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Autore: Silinka    19/09/2011    3 recensioni
Era il mio migliore amico.
Ci conoscevamo dall’asilo. Siamo sempre stati assieme. Io, lui e suo fratello. Inseparabili.
Ma io lo amavo.
Lui non l’ha mai saputo. Nessuno l’ha mai saputo.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Please love me

Please, love me


Era il mio migliore amico.
Ci conoscevamo dall’asilo. Siamo sempre stati assieme. Io, lui e suo fratello. Inseparabili.
Ma io lo amavo.
Lui non l’ha mai saputo. Nessuno l’ha mai saputo.
Nonostante tutto, ero sempre stata al suo fianco respingendo quello che provavo. Nascondendolo anche a me stessa. Ero sempre disposta ad ascoltarlo quando veniva da me e mi raccontava della sua nuova tipa o di quella che gli piaceva. Consigliandolo su quello che avrebbe dovuto fare per conquistare questa o quella ragazza.
O lui era sempre pronto ad accogliermi quando ero io che sgattaiolavo di nascosto da loro andando a rifugiarci nella nostra casetta sull’albero, quella costruita sui rami della grande quercia che stava sul confine dei nostri giardini. Lontani da orecchie indiscrete, ci raccontava della scopata che si era fatto con la ragazza con cui stava in quel momento.
Ed io ascoltavo impassibile. Sorridendo. Sforzandomi di sorridere. Fingendo un sorriso il più vero possibile. Ridendo assieme a loro, scherzandoci e commentando. E segretamente immaginavo me stessa al posto di quella ragazza che, inevitabilmente, alla fine conoscevo e per forze maggiori finivo con l’odiarla.
Quante ne ho passate in questi cinque anni.
Quante lacrime ho versato per lui e comunque continuavo a stargli vicino.
Quanto dolore ho provato per i suoi racconti e non riuscivo a non amarlo.
Anche adesso, che siamo cresciuti ci piace ritrovarci ogni tanto nella nostra piccola casetta di legno, per parlare liberamente di tutto. Di tutti i nostri problemi e dei progetti per il futuro. Delle paure e delle litigate che facciamo con i nostri genitori.
Quando capita, ci raggiunge anche un loro amico. Il loro migliore amico, Andreas.
Una volta mi avevano confidato che aveva una cotta per me. Ne ero più che lusingata. Hanno insistito così tanto perché ci frequentassimo. Dicevano che sarebbe stato super se ci fossimo messi assieme.
I loro migliori amici fidanzati.
Li faceva impazzire quest’idea. Ma io non potevo. Continuavo a rifiutare inventandomi, cioè non proprio, di essere innamorata di un altro. Allora iniziavano a riempirmi di domande sul mio presunto amore. Ed io mi defilavo sempre con qualche patetica scusa.
Io ancora oggi mi rifugio lì, in cerca di silenzio e tranquillità. Per pensare e sentirmi libera. Quando credo di non resistere più e sento il mondo crollarmi addosso. Quando ho bisogno di una risposta. O semplicemente quando voglio sentirlo al mio fianco come da bambini.
Mi ricordo di una volta, era primavera inoltrata, avevamo quattordici anni. Erano le nove più o meno, sono certa fosse dopo cena. Stavo sola in casetta per isolarmi dal resto del mondo. Avevo appena litigato coi miei genitori. Quando all’improvviso sentii una porta sbattere e immediatamente dopo dei passi su per la scaletta. Ero certa fosse Bill. Era lui che la usava sempre per salire, almeno da quando era caduto mentre ci arrampicavamo sui rami per vedere chi arrivava più in alto. E invece, quando mi sporsi per dargli una mano ad entrare spuntò fuori una testa di scapigliati rasta biondi.
Era ubriaco, visibilmente ubriaco. Anche se non gliela chiesi perché era sempre quella la solfa, come spiegazione mi disse che era stato fuori con amici ed avevano esagerato leggermente col bere al bar. Non era la prima volta. Era già venuto un paio di volte da me sbronzo chiedendomi di ospitarlo per non farsi vedere dalla madre in quelle condizioni.
Io, stupida, ero sempre disponibile per lui. Qualsiasi cosa mi chiedesse.
Si coricò appoggiando la testa sul mio ventre. Iniziò a raccontarmi della sua nuova ragazza, dicendomi che credeva fosse quella giusta. Katia, si chiamava così. Diceva che credeva d’amarla ma che tra loro non avrebbe mai funzionato e quindi, pensava di lascarla nel giro di qualche giorno. Quando gli chiesi il perché non disse nulla fece solo un veloce gesto con la mano.
Prese a raccontare di come s’erano conosciuti e delle liti che puntualmente facevano almeno un giorno sì ed uno no, alludendo a come si riappacificavano. Ed io, dentro, mi sentivo morire sotto il peso dei suoi resoconti.  Non potevo farcela, non quella volta. Così mi portai le mani sul volto e, per la prima volta in tanti anni, vide le lacrime che versavo per lui. Ma non glielo dissi esplicitamente che erano causa sua, così interpretò che stessi male per la lite dei miei.
Delicatamente mi spostò le mani e dolcemente posò le sue labbra sulle mie. Solo per pochi istanti ma mi sembrarono anni, secoli. Bastarono quegli infiniti secondi per far accelerare all’impazzata il mio cuore e farmi arrossire paurosamente. Imbarazzata, salutandolo, mi sporsi dalla finestra saltando giù dal ramo. L’avevo già fatto almeno un migliaio di volte, ma quella sera atterrai male e mi ruppi un polso.
Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, i gemelli vennero a farmi visita. Si sedettero infondo al letto guardandomi preoccupati come se fossi in fin di vita. Mentre io, ridendo, li rassicuravo che era tutto a posto e stavo bene. Prima che se ne andassero Tom mi prese in disparte chiedendomi scusa per quello che aveva fatto la sera prima. Gli sorrisi dolcemente facendo spallucce ma dentro mi sentivo morire. Morire seriamente.
Gi anni passarono e il sentimento che lentamente mi consumava non faceva altro che accrescere di intensità. Cercai di vederli il meno possibile per tentare di dimenticarlo. Mi misi anche con un mio compagno di classe, un paio di settimane, ma il mio cuore voleva solamente lui e nessun’altro.
Ormai non ci vedevamo da quasi più di un mese.
Quella sera non potevo scappare ancora. M’ero decisa. M’aveva convinto. Quasi obbligato, sarebbe meglio dire.
Sarebbe stata quella la sera.
Prima della festa andai a casa di Katia per prepararci insieme. Sì, esatto proprio quella. Eravamo diventate grandi amiche. Pantacollant. Minigonna scura. Maglietta nera con scollatura a dir poco provocante, prestatami da lei e, anche se avevamo avuto da dire, scarpe con tacco vertiginoso ai piedi. Trucco nero e capelli sciolti.
Anche lei lo aveva capito, ma mai detto a nessuno.
Mi aveva convinto lei a chiederglielo. A dirgli tutta la verità. Io non volevo. Mi bastava seguirlo da distante, ma lei non era d’accordo.
Facemmo il nostro grande ingresso verso le dieci di sera. La mia amica mi abbandonò subito dandomi precise istruzioni su quello che avrei dovuto fare, rassicurandomi che lei ci sarebbe stata qualsiasi cosa sarebbe successa. Bastava fare un urlo.
Andai subito a fare gli auguri al festeggiato e poi presi a girare per casa sempre più inquieta, guardandomi attorno. Uno, due, tre giri. Tenendolo d’occhio. Guardando con chi flirtava. Volendo solo scappare da quel mondo per rifugiarmi nel mio. L’unico in cui mi sentissi libera da tutto.
Ero ferma appoggiata alla porta che gli davo le spalle quando si avvicinò posandomi un braccio attorno i fianchi, facendomi rotare su me stessa, così che il mio cuore accelerò all’impazzata. 
   «Ma guardati, non sembri nemmeno te» rise allontanandosi per guardarmi.
Arrossii cercando di defilarmi. Non potevo farcela.
   «E non c’è il tuo amore?» chiese ridendo.
Sì sei te avrei voluto rispondergli, ma invece lo tenni per me. Chiusi gli occhi stringendo più forte la sua mano.
   «Stai bene?» chiese preoccupato.
   «No − sussurrai – Tom, dovrei parlarti …» dissi senza voce.
Sgranò gli occhi. Mi trascinò dietro di lui su per le scale al piano di sopra, andando a chiuderci nella stanza di Andreas. Si sedette sul letto mentre io giravo agiata.
   «Allora?» chiese sorridendomi dolcemente.
Inspirai profondamente e poi lo feci.
Mi ero preparata. Avevo imparato a memoria quello che avrei dovuto dirgli, esattamente come se fosse un’interrogazione. Eppure in quel momento la mia mente si svuotò completamente. Sentivo solo l’eco del mio cuore che batteva.
   «Tom io, io non volevo. M’ha costretto lei. Cioè ha detto che sarebbe stata la cosa migliore per me, perché non ce la faceva più a vedermi piangere e star male per te …». Parlavo piano con voce tremante senza guardarlo in volto.
   «Io, io voglio che sia tu, che sia tu il primo». Avevo il viso in fiamme per la vergogna e gli occhi bagnati per il dolore.
   «C-cosa intendi. Non capisco» balbettò con gli occhi sgranati.
   «Lo sai. Sai cosa intendo. Lo sai benissimo» lo guardai cercando di cancellare le lacrime.
Mi lasciai cadere lungo la parete rannicchiandomi, stringendo forte le braccia al petto. Non dovevo piangere. Dio mio, ma chi me l’aveva fatto fare? Io non volevo tutto quello.
   «N-no questo è soltanto uno scherzo. Tu non me lo stai chiedendo sul serio. Non è possibile!». Si alzò stupefatto camminando come avevo fatto io fino a poco prima.
Si avvicinò passandomi le mani dietro la schiena stringendomi a lui. Abbracciandomi forte come non faceva mai con me.   
   «Sicura che è quello che vuoi?» sussurrò scostandomi i capelli dall’orecchio.
Scossi la testa con vigore mentre le lacrime scivolavano lungo le guance.
   «No! Lascia perdere. Sono stata una stupida a chiedertelo». Mi alzai spostandolo da me, andando verso la porta decisa ad andarmene per sempre.
Mi fermò afferrandomi per un braccio. Mi tenne ferma davanti a lui, guardandomi negli occhi. Pensavo d’impazzire. Lo desideravo come non l’avevo mai desiderato. Ma avevo paura di perderlo con qualsiasi movimento che avessi compiuto. Avevo paura di vederlo sparire nel nulla davanti ai miei occhi.
Si avvicinò sfiorando appena le mie labbra con le sue per poi avvicinare la sua bocca al mio orecchio parlandomi dolcemente, fino a farmi venire i brividi.
   «Va bene. Se è questo quello che veramente vuoi, tutto per te piccolina mia. Spero solo di non deluderti troppo. Non sono poi così bravo e mi tratterrò anche perché avrò paura di farti del male ed è l’ultima cosa che voglio questa» sussurrò baciandomi la guancia.
Tenendomi stretta la mano scendemmo di corsa le scale per andare dritti verso casa. Percorremmo la via senza fermarci, senza dire nulla, non una parola.
Sgattaiolammo in giardino cercando di non farci vedere da nessuno. Mi fece salire sulle scalette fatte da noi ormai tutte rotte dal tempo e lui subito dopo. Mi misi in un angolo stringendo forte le braccia al petto. Stavo per avere tutto quello che avevo sempre desiderato eppure non riuscivo a provare alcuna felicità, forse perché ero cosciente del fatto che per lui, quello che stavamo per fare, quello che gli avrei donato da li a poco, non sarebbe valso nulla.
Il piccolo pavimento d’assi chiare era rischiarato dalla luce luna.
Veloce estrasse una coperta di lana scura dalla cassa vicino l’ingresso, sistemandola accuratamente per terra e poi ne prese un’altra appoggiandola vicino ad un angolo.
Gentilmente si voltò verso di me allungando una mano sorridendomi cercando di rassicurarmi. La presi e mi portò davanti a lui accarezzandomi i capelli. Poi dolcemente mi fece coricare sopra la coperta e lui subito dopo mettendosi a cavalcioni su di me.
   «Da quanto?» chiese chinandosi a baciarmi.
   «Sempre. Da sempre» sussurrai.
Le sue mani calde si infilarono sotto la maglietta accarezzandomi la pelle.
Ero percorsa dai brividi.
Lo baciai sulla bocca. Rispose senza esitazione. Baciandomi come mai nessuno mi baciò. Come mai nessuno mi bacerà più.
Lo feci alzare, ed io con lui, iniziando a spogliarmi. Via la gonna e i pantacollant rimanendo solo in mutande e reggiseno.
Prese le mie mani nelle sue portandosele sotto la maglietta facendomi accarezzare il suo petto scolpito. Togliendosela poi velocemente facendomi mancare il fiato. E poi anche i pantaloni che scivolarono leggeri lungo le gambe spostati in un angolo da un calcio.
Alla fine, via anche l’intimo che finì accatastato assieme agli altri vestiti.
Di nuovo coricati  uno sopra l’altra.
Con la mano scese accarezzandomi il ventre fino a farmi divaricare le gambe.
   «E chi l’avrebbe mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato a fare l’amore con la mia migliore amica che ha una cotta colossale o meglio, è innamorata persa di me da sempre, nella nostra casetta sull’albero» sorrise dicendo tutto questo.
Cercai di sorridergli il più sinceramente possibile. Già, chi l’avrebbe mai detto è?
   «Ora rilassati. Sta calma. Non sentirai quasi nulla se è questo che ti preoccupa» rise ed io con lui, anche se la mia era più una risata isterica.
   «Simpatico» sospirai perdendomi nei suoi occhi.
Dolore. No, non era proprio dolore quello che provi quando ti fai male ed urli per scaricarlo. Era più un dolore piacevole, caldo e dolce. Una strana sensazione di benessere e pace.
Ansimai gemendo forte. Invocando il suo nome più e più volte.    
L’unica spettatrice di quella notte fu la luna che col suo chiarore illuminò la scena per le timide stelle che si affacciavano in cielo.
Al mattino mi svegliai abbracciata a lui. Stretta tra le sue braccia.
Perché? Perché stavo piangendo? Non dovevo piangere e invece le lacrime correvano veloci lungo il mio volto. Mi strinsi più forte a lui che mi coprì meglio le spalle e posò le sue labbra sulle mie guance per asciugare quel fiume di dolore che bagnava il mio volto.
Felicità, non ne conoscevo il significato a quel risveglio. Però, da quel giorno imparai il complicato significato della parola amore.

  
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