnarsi, per dare il meglio di sé in tutto, dalla lettura di parole difficili agli scacchi magici, per rendermi fiero.

Costruimmo un bel rapporto, in quegli anni. Nonostante all’epoca fosse solo un bambino, io so che lui se lo ricorda; e per quanto mi sia allontanato, nel tempo, dalla mia famiglia, sono sempre rimasto in contatto con Sirius, e so che domani verrà a salutarmi, nonostante tutto. Ormai è quasi un uomo, ha scelto la sua strada, e devo dire che, davvero, sono fiero di lui.

La fine arrivò poco più di due anni dopo quei fatti, quando Sirius aveva quasi sette anni.
Cominciò in maniera impensabile.
Fu tutto a causa di Regulus.
Naturalmente, non fu affatto colpa di Regulus. Non era che un bambino, aveva meno di sei anni; se ci fu un colpevole, in tutta quella situazione, fui sempre e comunque io. Regulus era stato fin da piccolo meno appariscente e meno rumoroso di suo fratello, ma certamente non era un bambino da sottovalutare; io, che avevo a che fare con entrambi quasi ogni giorno, vedevo le differenze tra i due fratelli, ma le consideravo normali. Vedevo anche le somiglianze: entrambi erano curiosi e intelligenti, portati per lo studio, se l’argomento era di loro gradimento, e vivaci quando era il momento di giocare.
Sirius però si faceva sempre notare molto di più, nello studio come nei giochi; era rumoroso e dispettoso, mentre Regulus era decisamente più tranquillo e solitario. Ad essere onesto, Regulus somigliava a me, come ero da bambino, più di Sirius, come inclinazione; ma, come mi sembrava sempre più evidente, Sirius era un piccolo monello almeno quanto lo era stata Walburga da bambina, e Regulus probabilmente non faceva altro che adattarsi, come avevo fatto io.
Erano bambini diversi; non era possibile valutare chi tra i due fosse più buono, o migliore.
Walburga lo faceva; confrontava continuamente i bambini, che fossero presenti o meno, ed in ogni confronto Regulus risultava carente.
La causa principale dell’insoddisfazione di mia sorella nei confronti del suo secondogenito era il fatto che, a quasi sei anni, Regulus non avesse ancora dato segno di magia spontanea.
Walburga era terrorizzata anche solo che si insinuasse che uno dei suoi figli potesse essere un Magonò. La sua rabbia e il suo disappunto ferivano Regulus, ma lei nemmeno se ne rendeva conto; quel piccino era continuamente sotto pressione, e di certo in quelle condizioni non avrebbe mai dato il meglio di sé.
Io cercavo di arginare quella situazione come potevo. Cominciai a trattare Regulus con una certa complicità, come se, quando sua madre si arrabbiava, tra noi ci fosse comunque un segreto per cui lui sapeva di non doversela prendere; Sirius mi fu d’aiuto, perché quando non litigava con suo fratello, cosa che accadeva naturalmente piuttosto spesso, sosteneva il mio impegno nell’incoraggiarlo. Non mi misi mai contro Walburga per il bene di Regulus, però. A riprova della mia viltà, non mi imposi mai per il bene di mio nipote.

Eppure era evidente che la pressione delle aspettative di sua madre frenava il bambino. Sirius, a sette anni, aveva ormai un buon controllo sulla sua magia. Non era proprio capace, ancora, di indirizzarla come desiderava, ma aveva capito in che modo di scatenarla, spesso con risultati spettacolari. Si sforzava di trovare le parole per spiegare a Regulus come fare; io li vedevo confabulare, e vedevo la concentrazione esagerata di Regulus che tentava, e tentava, e falliva sempre.
Quell’insistenza non faceva bene a nessuno. Cominciai a pensare che Regulus avrebbe avuto bisogno di allontanarsi qualche tempo da sua madre, con le sue pretese, e anche da suo fratello, con le sue buone intenzioni che finivano inevitabilmente per metterlo sotto pressione.
All’inizio pensai di portarlo con me nel Surrey, per una vacanza. Mi spezzava il cuore, però, l’idea di non concedere lo stesso privilegio anche a Sirius, che sapevo ne sarebbe stato entusiasta. Rimuginai a lungo su quella possibilità, finché non mi si presentò, come se fosse stata preordinata, un’altra opzione, infinitamente più allettante.
Una lontana parente di mia madre, un ramo della famiglia che viveva nel continente, si sposava, e aveva scelto di tenere la cerimonia nientemeno che Parigi. Io e Walburga eravamo invitati, così come le nostre famiglie. Ma Orion non poteva assentarsi dal lavoro; diversamente da me, che facevo atto di presenza il più raramente possibile, Orion anno dopo anno passava sempre più tempo al Ministero, o all’estero per questioni d’ufficio. Io non piangevo certo le sue assenze, ma dovevo ammettere che aveva molta più dedizione al lavoro di quanta io ne potessi anche solo immaginare.
Walburga, però, desiderava ardentemente andare; me lo confidò, ma non ce ne sarebbe stato bisogno, perché ricordavo quanto aveva sognato, da giovane, di vedere Parigi; e chiaramente ricordavo anche fin troppo bene le circostanze in cui avevo scoperto quel suo desiderio.
Mi sembrò l’occasione perfetta per allontanarla da Regulus; mi dicevo che, se l’avessi portata all’estero per quel viaggio, Walburga avrebbe sentito la mancanza del bambino, e si sarebbe addolcita nei suoi confronti; inoltre il distacco avrebbe potuto spingere Regulus a dare finalmente segni di magia, lontano dalle pressioni materne. L’unica incognita era Sirius: Walburga avrebbe volentieri lasciato a casa entrambi i bambini, ma io sospettavo che i tentativi, ingenui ed in buona fede, che Sirius faceva per insegnare la magia a suo fratello facessero più male che bene alla scarsa autostima del bimbo.
Alla fine la spuntai; improbabile alleato, fu Orion a decidere per tutti, facendo capire chiaramente a Walburga che non se la sentiva di occuparsi praticamente da solo di un bambino vivace e confusionario come Sirius. Il mio piano, che lo dovessi ad Orion o meno, funzionò alla meraviglia. Partimmo alla fine della primavera per due settimane in Francia, senza che nessuno facesse obiezioni; una Passaporta dopo, mi ritrovai nella città degli amanti con mia sorella e il bambino che, se non altro nei miei pensieri più reconditi, era nostro figlio.

Continuavo a mentire a me stesso, è piuttosto evidente. Mi interessava del benessere di Regulus, questo è innegabile; ma l’ipocrisia era pensare che in quel viaggio non vedessi altro che quello.
Avevo Parigi e Walburga, come avevo sognato a ventidue anni per un pomeriggio appena, prima che la città toccasse in sorte ad Orion, lasciandomi a Londra solo con mia sorella.
Il matrimonio della cugina di mia madre fu una noia mortale e sfarzosa, di cui ricordo poco o nulla, come di tutte le celebrazioni di famiglia. Walburga non era più al centro dell’attenzione come quando eravamo giovani: le idee che professava a vent’anni erano le stesse che ripeteva ancora a chiunque la stesse a sentire, la purezza del sangue e la nobiltà della famiglia; ma aveva perso il fascino dolce della giovane idealista, e le sue parole dure ed esaltate mettevano a disagio i parenti in festa. Cygnus era presente, con moglie e figlie al seguito; lo ricordo solo perché Sirius rimediò un occhio nero litigando con Narcissa, e dovetti intervenire per dividerli, e poi per consolarlo, anche se sospettavo che fosse stato lui a provocare la cugina.
Fu una giornata lunga; ma finita quella, mi rimanevano tredici giorni di vacanza, e di Walburga, e lo sapevo.

Non iniziai nulla personalmente, ma è una magra scusa, la mia. Dividevamo una lussuosa suite nel migliore albergo del quartiere magico della città; la prima sera, messo a letto Sirius che era crollato per le fatiche del viaggio e della lunga cerimonia, Walburga mi sfiorò una mano come non faceva da anni, guardandomi negli occhi.
Smisi per un momento di respirare. Credevo di essere diventato negli anni un uomo diverso, migliore; ma mi ritrovai a guardarla, e a chiedermi se la sua pelle avesse ancora lo stesso profumo di sette anni prima.
L’aveva; non ebbi speranze di resisterle.

Parigi sembrò appartenerci, per qualche giorno. Visitavamo i monumenti magici e babbani come turisti qualsiasi; cenavamo nei migliori ristoranti, passeggiavamo per gli Champs Elisées e lungo la Senna, al tramonto. Sirius si guardava intorno con gli occhi spalancati, osservando curioso quel mondo così strano e nuovo, così diverso da Grimmauld Place, e anche semplicemente da Londra. Lo tenevo per mano e vedevo chiaramente, dallo sguardo di chi incrociava la nostra strada, che era facile ed immediato consideraci padre e figlio.
Io e Walburga c’eravamo sempre assomigliati moltissimo; qualche anno prima, quando era nato Sirius, avevo pensato a noi come a due gemelli identici, impossibili da distinguere. Eppure mi resi conto che non era più così. Walburga era cambiata, negli anni. La sua bocca si era fatta più sottile, il suo viso più scarno e le sue mani più magre, gli occhi più pesanti per il trucco che metteva per nascondere i cerchi neri lasciati dalla stanchezza. Portare la famiglia sulle spalle in quel periodo l’aveva provata, e non eravamo più così identici. Me ne resi conto quando il cameriere del ristorante mi chiese cosa desiderasse per cena mia moglie; Walburga non parlava affatto il francese, ed io, se anche non ero portato per le lingue quanto Orion, fungevo da interprete per lei e per Sirius. Non dissi all’uomo che si sbagliava: ordinai per lei e per mon fils, e continuai a quel modo per tutta la vacanza, come se gli errori di quella folla di estranei potessero davvero cambiare la realtà delle cose e regalarmi un mondo in cui quello che avevo sempre sentito e provato fosse legittimo e giusto.

Walburga non diceva nulla, di quella situazione. Era meno allegra di quello che avevo sperato prima di partire; allo stesso tempo, era più mia di quanto progettassi, più mia di quanto fosse mai stata, per le strade affollate, oltre che tra le coperte del letto nella sua stanza. E avere di nuovo la sua pelle sotto le dita mi inebriava.
Mi chiedevo vagamente se Sirius capisse qualcosa di quanto succedeva. Non l’ho mai saputo, e dopo non ho mai osato chiedergli se ricordasse, e cosa, di quelle due settimane a Parigi. Era solo un bambino, dopotutto.

La decima notte in Francia, la decima notte che passavo nel letto di Walburga, mi resi conto che ero io, il bambino. Ero io che non avevo mai capito, che mi ero rifiutato di vedere, di ascoltare.

Ricordo che c’eravamo coricati presto, complice la stanchezza di Sirius, che si era addormentato prima ancora del dolce, a cena. L’avevo portato nella sua stanza in braccio, e l’avevo messo a letto, baciandogli la fronte, assicurandomi come avrebbe fatto un buon padre che avesse un bicchier d’acqua a portata di mano, se per caso gli fosse venuta sete durante la notte.
Poi ero tornato da Walburga, che mi aspettava seduta in poltrona, e che mi aveva sorriso. L’avevo baciata sulla bocca; era invecchiata e si era indurita, sì, ma per me restava sempre infinitamente bella, ed era mia. Avevo dimenticato tutto, come sempre, tra le sue braccia.

L’accarezzavo, più tardi, nel suo letto, sentendo il sonno scivolarmi addosso lentamente. Non badai a quello che le dicevo; dopo l’amore erano comunque solo piccole sciocchezze, per farla ridere o per strapparle un altro bacio. Non pensavo, non riflettevo. Mi limitavo a vivere la sua presenza come un dono, senza nemmeno contare i giorni che mancavano alla fine di quel viaggio e di quell’idillio.
So che le chiesi se sentiva nostalgia di Regulus; quel giorno mi era parsa triste, e mi chiedevo se non fosse stato crudele separarla dal bambino, anche se a fin di bene.
-No,- mi rispose. –Regulus potrebbe essere un Magonò. Non voglio affezionarmi a lui, se dovrò mandarlo via-.
A prova della mia scarsa capacità di capire mia sorella, quella risposta mi stupì profondamente.
-È sempre tuo figlio!- le dissi. Non alzai la voce, perché era Walburga. Ma ero teso, e lei lo sentì.
Mi passò le dita sulla fronte, leggere, come se volesse rassicurarmi.
-Non preoccuparti, Alphard,- mi disse. –Amerò questo bambino. Lui non sarà un Magonò, vedrai. Sarà perfetto-.
Non capivo di cosa stesse parlando. –Quale bambino, Walburga?- le chiesi, sconcertato.
Mia sorella mi sorrise. –Quello che avremo tu ed io,- disse. Mi scostai da lei, inorridito. Walburga non ci fece caso; parlava con lo stesso tono sicuro e sognante con cui discuteva della purezza del sangue, da ragazza. Ma il fascino era sparito; alla luce fioca dei lampioni che entrava dalla finestra il suo viso era pieno di ombre, e mi faceva paura. –All’inizio non capivo, Alphard. Quando eravamo giovani, quando eravamo ancora a scuola… Merlino, persino quando eravamo bambini volevo stare sempre con te. Te lo ricordi?-
Annuii. Non potevo negare di aver capito al volo di cosa parlasse: c’era sempre stato quel legame, quell’attrazione tra noi, come il bisogno di tornare a condividere lo stretto spazio del ventre di nostra madre, di essere sempre infinitamente vicini. Lo ricordavo.
-Tu sei mio fratello- continuò Walburga. –Pensavo che fosse sbagliato. Mi ripetevo che era sbagliato, finché non ho capito. È stato quando ho trovato le vecchie genealogie di famiglia, ricordi? Il nostro sangue, il tuo, il mio, quello di Cygnus, è il più puro. Orion non può competere con noi. Ecco perché ti volevo. Era il sangue, a chiamarmi. Vedi, nostro figlio ha il sangue più puro di tutti!-
Mai come in quel momento avevo notato chiaramente la follia negli occhi di mia sorella. Era spaventosa. Come avevo potuto ignorarla per tanto tempo?
-Stai parlando di Sirius?- mi trovai a chiederle. –Allora è mio?-
Scosse la testa. –Non lo so- disse. –Eppure ne sono certa. Perché, altrimenti, sarebbe già così potente e intelligente, mentre Regulus è un buono a nulla?-
-Walburga,- cercai di farla ragionare, ma era come parlare ad una statua. –Regulus non è un buono a nulla. È solo un bambino. E Sirius…-
-Sirius è sempre stato perfetto. Non vedi? È uguale a te, ed è perfetto-.
Non sapevo cosa dirle. Ero, credo per la prima volta in vita mia, senza parole. Potevo solo guardarla e rendermi conto di quello che era successo davanti a me, nella mia casa e persino tra i miei sentimenti, senza che io me ne accorgessi, o potessi impedirlo in qualsiasi modo.
-Non abbiamo bisogno di Regulus. È giusto così, Alphard. Ai Black serve un altro bambino, nel caso accadesse qualcosa a Sirius, e deve essere nostro-.
Cominciavo a capire come stavano le cose. Io avevo cercato per tutta la vita un compromesso tra l’attrazione per mia sorella e i miei scrupoli morali; ma lei non era mai stata capace di rassegnarsi ad una via di mezzo, né di accontentarsi dell’abbandono con cui io avevo spento la coscienza ogni volta che ero entrato nel suo letto, negli ultimi dodici anni. Walburga s’era andata a cercare una spiegazione ed una giustificazione, e ne aveva fatto una filosofia di vita.
Io ero sempre stato un ipocrita, e a quanto pare, anche in questo non eravamo affatto diversi, come avevo sempre pensato.
-Walburga, sono sciocchezze,- tentai di dirle, ma sapevo già di parlare al vento. –Nessuno crede davvero a queste storie sulla purezza del sangue. Non c’entra nulla con le qualità di un mago, quanto il suo sangue sia puro-.
Lei scosse la testa; mi guardò come io guardavo Sirius o Regulus quando faticavano a comprendere una spiegazione onestamente troppo difficile per la loro tenera età.
-Non importa, Alphard,- mi disse. –Capirai quando sarà nato il bambino-.
Schizzai fuori dal letto. Avevo già vissuto quel turbamento e quell’angoscia, e non avevo intenzione di ricominciare da capo. Mi allontani da lei, come se in quel modo potessi cancellare le ultime notti ed evitare quella che ai miei occhi era una catastrofe.
-Sorellina,- le dissi. Non la chiamavo così da decenni. –Walburga. Lo pensi davvero?-
Ero disperato. Non poteva non vederlo, e vedendolo, non poteva non desiderare con tutte le sue forze di alleviare la mia paura e la mia angoscia. Io l’avevo sempre fatto, sempre.
-Ma certo,- mi rispose.
Finì tutto, in quel momento, inevitabilmente e, per una volta nella mia vita piena di ripensamenti ed illusioni, per davvero.

Litigammo come non mai, quella notte. Urlammo. Non cercavo più di farla ragionare, perché avevo perso la testa, al punto che per la prima volta non riuscivo a trovare da nessuna parte le tracce del mio amore per lei, che avevo creduto infinito.
La insultai, mi rivestii e la lasciai sul letto che avevamo diviso. Piangeva, credo; o forse, pensai, maligno come non ero mai stato con lei, fingeva per ottenere come sempre la mia pietà e il mio affetto.
Me ne andai.
Esitai solo un istante, quando sulla porta della suite trovai Sirius, in pigiama e insonnolito, che si strofinava gli occhi con una mano.
-Vai via, zio Alphard?- mi chiese. Riuscii solo ad annuire.
-Non torni a casa con me e la Mamma?-
-No,- gli risposi, anche se mi si strinse il cuore. –Farai il bravo, Sirius?-
Mi guardò solennemente. –Baderò io alla Mamma e a Regulus- mi promise. Mi chinai ad abbracciarlo e lui si strinse per un attimo al mio collo. Poi mi lasciò andare.

Non sono mai più tornato in Grimmauld Place. Ho sempre saputo quello che accadeva tra le mura della casa che è il cuore stesso della famiglia Black, ma non sono mai più stato il benvenuto, lì. Inevitabilmente, negli anni, si sono susseguiti matrimoni, battesimi e funerali dei vari rami della famiglia; non sono mai mancato, anche se ha sempre significato vedere Orion e sostenere per qualche secondo lo sguardo risentito, sempre risentito da quella notte, di mia sorella.
Non c’è stato, naturalmente, nessun bambino. Non sono nemmeno sicuro che mia sorella fosse ancora in grado di concepire altro che le sue illusioni malate, quando eravamo a Parigi.

Fortunatamente per tutti Regulus si è rivelò perfettamente capace di fare magie, dopo tutto.
Ero nel Surrey quando Sirius mi scrisse una lettera, lunga per i suoi sette anni e mezzo, raccontandomi molto fiero di come suo fratello avesse fatto scoppiare tutti i vetri della sua stanza durante un brutto attacco di febbre, per la disperazione degli elfi domestici e la gioia della famiglia. Pensai che persino Walburga doveva esserne finalmente fiera.
Arcturus ebbe il primo ictus qualche mese dopo la mia fuga da Parigi. Da quel momento, fu Walburga ad occuparsi dei Black e di Grimmauld Place, e priva di limiti trasformò rapidamente quella che era sempre stata una famiglia potente, e ben attenta a lasciare gli scheletri negli armadi, nel più temibile covo di pazzi della società magica. Non si accorse nemmeno di venir messa da parte dalla buona società: per anni continuò da sola a ravvivare certe gradevoli tradizioni di famiglia, come quella di appendere in casa le teste degli elfi domestici, o di bruciar via dall’arazzo chiunque non le andasse a genio, e a predicare la necessità di un nuovo ordine di razza pura a chiunque la stesse ad ascoltare.
Negli ultimi anni, sorprendentemente, le sue idee hanno trovato un riscontro nella generazione dei miei nipoti; fin troppi di loro seguono ormai questo Voldemort, e da quel che so mia sorella esulta all’idea che qualcuno condivida le sue folli idee ed agisca di conseguenza. Chissà se la penserebbe ancora così, se scoprisse che Lord Voldemort non è altri che Tom Riddle, il Mezzosangue che era a scuola con noi, e che la disgustava tanto, quando eravamo ragazzi. Non credo che lo sappia; onestamente non credo che abbia più importanza per lei, a questo punto.

La nostra storia è finita così, di punto in bianco; ma naturalmente non la mia.
Sorprendentemente, considerando con quanta facilità la mia cara sorellina bruci via gente dalla famiglia, sono ancora un Black a tutti gli effetti. Certo, non mi illudo che questa condizione sopravviva alla lettura del mio testamento; ma, per quanto tra i parenti per anni non si sia parlato d’altro che della rottura tra Alphard e Walburga, in realtà mia sorella non ha mai cancellato il mio nome del tutto. Vorrei che non mi importasse sapere il perché.
Non ci siamo visti più spesso che alle occasionali riunioni di famiglia, questo è vero. Ma ci siamo tenuti in contatto con qualche lettera, anche quando ho rifiutato di ascoltare i suoi ordini mascherati da consigli; anche quando, nel mio lavoro, mi sono schierato contro le direttive della famiglia Black.
Sirius ha continuato a scrivermi, anno dopo anno. Nelle sue lettere ho scoperto la sua inquietudine prima ancora che lui stesso la comprendesse davvero; ho letto i resoconti sempre più dettagliati dei suoi litigi con sua madre, della sua infelicità ed insoddisfazione. Mi sono reso conto, negli anni, di quanto improbabile diventasse sempre di più che Sirius si rivelasse improvvisamente il figlio perfetto che Walburga sognava quando eravamo giovani.
Non mi ha stupito scoprire che è fuggito di casa a sedici anni appena; mi ha sorpreso e rattristato molto di più leggere nelle sue ultime lettere del distacco tra lui e Regulus, sebbene io sappia perfettamente che l’affetto dei bambini tende a prendere strane forme nei giovani, e poi negli adulti, fino anche a scomparire, per quanto forte fosse all’origine. Spero non sia il caso dei miei nipoti.

Non ho mai saputo chi sia il padre di Sirius.
Non credo che lui sospetti qualcosa; o forse invece è a conoscenza di tutto, ancor più di me. Lo saprò presto, perché non ci sono segreti dove sto andando. E non sono del tutto sicuro che scoprirlo mi recherà gioia, o conforto.

Ma a proposito di questa questione, c’è ancora un episodio che ha qualche importanza, che deve essere raccontato, nella mia storia.

Dopo aver lasciato la famiglia, sfruttai la mia conoscenza giovanile del mondo babbano per costruirmi una vita. Non starò a raccontare le mie avventure nella decadente Londra babbana; ne ho già parlato fin troppo, e quel che sembrava lecito per il giovane viveur suona squallido e disperato, raccontato dell’uomo di mezza età.
Basti dire che presi, negli anni, a fidarmi della medicina babbana. Fu ad un medico babbano che mi decisi a rivolgermi quando cominciai a notare qualcosa di strano nella mia salute.
Ma il notaio da cui, nei giorni successivi, feci testamento, dopo aver scoperto che mi restava poco da vivere, era quello che è sempre stato alle dipendenze della famiglia Black dacché ricordo.
Nel suo studio sobrio e discretamente magico, esauriti i pochi convenevoli, non persi molto del mio tempo prezioso nel chiarire le mie volontà.
-Lascio tutto a mio nipote, Sirius Orion Black- dissi al vecchio mago.
-Ci deve essere un errore- mi rispose, senza scomporsi.
Mi aspettavo quella sua protesta, ed ero preparato a rispondere con tutta l’autorità che mi restava, nonostante la mia sempre più evidente fragilità.
-Nessun errore,- gli dissi, sicuro e pronto a far valere la mia volontà. Che mi pensasse un vecchio eccentrico e caparbio non mi importava particolarmente. –Non mi interessa avere altri eredi-.
Il vecchio mago, che lavorava per la mia famiglia da anni, come suo padre e suo nonno prima di lui, si tolse gli occhiali e mi fissò con un certo imbarazzo.
-Lei mi ha frainteso, Mr. Black- disse. –Nella mia professione, la forma è importante quanto la sostanza. E non mi risulta l’esistenza di nessun Sirius Orion Black-.
-Stupidaggini!- gridai, incurante del fatto che nelle mie condizioni una sfuriata degna di altri tempi fosse fuori questione. –Non mi interessano i giochini di mia sorella con l’arazzo, Sirius resta mio nipote!-
-Alphard, la prego, si sieda,- mi rispose il notaio, non senza una certa gentilezza. Non mi ero nemmeno accorto di essermi alzato. –Lei ha diritto di lasciare tutti i suoi beni a suo nipote Sirius. Tuttavia il nome deve essere indicato correttamente e per esteso, nel testamento-.
Non capivo assolutamente di che cosa stessimo parlando, lo confesso. E dovevo averlo scritto in viso, perché il notaio mi sorrise amichevolmente.
-Il secondo nome di suo nipote non è Orion. Non lo sapeva?-
Mi resi conto in quel momento che non l’avevo mai chiesto a nessuno. Non ero presente alla nascita e al battesimo di Sirius, perché ero nel Surrey. Nell’arazzo compaiono per tradizione solo i nomi in uso, e non avevo mai avuto a che fare con documenti che riguardassero Sirius. Il mio stupore doveva essere evidente, perché il notaio si sentì in dovere di spiegarmi meglio la questione.
-Suo nipote è stato battezzato il giorno stesso in cui è nato. Io ero presente come testimone. Il suo nome è Sirius Alphard Black. È singolare che le sia stato fatto un omaggio senza dirglielo-.
Pensai che una volta, anni prima, un’informazione del genere avrebbe cambiato la mia vita e tutti i miei propositi, improvvisamente e drasticamente, come era sempre accaduto quando Walburga mi aveva sorpreso in qualche modo. Ma, in quel momento, non avevo più che poche settimane davanti, e nessuna possibilità di cambiare la mia storia, e mi sforzai di non analizzare l’informazione per non rischiare di mettermi a piangere come un patetico vecchio, o di correre per l’ennesima volta da Walburga, per accettare ogni sua spiegazione in merito a quella faccenda come avevo sempre fatto.
Invece, a quel punto, frastornato e confuso da quell’informazione, ricordo solo di aver annuito, e firmato le scartoffie del caso, ed annuito ancora.
So che poi tornai a casa con la Metropolvere, mi versai un bicchiere di Firewhisky, particolarmente deleterio per la mia fragile salute, e mi addormentai in poltrona, ripetendomi che non dovevo e non potevo riflettere su quel nuovo tassello di storia che cambiava tutto e non cambiava nulla insieme. Ma, ovviamente, facendolo comunque, da quel momento e fino ad oggi.

Ed ecco, la storia finisce qui.
Quello che resta sono le disgustose fatiche della malattia e le riflessioni vuote di un uomo intento a contemplare la propria fine in tutto il suo squallore.
Mi sono interrogato in questi mesi, ho chiesto a me stesso un po’ di sincerità, ho avuto tempo per rileggere la mia storia e considerare la mia inettitudine, l’ipocrisia delle cose che ho fatto, detto e sostenuto per tutta la vita, e la viltà di fondo che mi ha accompagnato in questo viaggio, invisibile ai miei occhi, ma presente nel bambino che si fingeva buono per manipolare la famiglia quanto nell’uomo di sani principi morali che scivolava in piena notte nelle stanze di sua sorella. E presente ancora oggi, in questi ultimi faticosi respiri, spesi a raccontare la mia storia nella sua vergognosa interezza per un pubblico indulgente di echi e stanze vuote.
Quel che c’era di buono in me, come bambino e uomo, come fratello e persino come il padre che non sono mai stato, era solo quanto di buono hanno immaginato coloro che mi hanno voluto bene, senza vedere e senza sospettare. E mi resta da vivere così poco che ormai neanche questo ha più importanza.
Io sono Alphard Black, l’ipocrita, il vile e il dissoluto. E per chi vuole conoscere la verità, questa semplicemente è la mia storia.

 


Note Noiose:
Questa fic è stata scritta per il "Eroi della mitologia classica contest", indetto da Chu sul Forum. Il pacchetto che ho scelto, Chirone, prevedeva il personaggio di Alphard Black, i prompt Diverso e Nipoti, e la citazione che apre la storia. A parte questo, ed il giudizio che trovate sotto, qualche nota tecnica per capirci.
1) Non sappiamo l’età di Alphard. Walburga Black, sua sorella, nasce nel 1925, mentre suo fratello Cygnus nel 1929, come Orion, loro cugino. Arbitrariamente, sfruttando un’idea precedente, ho fatto di Alphard il gemello di Walburga, cosa che è compatibile con il canon, visto che i suoi dati sono cancellati nell’Albero Genealogico della Famiglia Black, che è la mia fonte.
2) Ad un certo punto, Alphard usa l’espressione francese “mon fils”, che significa semplicemente “mio figlio”.
3) Non sappiamo nemmeno quale sia il secondo nome di Sirius. È logico supporre che ne avesse uno: Regulus ce l’ha, e in generale nei paesi anglofoni è raro non averlo. Il fandom tende a pensare che il suo secondo nome sia Orion, come suo padre. Io ho un’altra idea, che ai fini di questa storia mi sembra comunque legittima.
4) Contrariamente a quanto si pensa comunemente, l’incesto è un tabù culturale, e come tale, non si applica necessariamente sempre a tutti gli individui di una società. È tuttavia probabilmente il tabù più radicato nella maggior parte delle culture; con le dovute eccezioni, di norma l’individuo sviluppa nella crescita una sorta di blocco nel considerare desiderabili le persone della propria cerchia familiare, più o meno larga. Oggi, nella nostra società, siamo portati a considerare la presenza di un disagio psicologico alla radice di desideri incestuosi, al punto che in Italia l’incesto, nella forma qui descritta (fra fratello e sorella), è di fatto un reato. I Black, da questo punto di vista, sono una famiglia molto adatta ad ospitare storie a tema: in parte per gli squilibri psicologici che già da canon presentano molti membri della famiglia, e in parte anche perché lo stesso Albero Genealogico ci mostra la propensione della famiglia ai matrimoni tra consanguinei. Basti pensare che Orion e Walburga Black sono cugini di terzo grado.
Su questo tema, ai fini della fanfic, è utile ricordare che, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, i figli di rapporti incestuosi non presentano spesso particolari problemi, dal punto di vista genetico: è vero che eventuali malattie genetiche o “tare” sono più facilmente presenti in individui figli di consanguinei, ma non più di quanto lo siano, ad esempio, nei figli di due estranei affetti dalla stessa patologia o portatori sani della stessa malattia. Dove le pratiche incestuose sono abituali, nel lungo periodo, esiste un sensibile aumento della probabilità che questi problemi si verifichino, in quanto i geni “malati” si rafforzano generazione dopo generazione. Ma è comunque più che plausibile che un figlio di genitori tendenzialmente sani sia a sua volta sano, nonostante abbia più probabilità statistiche di sviluppare patologie recessive nel patrimonio genetico dei genitori.
5) Riallacciandomi a quanto detto sopra, questa fic tratta di un tema piuttosto spinoso. Non c’è, da parte mia, nessun giudizio, positivo o negativo, sulla questione dell’incesto in sé: io prendo atto del fatto che esista tale questione, e lascio ai personaggi le valutazioni morali, etiche e sociali più adeguate al loro carattere, alla loro situazione personale e alla loro educazione, per come le ho interpretate in questa storia. Né il pensiero di Alphard, né quello di Walburga, o di chiunque altro in questa storia, rispecchiano la mia opinione sull’incesto.
6) Ho richiamato vagamente la figura di Chirone in un passaggio piuttosto avanti nella fic. Mi sarei sentita in colpa a non farlo. ^___^


Infine, questa fic si è classificata (con mia grande sorpresa) prima nel contest, ricevendo in premio questo bellissimo banner, e il giudizio che segue:


PRIMA CLASSIFICATA - "L'IPOCRITA" DI MIKI_TR


Proprietà linguistica e Stile:
8,8
Ahi, ahi, signorina, lei mi cade sui dei piccoli errorini stupidi! Davvero, scommetto che ormai ti sarai già trucidata abbastanza sbattendo la testa contro il muro per non aver riletto altre mille e venti volte, ma basta. Basta sbattere la testa al muro. Vieni qui e ascolta: è stato tutto perfetto, lo stile scorreva che era una goduria (e tu sai che non amo particolarmente le storie narrate in prima persona), il modo in cui inserisci dettagli e particolari è stupendo, perché è molto naturale, ed in generale hai usato sempre un linguaggio che sulla bocca di uno come Alphard sta d’incanto: affascinava talmente tanto che non ho potuto fare a meno di restare con gli occhi incollati allo schermo per saperne ancora. Quasi non ho sentito la lunghezza delle 15000 parole e rotte che hai scritto. Ma poi arriviamo ad un certo punto della storia – oltre la metà, più o meno – in cui hai lasciato diverse sviste: un “soto”, un “deii”, un “lanuggine”… Solo per fare qualche esempio, ma scommetto che li hai già scovati e corretti. Inoltre ho dovuto segnare un “di” usato al posto di un “da” (in questa frase: “ai miei occhi li redimeva di ciascuna loro colpa.”) e l’uso reiterato di “in Grimmauld Place”, dove sarebbe suonato meglio un “a Grimmauld Place” – diciamo che secondo me ti sei lasciata confondere dall’inglese, in cui “in” ci sarebbe stato bene ;)
Per il resto non ho niente da dire: uno stile impeccabile e ipnotico, come ho detto prima. Veramente una bellissima lettura.

Caratterizzazione dei personaggi: 10
Non posso proprio evitarlo questo voto pieno. Alphard è esattamente l’uomo affascinante che m’immagino e l’hai costruito rendendolo vero, contestualizzando perfettamente le sue abitudini, ciò che gli piace e ciò che non gli piace: davvero un signorino di buona famiglia, perfettamente in linea con i gusti del tempo, dedito alle feste e al vivere bene, completamente disinteressato a questioni che esulano dalla sfera strettamente personale (il lavoro, per esempio, e la politica). Mi è piaciuta da morire la sua ossessione per sua sorella (tu pensa…), i giochi di gelosie su cui hai costruito il suo rapporto con lei e con Orion, la paura d’incontrare Sirius per la prima volta; e soprattutto mi è piaciuto che il “diverso” per lui significava solo “complementare”. Ho adorato quest’uomo incapace di sfuggire dalla sua ossessione, sempre spietatamente sincero con sé stesso, in questa sua lunga confessione come non lo è mai stato prima. Alphard mi ha conquistata, letteralmente, sin dalla prima pagina.
Parliamo di Walburga, ora, la bambina cattiva, il contraltare di Alphard: l’hai dipinta meravigliosamente, soprattutto perché, anche se vediamo tutti dagli occhi non sempre obbiettivi del protagonista, notiamo subito che oltre alla bellezza, al suo fascino, ai suoi capricci e dispetti c’è qualcos’altro in lei. Quel piccolo tarlo che dapprima sembra solo una sciocchezza da ragazzini, un “vezzo” o un “gioco” (termini che ho particolarmente gradito, perché fa capire quanto poco Alphard – ed il resto della famiglia – avesse capito di quell’ossessione), diventa la sua vera e unica ossessione, più importante di qualsiasi cosa: la purezza di sangue. Quando Alphard si accorge che è solo per quello che lo cercava, quando si accorge che probabilmente sua sorella è davvero pazza (“non del tutto”, come dice lui, ma per quel particolare di sicuro), noi ce lo aspettavamo già da tempo, perché tutto quello che lui considerava come capricci o chiudeva gli occhi per non vedere, noi lo vediamo subito, sin dall’inizio. Alphard non è oggettivo ed anche per questo mi è piaciuto; e Walburga è esattamente come dev’essere. Soprattutto, mi è piaciuto il fatto che non si capisca bene se è stata la sua ossessione per il sangue a farle cercare il fratello o se è stata la sua ossessione per Alphard a farla diventare una maniaca del sangue puro: un’ambiguità che ho trovato indubbiamente geniale.
Parliamo anche un po’ dei personaggi di contorno, perché come sempre non li tralasci nemmeno per un momento: li ho amati tutti, a cominciare dal cameo di Minerva – precisamente lei… e con la sua relazione con Tom ci credo che non guarda Alphard manco di striscio XDD– per proseguire con tutti i vari membri della famiglia Black, meravigliosamente unici, Orion e la sua arroganza, Arcturus ed il suo affetto per i nipoti (ed anche la sua malattia senile, meravigliosamente accennata), Sirius ed il suo essere un bambino meraviglioso (che hai preso e centrato qui: “Gli volevo bene, e a Sirius questo bastava per impegnarsi, per dare il meglio di sé in tutto”) e infine Regulus ed i suoi strenui tentativi di compiacere sua madre. Un meraviglia.

Inserimento dei prompt: 9,9
Ottimo l’inserimento dei prompt, soprattutto per quanto riguarda la citazione – che la fa un po’ da padrona, com’è giusto che sia, non solo all’inizio della storia, ma anche per tutto il suo svolgimento, perché ciò che c’è di buono in Walburga è solo quello che Alphard immagina – e ottimo anche l’inserimento del prompt “diverso”, che viene fuori in più di un senso e riferito a più di un personaggio – tanto per fare un esempio, torna fuori con prepotenza quando Alphard legge le lettere di Sirius e capisce che lui è in qualche modo diverso dagli altri Black o anche semplicemente diverso da come sua madre lo vorrebbe. Il prompt “nipoti” ha sicuramente una rilevanza un po’ minore, ma era il secondo prompt, quindi va bene anche così. Il fatto che poi Sirius non sia esattamente suo nipote, ma più probabilmente suo figlio… beh, diciamo che un po’ ne ho tenuto conto, ma davvero poco poco, perché alla fine hai saputo ripiegare bene su Regulus, parlando di lui in quanto vero nipote e soprattutto hai sfruttato il prompt per creare la frattura finale fra Alphard e Walburga: è un po’ per colpa di quel nipote che Alphard vede finalmente la pazzia della sorella e smette di assecondarla per sempre. Insomma, un buon lavoro anche dal punto di vista dei prompt!

Originalità: 10
Io direi che più originale di così si muore! Certo, sei stata indubbiamente aiutata dal fatto che di Alphard si sa molto poco, praticamente niente, ma non penso di aver mai incontrato un personaggio così, soprattutto con una storia così da raccontare. Inoltre, hai sfruttato bene quello che poteva essere un po’ un cliché, ovvero l’incesto – stiamo pur sempre parlando della famiglia Black, dove gli incesti sono praticamente all’ordine del giorno XD e soprattutto… Sirius figlio di quell’incesto?! Beh, questo cambia tutta la storia, cambia il canon, praticamente! Cambia il motivo per cui il caro zio Alphard ha dato la sua eredità a Sirius, cambia… beh, cambia tutto e lo rende decisamente originale. Complimenti, quindi per aver sfruttato il canon ed avergli dato un’interpretazione tutta tua.

Trama e svolgimento: 10
Manco qui ho potuto evitarlo XD beh, che devo dirti? Non è facile riuscire a riassumere la vita intera di un personaggio in 15000 parole… Scherzi a parte: non è facile riuscire a scrivere tutto quello che hai scritto tu senza cadere nella superficialità, lasciando da parte i dettagli e avendo fretta di finire. Hai avuto invece molta attenzione per tutti i particolare e ci hai accompagnato in questa lunga confessione di Alphard senza mettere fretta né al narratore né a noi lettori. Sai che la lettura va gustata e giustamente ci permetti di farlo. I passaggi da un ricordo all’altro sono sempre consequenziali, mai avvertiti come delle brusche interruzioni, per di più la narrazione è perfettamente lineare, nel senso che non sei mai andata troppo avanti per poi essere costretta a tornare indietro per spiegare qualcosa: è tutto chiaro e cristallino. Inoltre sei anche riuscita ad inserire il colpo di scena finale e a chiudere il cerchio alla perfezione. Davvero ottimo!

Gradimento personale: 9,9
Mi è piaciuta, non posso negarlo e comunque non voglio: mi è piaciuta per il modo in cui hai reso l’introspezione di Alphard, per il modo in cui lo hai rappresentato e per tutti i dettagli di contorno e d’importanza con cui l’hai arricchita. Mi hai fatto piacere anche l’incest, cribbio XD ma… ecco, proprio lui, l’incest, tornava ogni volta a galla e anche quando non c’era mi tornava in mente, guastandomi un pochino – poco poco, davvero – la lettura. È per questo che c’è quel 0,10 di meno: perché non sono riuscita a godermela al 100%, ma solo al 99,9%.

Totale: 58,6 + 1 punto bonus (per aver utilizzato due prompt) = 59,6/60

 

  
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