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Autore: _Shantel    19/09/2011    19 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 8

Betato da nes_sie

Il nome ‘Celeste’ galleggiava insistentemente davanti ai miei occhi, riflesso su quel vetro antigraffio del touchscreen. Non riuscivo a spiegarmi il perché dovessi eliminare un semplice numero di telefono, visto che non avrebbe alleviato di certo i miei problemi con la squadra, ma in quel preciso istante mi sentii come se dovessi farlo.

Avevo bisogno di un gesto, di un qualcosa che anche solo idealmente me la facesse sentire distante. Era vero che cancellando il suo numero non l’avrei dimenticata, Celeste non sarebbe sparita di certo dalla mia testa, ma sarebbe stato un passo in avanti.
Alla fine anche io ero stato usato.
Pensavo che questo non sarebbe mai successo ad uno come Leonardo Sogno, e forse sarebbe stato anche così se avessi usato la mia vera identità, ma il Ruben che c’era in me era stato solamente un futile pretesto.
Sapevo che c’entrava quella specie di fighetto francesino mangia-lumache, quel Jean-qualcosa con una carota ficcata su per il culo, e più ci pensavo più mi prudevano le mani. Avrei tanto voluto sbattergli in faccia chi ero solamente per vedere la sua faccia, se avesse reagito.
La verità è che non riesci ad accettare che lei non ricordi.
Una voce nella mia testa, diversa da quella del mio Ego, s’insinuò strisciando ed eludendo le barriere che avevo alzato come difesa per il mio orgoglio. La odiai profondamente, ma le sue parole continuavano a rimbalzare negli angoli della mia mente.
Ero sempre stato il primo a far finta di niente, ad aver voluto la maggior parte dei rapporti senza alcun impegno, eppure Celeste, con la semplice e cruda verità, era riuscita a far smuovere qualcosa dentro il mio petto, a far sentire il mio cuore come se fosse stato gettato dall’ultimo piano di un grattacielo.
Sicuramente non stava mentendo, lei odiava le menzogne e i bugiardi.
Forse era anche per quel motivo che dovevamo finirla lì, prima ancora che cominciasse, prima che potesse peggiorare di più. Se riusciva ad odiarmi come Ruben, non osavo pensare cosa avrebbe detto di me se avesse saputo la mia vera identità.
Avevo già litigato con la squadra, avevo deluso il Mister, continuavo a sparare bugie a raffica e a mettere in mezzo il mio migliore amico. Inoltre, era chiaro come il sole che il Rosso ce l’avesse a morte con me…  mi ero giocato anche un fan.
Celeste Fiore vale tutto questo?
Mi sedetti di peso sulla sedia, fissando il telefono come se potessi trovare nel suo schermo nero e lucido delle risposte, quasi come una palla di vetro premonitrice. Ovviamente non ottenni nulla, ma dovevo decidere, e in fretta.
Fai il punto della situazione, Leo. Mi comunicò il mio Ego, tornando a fare capolino di tanto in tanto. Una lista di pro e di contro, cosa avevi e cosa perderai se continui a starle dietro.
Non faceva una piega. Forse era il rimedio più semplice del mondo, ma non potevo fare l’esigente in un momento del genere.
Prima di conoscerla, la mia vita era un sogno ad occhi aperti. Avevo tutto ciò che desideravo, viaggiavo per il mondo, facevo servizi fotografici, interviste e, alle volte, anche sfilate per i marchi più famosi. Avevo il record di minuti giocati senza mai uscire fuori dal campo e avrei presto raggiunto anche quello delle presenze, nonostante avessi solo ventidue anni. Mai litigato con un compagno di squadra, nonostante sapessi che tutti erano invidiosi del sottoscritto e del mio talento, soprattutto i più anziani.
Avevo una casa tutta mia qui a Roma, e altri immobili sparsi per il mondo, cinque macchine sportive, quattordici moto – di cui una Honda originale del mitico Valentino Rossi– e, se avessi voluto, anche un jet privato.
Ero Leonardo Sogno, cazzo. L’idolo del momento.
Avevo una copertina su Vanity Fair, una su Vogue, la prima pagina di ogni giornale sportivo europeo e riempivo la maggior parte dei notiziari con false piste su un mio possibile trasferimento nel Regno Unito.
Chiunque avesse un minimo di contatti con i mass media, conosceva la mia faccia e sapeva chi fossi.
Chiunque… tranne lei.
La Voce s’insinuò nuovamente nella mia testa, schiacciando gli altri miei pensieri e obbligandomi ad ascoltarla. Non sapevo da dove provenisse o che cosa volesse, ma riusciva sempre a spazzar via tutte le mie convinzioni.
Avevo conosciuto Celeste per caso, poco più di una settimana fa, e lei mi era entrata dentro come un uragano, con la sua stessa intensità. Era riuscita a scalfire la facciata arrogante che ostentavo sempre in giro, vantandomi a destra e a manca, e mi aveva punzecchiato col suo sottile sarcasmo. A lei non importava quanti soldi avessi, chi fossi, per quale dannata squadra di calcio giocassi – anche perché aveva conosciuto Ruben e non Leo –, inconsapevolmente le avevo fatto conoscere il vero Sogno, quello che oramai mostravo di rado.
Stai vacillando, riprenditi!
Posai il telefono sulla panca di legno di fronte a me e mi misi le mani tra i capelli, stringendo forte e chiudendo gli occhi. Avrei voluto davvero sapere cosa fare, avrei dato tutto per saperlo. Perché nessuno mi obbligava a cancellare quel numero? Per quale motivo non avevo un cazzo di tirapiedi che lo facesse al mio posto!
Afferrai nuovamente l’i-phone e la rubrica si aprì non appena il mio tocco s’infranse sullo schermo. Erano soltanto numeri, dei ghirigori vuoti e privi di alcun senso. Non avevano volto, non avevano anima, se ne stavano solamente lì, immobili, a fissarmi.
Pigiai su ‘Opzioni’, poi il tasto Elimina comparve nero su bianco. Dovevo darci un taglio, smetterla di fare la mammoletta o il coglione completamente obnubilato da quegli occhi azzurri e da quei capelli biondissimi.
Sei sicuro di voler eliminare Celeste Fiore dai tuoi contatti?
Anche il telefono ci si metteva con le domande insensate. Perfino gli oggetti inanimati erano contro di me. Sbuffai sonoramente e mi diedi del codardo più volte.
Dannazione, era soltanto un fottuto numero!
Preso da una collera improvvisa, pigiai su ‘Yes’ e il numero di telefono di Celeste scomparve dalla mia rubrica. Il conseguente vuoto che avvertii alla bocca dello stomaco provò che oltre a quei numeri inanimati, era scomparso qualcos’altro.
Fortunatamente non ebbi tempo di rimuginarci sopra perché, come se fosse impazzito del tutto, il mio i-phone cominciò a squillare. Lo afferrai, mosso dalla sciocca speranza che si trattasse di una certa biondina tutto pepe, ma vi lessi papà scritto sopra e imprecai silenziosamente.
Sapevo cosa voleva. Aveva sicuramente visto la partita in televisione e si sarà chiesto per quale motivo il suo figlio dalle uova d’oro si fosse comportato in quella maniera irrispettosa, tutto il contrario di ciò che gli aveva sempre ripetuto, fino alla nausea.
Cosa gli avrei dovuto rispondere? Papà è tutta colpa della gelosia che ora mi sta divorando? E la conseguente domanda sarebbe stata: gelosia per cosa?
No, per chi…
Se avesse saputo di Celeste non avrebbe fatto storie, almeno all’inizio, ma non ci avrebbe messo troppo tempo a fare due calcoli e a capire che una relazione avrebbe messo a rischio la mia carriera e, soprattutto, mi avrebbe distratto.
In fondo a cosa ti serve una ragazza, figliolo? Hai l’affetto dei tuoi genitori, hai il tuo amico Ruben, hai i tuoi numerosissimi fan e puoi divertirti con una ragazza diversa ogni giorno! Magari avessi potuto farlo io, ai miei tempi.
Già, ero l’invidia di tutti. Anche dei miei compagni di squadra, ma loro avevano una fidanzata, o meglio, una moglie e dei figli che li aspettavano a casa, tornati da una partita difficile. Avevano il calore e l’affetto di una famiglia.
Non che io non l’abbia, era ovvio, ma non era la mia.

Era triste perché era amato da tante persone, ma non era l’amore di nessuno.
[Diario di Anna Frank]

Non risposi a mio padre, non avevo voglia di sentire nessuno.
Successivamente, il telefono squillò ancora e il faccione di Ruben, con gli immancabili occhi da talpa, comparve sullo schermo strappandomi un mezzo sorriso. Anche il mio migliore amico era preoccupato, avrebbe voluto sapere come stavo, cos’era successo, ma quello di cui avevo bisogno era un momento per me. Da solo.
Infilai il telefono in tasca, presi il borsone, e mi diressi fuori dagli spogliatoi. Volevo andarmene, ignorare tutti quanti, ma ero venuto lì con il pullman della squadra e non avevo idea di come avrei fatto per tornarmene a casa.
Forse preferivo passeggiare per il Foro Italico, magari raggiungere Ponte Milvio e sibilare dei silenziosi Vaffanculo a tutti quei lucchetti incastrati sui pali, segni di amori eterni che io mai avrei potuto provare.
Mi stai diventando patetico, amico.
Ero completamente fuori di testa e mai mi era capitato di sentirmi così, quasi se un tir mi avesse schiacciato più e più volte.
«La partita non è finita, dove va?» mi disse uno stuard che presenziava l’uscita posteriore.
«Mi sgranchisco un po’ le gambe» mentii, ma avevo una posizione di rilievi lì dentro, perciò il tizio non fece poi tante domande.
L’aria di inizio Aprile era ancora pungente, perciò mi ritrovai a tirare la zip della tuta fino a coprirmi il collo e a calzare per bene lo zuccotto che avevo in testa. Rabbrividii, ma continuai a camminare.
Le luci giallognole dei lampioni illuminavano malamente una strada pressoché deserta, mentre le urla dei tifosi rimbombavano in tutta la zona. Già mi mancava l’odore dell’erba sintetica e quelle macchie di verde che ti rimanevano sui pantaloncini una volta che entravi in scivolata sull’avversario.
Togliermi il calcio, era come un pezzo della mia anima che si separava da me stesso, perché mi sentivo nulla senza il mio nome e il mio cognome.
Leonardo Sogno era sinonimo di campione, di astro nascente, di futuro capitano della Nazionale italiana. Il Ruben-Leonardo, invece, era solo una nullità che non riusciva nemmeno a farsi apprezzare da una ragazza qualunque.
Oltrepassai i cancelli della Curva Sud e fui in strada, davanti all’obelisco del Duce reduce dall’epoca fascista. Inspirai l’aria pungente di quella sera e mi decisi a proseguire verso una meta, qualunque essa fosse.
Il telefono trillò di nuovo, ma sapevo già che si trattava di un altro tentativo da parte di mio padre. Arrivava fino al sesto squillo, dopodiché si dava per vinto.
Ignorai la suoneria e proseguii cercando le strisce pedonali per attraversare la strada, perciò mi diressi al semaforo più vicino.
Quattro squilli...
L’omino verde comparve sul display ed io attraversai la strada con lo sguardo fisso a terra e il cappello calcato ancor più sulla faccia. Per la prima volta non volevo che la gente mi fermasse per strada, che mi riconoscesse o che potesse cominciare a farmi domande inutili. Era strano da dire, soprattutto per uno con l’ego grosso come l’intero Stadio Olimpico.
Sette squilli...
Mi incamminai sul lungotevere, buttando un occhio, di tanto in tanto, al fiume che mi scorreva accanto. Come avrei voluto che tutto mi scivolasse addosso come quell’acqua, che non m’importasse di nulla se non di me stesso.
Era così, fino ad una settimana fa.
L’opprimente verità cominciava a farsi strada nella mia testa, scavando e allargando il buco che il tarlo della gelosia stava utilizzando come tana. Dovevo smetterla di struggermi per una cosa che manco esisteva. Celeste non era la mia ragazza, non ci frequentavamo, avevamo avuto soltanto un incontro di fuoco e nemmeno se lo ricordava.
Ancora ti brucia, tutta questa storia.
Eccome se mi bruciava, anzi, mi ardeva completamente la carne.
Stavo impazzendo e dovevo chiudere questa storia il più presto possibile. Avevo eliminato il suo numero, ora dovevo solamente cancellarla anche dalla mia testa.
Il cellulare smise di vibrare, ma il suono di un insistente clacson mi destò dal mio flusso di pensieri. Constatai subito che si trattasse di un cazzone maleducato, visto che continuava a strombazzare ad un centimetro dal mio orecchio.
«Ma che cazzo di problema hai?» ringhiai, voltandomi.
La Mini-Minor bianca di mia nonna, di quelle originali degli anni ’60, mi comparve davanti agli occhi come un’oasi nel deserto. La vidi accostarsi e abbassare il finestrino, poi spuntare fuori con la nuvola di capelli bianchi e vaporosi sulla sua testa.
«Non è il linguaggio adatto per rivolgersi al tuo nuovo chauffeur, Chicco» mi rimproverò, sorridendo e beccandosi qualche imprecazione dagli automobilisti dietro di lei che rimanevano imbottigliati nel traffico per la sua momentanea sosta. «Forza, monta sul bolide di Annunziata».
Non potei fare a meno di ridacchiare, poi feci il giro della Mini e mi sedetti al posto del passeggero. Mi era sempre andata stretta quella vecchia carretta, infatti dovetti piegare le ginocchia quasi fino al petto per poter ridurre al minimo il mio metro e ottantasette.
Alla fine la nonna partì e si diresse verso casa sua. Pensai che di tutte le persone che mi avevano telefonato, forse Annunziata era l’unica che volessi vedere.
«Ho visto la partita» se ne uscì di punto in bianco.
Mi congelai a quell’affermazione, soprattutto perché avevo tentato di rimuoverla dalla mia mente il più presto possibile. Prima o poi, però, avrei dovuto affrontare i miei compagni e il Mister, tanto valeva prepararsi un discorso con la nonna.
«Lo so, sono stato uno stupido» ammisi, abbassando lo sguardo e puntandolo sulle mie Stan Smith bianche.
La nonna si fermò ad un semaforo e mi guardò fisso con i suoi occhi di un azzurro brillante. «No, mio caro! Sei stato un autentico coglione» rincarò la dose, lasciandomi spiazzato.
Cominciai a ridere, seguito da quella pazza di Annunziata e finalmente realizzai che soltanto lei era in grado di capirmi, di sapere cosa passasse in quella mia cazzo di testa matta.
«Hai ragione nonna» sghignazzai. «Sono proprio un coglione».
La nonna ripartì e continuò a guidare, intuendo subito che c’era molto altro dietro quel mio comportamento sconsiderato durante la partita più importante dell’anno. Era stato sempre così con lei, il nostro legame era qualcosa di speciale, di unico, ed era come se le nostre menti fossero in continuo contatto. Quando era morto il nonno, Annunziata non aveva versato nessuna lacrima, nemmeno un piccolo accenno di tristezza. Ovviamente soltanto io mi ero accorto di come soffrisse dentro.
«Si tratta di quella ragazza, vero?» mi chiese a bruciapelo, entrando nel garage con una derapata che avrebbe fatto invidia a Niki Lauda. La nonna, al volante, era un autentico pericolo pubblico.
«Nonna!» gridai, preso dal panico.
Lei mi sorrise, parcheggiando nel box e uscendo fuori dalla sua Mini-Minor bianca degli anni ’60.
«Stai tranquillo, Chicco» mi rassicurò, con una mano sulla spalla. «Ti ricordi, vero, che io e tuo nonno facevamo rally in tutta Europa?».
Tentai di regolarizzare il battito cardiaco dopo quell’avventura, poi fissai di sbieco la nonna. «Sì, quarant’anni fa».
«Oh, su» mi rimbeccò con una scrollata di spalle. «Non fare il puntiglioso».
Uscì dal box auto e chiamò l’ascensore di una palazzina signorile, trotterellando svelta come se avesse sessant’anni invece di settantacinque. La seguii ed insieme entrammo nella stretta cabina, per poi pigiare il numero 2.
La casa della nonna conservava ancora quello strano odore che ricordavo da ragazzino, quando mamma e papà mi parcheggiavano da lei a causa di impegni lavorativi o altro. Non sapevo ancora spiegarlo, ma era una strana fragranza di vecchio, non di quel tipo che ti fa venire la nausea, ma un profumo d’antico, come se le pareti stesse e i mobili trasudassero una storia propria.
Entrai in salotto e gettai la borsa per terra, stravaccandomi sul divano di pelle che adoravo sin da ragazzino. Quello era il sofà del nonno, su cui ci sedavamo per vedere le partite in TV quando ero piccolo, dove mi raccontava le storie della guerra e dove finivo con l’addormentarmi sulle sue ginocchia.
La nonna mi sedette accanto ed io le lasciai un po’ di spazio, rannicchiandomi in posizione fetale. Mi tolsi lo zuccotto e lo gettai a terra, poi rimanemmo così, in silenzio, nella penombra della stanza.
«Chicco» iniziò lei, carezzando dolcemente la mia coscia al di sopra della tuta A.S. Roma.
Sapevo che il momento sarebbe arrivato prima o poi, che avrei dovuto affrontare la verità con qualcuno e l’idea che fosse mia nonna, stranamente mi rincuorò. «Vuoi parlarmi di quello che ti sta succedendo, tesoro?».
La voce rincuorante di Annunziata cominciò a scaldarmi e non perché fossi finalmente in una casa con il riscaldamento acceso, ma soltanto perché sapevo di potermi fidare. Purtroppo non ero bravo a parole, non mi era mai capitato di dover parlare dei miei sentimenti con qualcuno, perché, in fondo, non ne avevo mai avuti di questi problemi.
«Nonna, non è semplice come sembra» abbozzai, affondando il viso nel cuscino che profumava ancora dell’acqua di colonia usata dal nonno.
«Provare non costa nulla» insistette lei, scavandomi dentro con l’azzurro dei suoi occhi.
Inspirai a fondo e poi lasciai che l’aria mi uscisse pesante dalle narici. Che cosa avrei dovuto dirle? Che Celeste mi aveva completamente rincoglionito? Che una semplice ragazzina, manco tanto bella, aveva ridotto il famoso Leonardo Sogno a una specie di ameba irascibile e dal pugno facile?
No, ne valeva ancora il mio orgoglio maschile, eccheccazzo!
«Ero solo teso per la partita, tutto qui» tagliai corto, sperando mi lasciasse dormire.
Quando la verità cominciava a piombarmi davanti alla faccia, cozzando contro il mio cuore a più di cento chilometri orari, era meglio eluderla.
Sentii la nonna ridacchiare e sapevo che aveva capito il mio fine. Non si poteva nascondere nulla ad Annunziata e c’erano voluti ben ventidue anni per capirlo.
«Dietro la tensione si possono nascondere molte cose» cominciò, tenendosi sul vago. «Può riguardare un problema familiare, uno stress dettato dal lavoro, oppure qualcosa che ti turba in una relazione» insinuò.
«Io non ho nessuna relazione!» risposi prontamente, scattando dal divano come se fosse improvvisamente cosparso di spilloni.
Nonna mi fissò come se fossi del tutto impazzito, poi sorrise furbamente. «Era soltanto un’ipotesi, Chicco. Hai degli scheletri nell’armadio per caso, tesoro?».
Avere un parente che ti conosce così a fondo che alle volte sembra abbia poteri paranormali, era una vera seccatura.
«No» borbottai, tornando a sedermi.
Mia nonna mi guardò con furbizia, mentre un sorriso da so-tutto-io le si dipingeva sulle labbra. Rimasi a fissare il pavimento di marmo per un tempo indefinito, con il cuore che batteva forte per l’emozione.
«Sicuro che non c’è nulla che vuoi dirmi?» mi chiese di nuovo, regalandomi un abbraccio che riusciva a mala pena a circondarmi le spalle.
Il mio silenzio parlò da solo e sentii la nonna sospirare profondamente. «Sai, quando avevo la tua età, feci un provino al Teatro Sistina per lo spettacolo di Rugantino. Ero molto brava, devo ammetterlo, così mi presero subito per fare il ruolo di Rosetta, la protagonista, e fummo in scena in men che non si dica.
«Ai miei tempi il teatro era molto più seguito di adesso, forse perché il cinema non era ancora tanto in voga e non c’erano tutti gli effetti speciali di adesso, comunque subito dopo la prima ottenni altri ingaggi che mi fruttarono un bel po’ di soldi. Non ero ancora sposata all’epoca, ma a tuo nonno non piaceva che io facessi l’attrice perché si pensava ancora che fosse un mestiere da poco di buono. Era un uomo dolce, tuo nonno, mi amava veramente, ma quando fui chiamata oltreoceano per inscenare un musical niente meno che a Broadway mi si presentò davanti una scelta» fece una pausa calcolata per dare più suspense al racconto.
Questa storia non l’avevo mai sentita, era la prima volta che Annunziata me ne parlava. Forse faceva parte di un ricordo che aveva conservato gelosamente per sé stessa e non l’aveva confidato nemmeno a mio padre, nonché suo figlio.
«Broadway, nonna!» esclamai, pensando subito alla quantità di successo che sarebbe piovuta sulla nostra famiglia se fosse diventata davvero una stella. Pensai subito che ci saremmo sicuramente trasferiti negli States, anzi, che io sarei nato a New York, magari in un attico sulla 5th Avenue. «Cosa hai fatto?».
Mia nonna mi accarezzò la nuca, scompigliandomi un po’ i capelli. Dietro quelle iridi azzurre c’era nascosto ben altro, una vita intera di emozioni, di pianti repressi e di gioie che io avevo appena iniziato a provare. Chissà se anche i miei occhi, un giorno, sarebbero diventati così profondi.
«Sono qui, Chicco» soffiò, con un po’ di malinconia. «Mi fu imposta una scelta, perché tuo nonno non mi avrebbe mai seguita. Aveva un lavoro, una casa, stavamo per cominciare una vita insieme ed io dovetti scegliere».
Non sapevo se mi stesse confidando quel segreto soltanto per farmi sentire meglio o per incoraggiarmi a parlarle dei miei problemi. La ascoltai comunque, perché lei era la mia famiglia. «Non sei partita» sospirai, evidentemente.
«Sì che sono partita» mi sorprese, fissandomi divertita.
«C-Come... e nonno?» balbettai incredulo e inorridito.
Mi stava prendendo per il culo? Cioè se n’era andata a New York mollando tutto e inseguendo il successo? Che razza di storia con morale era quella?
Annunziata ridacchiò, portandosi le mani al viso e fingendo imbarazzo. Poi le sue iridi cristalline mi cercarono ancora. «È rimasto qui in Italia e ci siamo anche lasciati se è per questo» rispose con ovvietà.
«Nonna!» sbottai contrariato. Un comportamento del genere me lo sarei aspettato da un adolescente in piena crisi di identità, ma non dalla nonna che ti aveva cresciuto e fatto il bagnetto fino a otto anni.
«Che c’è?» mi chiese lei, con quella solita aria furba. «Ero giovane, volevo il successo e adoravo che la gente mi fermasse per strada chiedendomi gli autografi. Avevo persino una mia fotografia esposta a Largo Argentina, pensa un po’».
Rimasi a dir poco sbigottito e la mia bocca semiaperta, con tanto di rivolo di bava annesso, ne era la prova vivente. «E cosa hai fatto, poi?» mi arresi.
Nonna tornò seria, e intrecciò le mani in grembo. «Non ce l’ho fatta» sospirò.
Il suo sguardo adesso era triste, lievemente velato dalle lacrime, e mi si strinse il cuore a vederla così, lei che era sempre solare.
«Ho vissuto a New York per sei mesi, tesoro» continuò il suo racconto «e per quanto abbia adorato il successo, il palcoscenico, l’ebbrezza di essere finalmente qualcuno, c’era qualcosa che mancava. Qui dentro» e s’indicò il petto.
In quel preciso istante anch’io avvertii un tonfo sordo all’altezza del cuore, come se il mio stesso corpo mi stesse inviando dei messaggi precisi che la mia mente non sapeva ascoltare. La nonna voleva dirmi qualcosa, nonostante non le avessi raccontato nulla.
«Nonno» risposi, sovrappensiero.
Lei sorrise e si asciugò una lacrima galeotta che era sfuggita al suo controllo. «Ogni giorno, ogni momento, in ogni singolo istante che trascorrevo sulla scena, il mio pensiero fisso era lui. Quando non lo vedevo tra gli spettatori, magari seduto nelle prime file che mi guardava con orgoglio, mi sentivo persa.
«E fu allora che realizzai la verità. Non avevo fatto i provini per me stessa e per la voglia di migliorarmi, non avevo passato notti insonni ad imparare battute fino a che non mi si chiudevano gli occhi e non avevo solcato l’oceano soltanto per pura vanità personale. Avevo fatto tutto quello soltanto per lui, perché desideravo mi guardasse con orgoglio, sempre». 
Abbassai la testa non appena nonna tornò a guardarmi, poi strinsi i pugni conficcandomi le unghie nella carne. Tutta quella storia andava benissimo per una commedia romantica, che avrebbe scosso l’animo del burbero protagonista facendogli ammettere di amare la sua bella.
Purtroppo quello non era né un libro, né tantomeno una commedia da quattro soldi.
«Beh, s’è fatta ‘na cert’ora» bofonchiai, stendendomi sul divano. «Buonanotte».
Annunziata non fu affatto sorpresa da quel mio repentino cambio di interesse, ma si limitò a sorridere come faceva sempre. Si alzò dal divano e si chinò quel tanto da afferrare una coperta e posarmela sulle gambe.
Si sporse per accarezzarmi la fronte, poi chiusi gli occhi.
«Ricorda che puoi viaggiare per il mondo, vedere persone, luoghi, sentirti amato da chi nemmeno conosci» poi sussurrò appena. «Ma prima o poi tornerai a casa, è una cosa che fanno tutti, e se a un bambino chiedi cosa sia per lui la parola ‘casa’, ti risponderà Mamma e Papà».
Mi posò un bacio sulla fronte, poi la sentii incamminarsi e fermarsi sulla soglia. «Non lasciarti sfuggire cose che hai la fortuna di avere soltanto alla tua età. Anche se tuo padre ti ha insegnato il contrario, il successo non è tutto».
Chiusi gli occhi con quei pensieri che mi vorticavano ancora nella mente e feci degli strani sogni. Di una cosa ero certo, Leonardo Sogno non era più lo stesso da un bel po’.
Da circa una settimana.



L'orologio della cucina scandiva li secondi che lenti scivolavano via. Che ore potevano essere? Le due di notte, forse le tre ma poco mi importava. Avevo tentato più volte di mettermi nel letto e cercare di dormire, ma Morfeo non aveva la benché minima voglia di accogliermi tra le sue braccia. Avevo provato a guardarmi una replica di Porta a Porta, sperando che mi avrebbe conciliato il sonno. Avevo bevuto litri di camomilla che avrebbero fatto crollare anche un gorilla. Mi era messa nel letto di Robbeo, magari con qualcuno a fianco sarei riuscita ad addormentarmi. Ma tutti i miei sforzi erano stati vani. Con il programma di Bruno Vespa avevo iniziato ad inveire per le affermazioni assurde dei suoi ospiti, la camomilla non faceva nessun effetto sulla sottoscritta che poteva essere “abbattuta” solo con un tranquillante per elefanti e Robbeo russava come una mietitrebbia. Per cui mi ero arresa e  mi ero seduta in salotto con il mio computer a portata di mano. Il mio pseudo-romanzo era davanti ai miei occhi ma stranamente non riusciva a catturare la mia attenzione. Ero troppo sovrappensiero, non mi riusciva nemmeno di articolare una frase che fosse sensata e con contenesse al suo interno il nome Ruben.
Era lui il mio problema, era il senso di colpa che provavo nei suoi confronti che non mi permetteva di dormire. Ero sempre stata una ragazza nevrotica e questo l'avevano capito anche i pinguini, ma con Ruben mi ero comportata davvero da stronza. Sembravo una iena sul punto di sbranarlo. Per cosa, poi? Solo perché si era fermato a dormire con me? Di quello si trattava, ne ero certa. Poteva essere un ignorante, un assassino della lingua italiana, un troglodita che ragionava con l'organo sbagliato perché privo di cervello, ma era sincero. Lo avevo letto nei suoi occhi tristi che non mi stava mentendo, eppure lo avevo cacciato lo stesso in malo modo. E mi si spezzava il cuore a ripensare al modo afflitto in cui era uscito da casa mia, quasi lo avessi ferito. Già, il cuore di ghiaccio di Celeste Fiore si era sciolto di fronte ad un troglodita come Ruben. Sembrava una barzelletta, eppure era così. Ma la mia reazione era stata dettata da quello stupido sogno erotico che sembrava reale in quella specie di stanzino illuminato solo da alcuni raggi lunari.
Sbuffai e mi massaggiai le tempie. Mi sembrava reale perché lo era stato, reale! Era inutile continuare a mentire a me stessa. Inizialmente mi ero autoconvinta che fosse stato solo un sogno perché era inammissibile che io avessi fatto una cosa del genere, soprattutto ad uno come Ruben che se ne infischiava dei sentimenti delle ragazze. Ma, davanti al ricordo di lui  così affranto e di fronte al fatto che sentivo terribilmente la sua mancanza, dovevo per forza ammettere quello che era successo tra di noi. Ammettere solo a me stessa, però, perché nessuno doveva sapere nulla di questa storia. Ne sarebbe andata del mio onore.
Scrollai la testa e cercai di scacciare via quei pensieri, tornando a concentrarmi sul mio romanzo. Rilessi qualche spezzone che, però, parevano scritti da una ragazzina di seconda media. A parte il lessico assolutamente povero, la trama era pietosa. Scontata, banale, troppo romanzata. Una storia alla Moccia, insomma. Al solo pensiero rabbrividii. Per cui selezionai tutti i capitolo scritti che vennero evidenziati in blu e attesi. Guardai quelle parole e ripensai al tempo che ci avevo impiegato per scrivere più di cento pagine. Sentivo che tutte quelle frasi, tutti quei pensieri trascritti su Word non mi rispecchiassero più e questo solo perché mi sentivo diversa da prima. Sempre cinica e isterica, ma sentivo che c'era qualcosa in me che volevo esplodere, anche se non sapevo di cosa si trattasse. Decisi così di premere il tasto Canc ed eliminare tutto il mio lavoro. Appena vidi il foglio bianco mi sentii quasi più leggera e sorrisi allo schermo. Appoggiai le dita sui tasti della tastiera, anche se ero certa che non sarei riuscita a scrivere nulla. Ed invece, quasi fossero state governate da una forza sovrannaturale, cominciarono a picchiettare le lettere e le parole nacquero in un istante. Un'ispirazione improvvisa che non sapevo da dove fosse scaturita.
Scrissi tutta la notte, incurante del tempo che passava. Ero talmente presa dal mio nuovo romanzo che non mi accorsi che il sole era spuntato e che era già mattina. Per giunta inoltrata, dato che Robbeo si svegliò tutto intontito e mi raggiunse.
«Che fai?» mi domandò, stropicciandosi gli occhi e guardandomi come una triglia lessa.
«Buongiorno anche a te» risposi con tono scocciato. Nemmeno uno straccio di saluto. Prima o poi avrei dovuto insegnargli le buone maniere «Scommetto sulle corse dei cavalli»
Romeo biascicò qualcosa di incomprensibile, poi si grattò il fondoschiena con una certa nonchalance. Lo guardai inorridita ed afferrai il primo oggetto che mi capitò sotto mano, ossia il telecomando per lanciarglielo addosso, ma lui si scansò prima che venisse colpito sul naso. Molto probabilmente, nella foga, avevo schiacciato il tasto On perché la televisione si accese, ovviamente sul canale di sport.
«Brutta partita ieri sera per la Magica» diceva il commentatore «E Leonardo Sogno si è anche preso tre giornate di squalifica per un pugno a Borriello. Chissà cosa sarà successo al campione della Roma...»
Quella specie di talpa rachitica che avevo conosciuto alla festa della piattola aveva tirato un pugno a tale Borriello? Mi pareva strano che non si fosse rotto una mano nell'urto. Bastava una folata di vento per spezzarlo come se fosse un fuscello. Mi voltai lentamente verso il televisore per guardare con i miei stessi occhi la talpa che pestava uno che era il doppio di lui, ma Robbeo, con uno scatto che probabilmente gli aveva stirato qualche muscolo flaccido, si parò davanti al televisore coprendolo con il suo corpo.
«E spostati! Voglio vedere il rinsecchito che mena Borri-coso» esclamai, muovendomi a destra e a sinistra per guardare qualche spiraglio di tv, anche se Romeo, con la sua stazza non proprio da modello di AberCrombie, copriva l'intero schermo.
«Non ti conviene. È una scena cruenta, orribile, inguardabile» parlo velocemente e i suoi occhi verdi erano sgranati.
«Più orribile di quando ti vedo girare in mutande per casa?» domandai sarcastica.
«Molto peggio. Fidati» annuì con convinzione e spense la tv, sedendosi al tavolo accanto a me.
«Allora è davvero raccapricciante» ribattei e feci finta di rabbrividire per l'orrore della visione di Robbeo quasi completamente nudo. Lui assottigliò lo sguardo e mi fissò fintamente offeso. Tanto le frecciatine tra noi due erano all'ordine del giorno.
«Comunque, davvero stai scommettendo sui cavalli?» mi domandò ancora, puntando l'aggeggio.
«No, babbeo» sbuffai «Ti pare che io faccia una cosa stupida come quella? Faccio quello che sono solita fare, no?» aggiunsi con una scrollata di spalle.
«Rompere i coglioni?» ridacchiò l'idiota, ma smise subito, non appena la mia mano schioccò sonoramente sul suo collo. Romeo si massaggiò la parte colpita e mi guardò di traverso.
«Non è proprio giornata oggi» lo avvisai, puntandogli un dito contro «Non ho voglia di scherzare».
Robbeo scrollò le spalle e scivolò lungo lo schienale della sedia, pulendosi gli angoli degli occhi ed esaminando poco dopo le schifezze che vi aveva trovato dentro.
«Quindi è tutto come al solito» disse tranquillamente.
Ridussi gli occhi a due fessure e arricciai le labbra. Qualcuno, quella mattina, aveva voglia di morire e quel qualcuno si chiamava Romeo Ciuccio. Ma siccome non avevo voglia di spargere sangue per casa perché poi avrei dovuto ripulire tutto e di fare Cenerentola non se ne parlava, mi trattenni dallo spaccargli la faccia. Salvai il file del mio nuovo romanzo e chiusi con violenza il computer portatile.
«Che c'è per colazione?» mi domandò, sbadigliando.
«Un bel niente!» risposi acida.
«Ma io ho fame!» piagnucolò massaggiandosi lo stomaco.
«Preparatela da solo la colazione. Io non sono la tua serva!» sbottai e mi alzai dal tavolo.
«Come sei elettrica stamattina» sbuffò grattandosi entrambi gli occhi «E sono solo le dieci di mattina».
Le parole di Robbeo arrivarono alle mie orecchie un po' in ritardo e ci volle un po' perché capissi che aveva detto realmente dieci di mattina. Magari ero io sono un po' intontita visto che non avevo chiuso occhi. Per cui lo guardai con gli occhi sgranati e gli chiedi conferma.
«Che hai detto?»
«Che sei elettrica» rispose, senza aver capito nulla come al solito.
«No! Dopo!»
«Stamattina»
«Oddio! Ma sei proprio idiota!» sbottai «Dopo ancora»
«Che son le dieci. E non ho aggiunto altro, prima che mi aggredisci di nuovo e mi sbrani» …faceva anche lo spiritoso.
Ma non c'era tempo per star lì ad intavolare una litigata con Robbeo – che poi ero io che litigavo con un muro, visto che lui non mi cagava mentre sbraitavo. Presto sarebbe arrivata in stazione la mia migliore amica che non vedevo da qualche mese. Mi aveva mandato una mail qualche giorno prima per avvisarmi del suo arrivo ma, con tutto quello che era successo, con l'episodio nello stanzino e la litigata con Ruben, mi ero dimenticata di lei.
Mi fiondai in camera mia e mi vestii con i primi vestiti che trovai nell'armadio. Sembravo una barbona, ma poco importava. Il treno sarebbe arrivato in meno di dieci minuti e solo il teletrasporto di Goku sarebbe riuscito a farmi arrivare in orario.
«Muoviti Robbeo! Vestiti» gli ordinai.
«E perché?» domandò assonnato.
«Devi accompagnarmi in stazione con il tuo bolide»
«Che non ci puoi andare da sola?» ribatté sbuffando.
«Mi hanno bocciato quattro volte all'esame di pratica per la patente. A meno che tu non voglia che dimezzi la popolazione romana, ti conviene alzare le chiappe e portarmi in stazione»
Robbeo si alzò svogliatamente dalla sedia e si stiracchiò. Annuì e si diresse lentamente in camera sua per vestirsi. Ne uscì poco dopo vestito con una camicia spiegazzata di un terribile color ocra e un paio di calzoni multitasca di un grigio spento.
«Cos'è, tua mamma viene a rompere?» ridacchiò divertito.
«No! Viene a trovarci Ven!» esclamai prendendo la borsa e le chiavi di casa.
Aprii la porta e mi precipitai sul pianerottolo, seguito da Romeo che aveva la faccia contrita in una smorfia di disappunto.
«Ven, Ven, quella Ven?» mi domandò, mentre tentavo di chiudere la porta «Ven la saccente, Ven la maestrina, Ven la pignola...»
«Quella  Ven...» sospirai, entrando nell'ascensore.
«Ven l'antipatica, Ven la rompicoglioni, Ven la cozza?»
«Quella Ven!» tuonai esasperata «E non credere di essere tutta sta bellezza tu» sputai, uscendo dal condominio e posizionandomi davanti al macinino di Robbeo.
«Spero che tu le abbia prenotato una bella pensioncina con qualche psicopatico che uccide i suoi ospiti» sghignazzò.
«Starà da noi. Che tu lo voglia oppure no» incrociai le braccia al petto e la macchina, arrancando, partì.
Ven e Romeo non erano mai andati d'accordo, nemmeno durante il liceo. Nonostante i mie sforzi di farli convivere in pace, non erano mai riusciti a trovare un punto d'accordo. Ven diceva che Romeo era troppo stupido per i suoi gusti, un babbeo, appunto. Era stata lei a coniare quel fantastico soprannome durante uno dei loro battibecchi. Mentre Robbeo non l'aveva mai digerita non perché fosse magari un po' troppo puntigliosa o che altro. No, per un motivo idiota quasi quanto lui e tutto il resto del genera maschile. Perché era una cozza, a detta sua. E per questo non le si era mai avvicinato più di tanto. Ma cosa ci si poteva aspettare da un essere dotato di Walter?
«Però dorme in camera tua. Non la voglio vedere mentre si spoglia» puntualizzò poi.
«Tranquillo. Non voglio rischiare che le venga un infarto per averti visto in mutande» risposi per le rime e sorrisi vittoriosa quando lui si ammutolì.
Osservai Roma scorrerci accanto – ad una velocità minima – e mi ricordai del viaggio sulla Vespa-trabiccolo di Ruben. Era stato uno dei nostri primi contatti fisici e uno dei pomeriggi migliori della mia vita. Ero uscita di casa, avevo ignorato lo studio per un po' e mi ero divertita per la prima volta nella mia vita.
Dovevo ammetterlo, mi mancava Ruben. Prendere per i fondelli Robbeo non era così appagante come quando lo facevo con Ruben. Ripensandoci, i nostri battibecchi erano davvero esilaranti. Per non parlare poi di quando gli pungolavo il petto e lui sbuffava infastidito dal mio indice. Oddio, mi mancava tutto di lui ma soprattutto di noi, di tutti i nostri discorsi sconclusionati e di tutti quegli sguardi che ci eravamo scambiati.
Chiusi gli occhi e mi passai indice e pollice sulle palpebre per tornare poi a guardare davanti a me. Dovevo smetterla di pensare a lui, tanto non lo avrei mai più rivisto. Molto probabilmente Ruben era con qualcun altra in quel momento, nel letto di una ragazza di cui non sapeva il nome.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Romeo parcheggiò il pandino mezzo scassato vicino alla stazione e finalmente scendemmo da quella orribile macchina che si reggeva ancora per miracolo. Più volte avevo cercato di convincerlo a comprare un'altra auto, ma lui non voleva ferire suo nonno che gliela aveva regalato l'anno prima. Era una specie di cimelio della famiglia Ciuccio, e Robbeo non riusciva proprio a separarsene. Un giorno ci sarebbe rimasto secco, ne ero sicura.
Entrammo a Termini e seguii le indicazioni che portavano ai binario, facendomi spazio tra la folla. Afferrai Romeo per un braccio quando lo vidi guardarsi intorno sapesato. Non aveva nessun senso dell'orientamento e si sarebbe sicuramente perso lì dentro, morendoci qualche giorno dopo. Lo trascinai lungo tutta la stazione, strattonandolo quando si fermava a sbavare di fronte alla gnocca di turno. Mi infastidiva quel suo atteggiamento e non perché fossi gelosa di lui, ci mancherebbe, ma solo perché dimostrava di essere solo un superficiale, come qualsiasi altro uomo sulla faccia della terra. Era per quello, forse, che avevo un odio viscerale per la maggior parte dei “dotati di Walter”. Fatta eccezione per Robbeo, che, ormai, era diventato una specie di fratello acquisito, J, che sembrava possedere un po' di materia grigia e Leonardo, il rachitico cieco che mi aveva fatto tanta tenerezza.
E Ruben.
Sì, ma lui era un caso a parte. Strinsi di più il polso di Romeo e accelerai il passo, rischiando di far cadere rovinosamente il mio miglior amico con la faccia per terra. Ma almeno così arrivammo più in fretta ai binari. Quello di Ven era il numero 13, per cui lo raggiunsi a passo svelto. Il treno era già arrivato e la gente si era ammassata al fianco dei vagoni per salutarsi e sbaciucchiarsi. Mi alzai sulle punte in cerca di Ven, poi mi inoltrai tra i le persone. E finalmente la vidi verso la metà del treno, con  la borsa stretta al petto e il trolley al suo fianco. I suoi occhi blu vagavano per la stazione e, quando incontrarono i miei, si illuminarono e un sorriso crebbe sulle sue labbra.
«Cel!» esclamò, correndomi incontro, trasportando il trolley.
«Ven!» dissi a mia volta e l'abbracciai.
Quanto mi era mancata la mia migliore amica! E non solo perché parlare con una ragazza che non fosse una specie di Miss Italia decerebrata mi era utile, ma soprattutto perché lei era una delle poche persone a cui mi fossi legata veramente. Ven era un pezzo del mio cuore.
«Non vedevo l'ora di rivederti!» disse, senza sciogliere l'abbraccio.
«Mi sei mancata così tanto!» le confidai a mia volta.
«Avrai un sacco di cose da raccontarmi» esclamò con entusiasmo guardandomi negli occhi.
Sì, proprio tante. Ma anche se era la mia migliore amica non volevo toccare il discorso Ruben. Era off limits. Dovevo dimenticarlo e il primo passo per farlo era ignorare che quel troglodita esistesse, far finta di non averlo mai incontrato.
«Capirai» bofonchiai «Casa, università, casa, università. E gelateria»
«Un po' come me» ridacchiò «Tranne che io non lavoro in gelateria. Per fortuna, aggiungerei visto che i mangerei tutti i gelati in un solo pomeriggio. E non voglio diventare una balena»
«Tanto lo sei già» disse Robbeo che si era tenuto in disparte fino a quel momento.
Mi voltai di scatto e lo trucidai con uno sguardo. Aveva la stessa finezza di uno scaricatore di porto all'OktoberFest che si è scolato dieci birre consecutive. Che poi Ven non era affatto brutta, anzi aveva un viso dolce e paffuto, due grandi occhi blu e due splendide fossette sulle guance. Ma solo perché non era uguale a Megan Fox ed era in grado di fare un ragionamento logico, era catalogata come cessa. Come la sottoscritta, sostanzialmente.
«Oh» disse solamente Ven per nulla offesa «Ti sei portata dietro l'ameba»
«Ameba?» ripeté stizzito Robbeo.
«Credi che sia troppo offensivo per la povera ameba essere paragonato a te?» domandò sarcastica incrociando le braccia.
«Come sei simpatica» ironizzò scocciato il mio migliore amico.
«Anche tu. Quasi quanto un esame di diritto commerciale» ribatté Ven,  buttandola sul “giuridico”.
«Ah, ah, ah! Che ridere!» sbottò Romeo, offeso «Cel sei sicura di non voler mandare Venere in un ostello gestito da pazzi psicopatici?»
«Mi chiamo Vénera, per la cronaca» lo corresse la mia amica.
«Venere, Venéra, Venerdì è uguale» bofonchiò contrariato.
«Robbeo non è difficile da capire. Si chiama Vénera» lo ripresi, sapendo quanto la mia amica non sopportasse quando la gente sbagliava il suo nome. Se poi lo si faceva di proposito come faceva Romeo era anche peggio.
«Non l'ho imparato in cinque anni di liceo, figurati se mi impegno adesso a capire come si chiama»
Non attese nemmeno una nostra replica e non si premurò nemmeno di prendersi carico del bagaglio di Ven, si avviò spaesato verso l'uscita della stazione. Presi a braccetto la mia amica e le feci strada  nell'immensità di Termini.
«Perché perdi ancora tempo con Ciuccio?» mi domandò sospirando «È uno dei pochi esseri umani che prosciuga la mia pazienza»
«Ormai è come una specie di fratello. Gli voglio bene, nonostante tutto» ammisi scrollando le spalle.
«Sarà…» sospirò lei sistemandosi la borsa in spalla «Non vedo cosa tu ci abbia trovato in uno come lui»
«Mi ha fatto pena. Era tutto solo in classe e mi sono avvicinata a lui. Poi da cosa nasce cosa, me lo sono ritrovata in casa» scoppiammo a ridere entrambe ed uscimmo finalmente dalla stazione.
Non ero mai stata un tipo da farsi grasse risate. Nemmeno i comici di Zelig trovavo divertenti. Solo con Ven riuscivo a ridere di gusto e sinceramente. Ci eravamo conosciute in prima superiore e dal primo giorno eravamo diventate amiche. Condividevamo le stesse passioni per la lettura, odiavamo le stesse cose, come il calcio ad esempio ed era l'unica che sapesse consigliarmi con la sua saggezza. Arrivammo di fronte alla macchina di Robbeo e Ven assunse un'aria schifata.
«Che bolide» commentò sarcastica «L'hai rubata ad Alonso?»
«Sei proprio tanto spiritosa» ribatté Robbeo indispettito «Questa macchina è un cimelio di famiglia, tramandato di generazione in generazione» alzò un indice al cielo adottando un tono solenne «Non così tante generazioni» aggiunse perplesso.
«Si vede» borbottò Ven salendo sul sedile posteriore «La usavano i tirannosauri questa macchina»
«Non capisci il valore affettivo di questa super macchina» replicò serio Romeo «È inutile anche che cerchi di fartelo capire, Venerdì»
«Un po' come il fatto che io mi chiamo Vénera e non come un giorno della settimana. Ho perso qualsiasi speranza»
Sembrava quasi che fossimo tornati al liceo, con quei due che battibeccavano in continuazione anche per cose futili. Abbandonai i loro discorsi e mi isolai completamente. Le loro voci divennero mano a mano più ovattate e fui inghiottita nella spirale dei miei pensieri. Sarebbe stato difficile dimenticare Ruben anche perché lui era stato l'unico ragazzo, dopo anni, che mi aveva fatta sentire completamente un'altra persona. E per di più, era uno dei pochi che non mi trovava irritante, anzi era riuscito a sopportarmi e a starmi accanto nonostante il mio carattere non proprio semplice da gestire. Mi ero divertita con lui e avevo scoperto, seppur solo per qualche giorno, cosa si provasse a vivere davvero la vita. Ero uscita in moto con lui, avevo partecipato ad un party esclusivo e lui era entrato a far parte della mia vita, in un qualche modo. Con la sua ignoranza, con i suoi modi di fare da figo, con il suo sorriso di sbieco acchiappa pollastre aveva distrutto quasi tutte le mie convinzioni, una su tutte il fatto che non mi sarei mai e poi mai avvicinata ad un palestrato senza un minimo di encefalo. E invece ero lì nella macchina medievale di Robbeo che pensavo a lui per l'ennesima volta. Ma tanto era inutile, tanto non sarebbe mai più tornato, non dopo come lo avevo trattato.
Picchiettarono sul finestrino e mi ridestai dai miei pensieri. Sbattei più volte le palpebre e misi a fuoco la figura che c'era fuori dalla Panda e che richiamava la mia attenzione. Per un attimo sperai si trattasse di Ruben, ma gli occhi che vidi non erano verdi ma blu.
«Siamo arrivati Cel!» mi avvisò Ven, sorridendo.
Annuii con poca convinzione e scesi dalla macchina, sotto lo sguardo indagatore della mia migliore amica. E quando mi fissava così sapevo bene che stesse cercando di capire che cosa non andasse in me. Mi conosceva molto bene, forse anche più di mia madre e riusciva ad interpretare qualsiasi mia espressione facciale. Però non volevo parlarle di Ruben perché tanto lui era uscito dalla mia vita, per cui la superai ed aprii il portoncino, aspettando che Ven e Robbeo salissero. Rimasi in silenzio finché non entrammo in casa e, non appena mi chiusi la porta alle spalle, mi precipitai in cucina, lontana da occhi indiscreti.
«Starai morendo di fame» esclamai per farmi sentire da Ven.
«Sì, abbastanza!» rispose al suo posto Robbeo.
«Parlavo con Ven» gli spiegai «Ma preparerò qualcosa per tutti».
Cominciai a trafficare con pentole e tegami, afferrando dal frigo una grande quantità di ingredienti che non sapevo nemmeno come adoperare. Come cuoca non ero un granché. Le mie conoscenze gastronomiche si fermavano all'uovo al tegamino e agli spaghetti aglio e olio. Ma, ogni tanto, quando non avevo nulla da fare, mi mettevo dietro i fornelli con la speranza di produrre qualcosa di mangiabile.
Avevo un po' di pasta sfoglia già pronta, del formaggio e del prosciutto tagliato a dadini, per cui optai per una torta salata. Quando ero sul punto di preparare l'impasto per il ripieno, Ven bussò alla porta aperta per attirare la mia attenzione e, non appena i suoi occhi incontrarono i miei, entrò in cucina. Si appoggiò davanti al lavabo e mi squadrò, esaminando a fondo il mio sguardo.
«Sei molto strana, lo sai Cel?» domandò retorica.
«Dici?» feci la finta tonta «A me non sembra»
«Boh» scrollò le spalle «È proprio una sensazione. Sembra quasi che tu sia un'altra» mi guardò furbetta «E secondo me centra un ragazzo».
Aggrottai le sopracciglia e trattenni a stento un sorriso nervoso. Scossi la testa con vigore e rimestai nella ciotola gli ingredienti con un certa tensione.
«Mpf» farfugliai «Ma che dici?»
«Oh, oh» mormorò Ven portandosi una mano davanti alla bocca e sorridendo con gli occhi. Sgranai i miei e mi voltai di scatto per non mostrarmi paonazza alla mia migliore amica. Possibile che mi avesse letto nel pensiero? Ogni tanto avevo creduto che fosse dotata di tale potere, ma se avesse azzeccato anche che Ruben mi torturava con la sua immagine e con tutti i ricordi legati a lui, avrei avuto la conferma ai miei sospetti.
«Un certo Jean-Philippe, non è così?»
Fu un attimo e l'aria che fino a quel momento scarseggiava aveva ripreso ad inondarmi i polmoni. Fortunatamente Ven non aveva nessun potere paranormale. Mi voltai di nuovo verso di lei e le sorrisi, stendendo la pasta sfoglia nella teglia rotonda. Le avevo parlato tanto di J e lo avevo fatto, a volte, con troppa enfasi. Ma lui era uno dei pochi ragazzi che avevo conosciuto in grado di ragionare, che riusciva a fare discorsi di senso compiuto senza metterci in mezzo le parole sesso e Iolanda. E poi era oggettivamente bello, il che non guastava, soprattutto se in quel corpo da modello c'era anche un'attività encefalica invidiabile. L'unico problema era che per J non sentivo più un bel niente. Era simpatico e mi piaceva ancora parlare con lui ma non suscitava in me le stesse sensazioni che sentivo prima di conoscere Ruben.
«Te l'ho detto Ven. I ragazzi, per il momento, non mi interessano»
«Celeste» sospirò la mia amica «Sai bene che non mi puoi nascondere nulla. Quando mi parlavi di J eri così emozionata! Non c'è nulla di male nel fatto che ti piace un ragazzo»
«Lo so» sbuffai.
«Da quanto tempo è che non hai un ragazzo?»
«Non lo so, non ho tenuto il conto» borbottai infastidita. Era vero, non sapevo da quanti mesi - o addirittura anni - non avevo un fidanzato, non avevo nemmeno perso tempo a tenere il conto anche perché i miei unici interessi erano l'università e il mio romanzo. Ma, da qualche giorno a quella parte, non ne ero poi così tanto sicura. Sentivo uno strano bisogno, uno strano vuoto dentro di me che avrei voluto colmare in qualche modo.
«E tu, da quanto non hai un ragazzo?» le rigirai la domanda, sorridendo sorniona.
«All'incirca… su per giù…» cominciò vaga fingendo di contare i mesi sulle punte delle dita «Un sacco di tempo» ridacchiò.
«Siamo messe bene» commentai infornando la torta salata.
«Non dobbiamo abbatterci. Sono sicura che entro la fine di quest'anno troveremo un ragazzo» disse con sicurezza stringendomi una spalla «Tu il fantomatico J, io non saprei»
«Magari Robbeo» la provocai sghignazzando.
«Nemmeno se fosse l'ultimo uomo sulla faccia della terra» borbottò «Allora, vuoi dirmi che è successo con J? Avete litigato, discusso, hai scoperto che ha la ragazza?»
«Con J va tutto a gonfie vele» risposi spicciola.
«E quindi? A cosa devo questo musino triste?» mi domandò prendendomi il mento tra l'indice e il pollice.
«Perché non vai a farti una doccia? Tra poco è pronto» ignorai volutamente la sua domanda ed uscii dalla cucina lasciandola davanti al lavabo ancora perplessa.
«Ok, vado a farmi una doccia. Ma tanto scoprirò che cosa mi nascondi e lo sai» mi passò accanto e mi puntò un dito contro, come se quella fosse stata una specie di avvisaglia.
La guardai con sufficienza ed andai nella mia stanza a sistemare il letto, cambiando le lenzuola e mettendone di pulite dato che Ven avrebbe dormito insieme a me. Un po' come era successo con Ruben. Tirai le lenzuola con foga come se quel gesto avrebbe scacciato il pensiero del troglodita. Non cambiò nulla, ovviamente. Lui era sempre lì che bussava nei miei ricordi e reclamava attenzioni. Ma non potevo continuare a pensarlo e a star male per lui. Dovevo ritrovare la mia acidità, ributtarmi a capofitto nello studio e nel lavoro.
Sistemai il letto e, mentre appoggiavo i cuscini al loro posto, il mio cellulare cominciò a squillare. Ebbi un tuffo al cuore, pensando che fosse Ruben a chiamarmi. Lo afferrai al volo dalla colonnetta rischiando di farlo anche cadere rovinosamente e, senza guardare il numero su display, risposi.
«Pronto?»
«Hei, ciao Celeste!» e riconobbi immediatamente la voce bonaria di Bombolo.
Sospirai rumorosamente. Avevo davvero sperato che fosse lui ed invece mi ero solo illusa.
«Ciao Ugo» risposi senza entusiasmo.
«Senti, volevo chiederti se hai impegni oggi pomeriggio»
«Mmmm, direi di sì. È venuta una mia amica da Tivoli e volevo passare un po' di tempo con lei» afferrai le lenzuola sporche e le accantonai momentaneamente sulla sedia davanti alla scrivania.
«Oh, perfetto! Allora ti aspetto alle tre in gelateria»
«Sei sordo o cosa? Ho detto che non posso!» sbottai infastidita.
«Ok!» sospirò «Alle tre inizia il tuo turno».
E detto questo, chiuse la comunicazione. Quell'uomo era scemo. La troppa glicemia gli aveva mangiato tutti i neuroni e il cervello. Riappoggiai il telefonino sulla colonnetta e mi passai una mano tra i capelli. Non avevo voglia di fare il turno in gelateria anche perché avrei voluto passare il pomeriggio con Ven.
«Cel, che succede?» domandò la mia amica entrando nella mia stanza con i capelli ancora gocciolanti.
«Bombolo mi ha dato il turno a pomeriggio» sbuffai contrariata «E non possiamo nemmeno stare insieme»
«Chi lo ha detto?» sghignazzò lei «Vengo con te, non c'è nessun problema. L'importante è che mi offri un gelato»
«Un solo gusto, però» puntualizzai.
Il pranzo passò velocemente e non fu nemmeno così tanto male. Certo non era un piatto da gourmet, ma era mangiabile. Robbeo e Ven si erano totalmente ignorati per tutta la durata della mangiata. Per fortuna, aggiungerei, visto che io dovevo mangiare necessariamente in tranquillità.
Sparecchiai e feci i piatti – io, Cenerentola, visto che Romeo non alzava nemmeno un dito per tenere in ordine quella casa – e mi preparai per andare a lavorare. Una felpa sgualcita, un paio di pantaloni larghi e le scarpe da tennis. Non avevo nemmeno voglia di apparire carina davanti ai clienti.
«Robbeo, ci accompagni in gelateria?» gli domandai, distogliendolo dai cartoni animati di Italia 1.
«Che cosa sono? Il vostro autista?»
«Mi sembra il minimo che tu possa fare» ribattei acida «E non solo per farti perdonare da Ven, ma anche perché questa casa la manda avanti la sottoscritta. L'unica cosa che fai tu è stare tutto il giorno spaparanzato sul divano!».
Robbeo sbuffò e sembrava non avere la minima intenzione di alzarsi dal suo nido comodo. Gli afferrai un braccio e lo strattonai con violenza, facendolo cadere con il sedere per terra.
«Alza le chiappe e portaci in gelateria!»
«Perché non lo chiedi al tuo ragazzo?» domandò stizzito «Ruben» aggiunse con un certo disprezzo.
«Che cosa c'entra adesso Ruben?» ribattei un'ingiustificata rabbia.
Ma quando sentivo il suo nome, non potevo non fare a meno di indispettirmi. E non perché lo odiassi, ma perché ero certa di non essere in grado di dimenticarlo. All'improvviso sentii Ven schioccare la lingua e mi voltai per guardarla. Il suo sguardo blu era ancora più furbo di quanto non lo fosse in cucina mentre cercava di scucirmi informazioni su J. Sicuramente aveva capito qualcosa sia per il tono usato sia perché mi ero surriscaldata e sentivo le guance andarmi a fuoco. Per cui dedussi di essere anche arrossita. Deglutii ma cercai di rimanere tranquilla. Poi tirai su Robbeo per un braccio e lo trascinai fuori di casa. Fortunatamente era rimasto vestito, già pronto per portarmi in gelateria. Ven ci seguì a ruota e le affidai il compito di chiudere la porta di casa.
Per tutto il viaggio verso la Dolce Idea tentai di non incontrare lo sguardo della mia migliore amica e rivolsi la mia attenzione solo a Romeo, che avrei voluto strozzare perché non era riuscito a tenere la bocca cucita. Ma tanto sapevo che a Ven non si poteva nascondere nulla. Era sempre stata troppo scaltra, più di Miss Marple e il Detective Conan e non le si poteva nascondere nulla. Non potevo sfuggire al suo interrogatorio.
Robbeo fermò il bolide davanti alla Dolce Idea, con il motore ancora acceso.
«Voi andate pure. Io cerco parcheggio e mi infilo in qualche bar»
«Non vuoi rimanere con noi?» gli domandai, più che altro per non rimanere sola con Conan Edogawa versione femminile e con qualche anno in più.
«Con Venerdì?» e la indicò quasi disgustato «Preferirei vedermi Beautiful insieme ad una puzzola e ad un esercito di cimici»
«Così coprirebbero il tuo tanfo» rispose per le rime Ven, sorridendo soddisfatta.
Robbeo non rispose, la guardò solo come se volesse ucciderla. Scendemmo dall'auto ed entrammo nella gelateria, trovando Bombolo già davanti al bancone con il giubbotto in mano e una certa fretta per andare chissà dove.
«Oh, finalmente sei arrivata!» esclamò appena mi vide «Solite raccomandazioni» aggiunse velocemente.
Quali raccomandazioni? Non me le aveva mai esposte. Ma tanto era inutili farsi domande su Bombolo perché erano tutte senza risposta. Uscì di corsa dal locale salutandomi con un gesto della mano ed io andai sul retro per indossare il grembiule della gelateria e farmi una coda di cavallo. Quando tornai dietro al bancone, Ven era appoggiata con gli avambracci su uno dei tavoli e mi guardava sorniona. Cercai di non guardarla troppo a lungo e rifornii il bancone con coni e coppette.
«Beh, non hai nulla da dirmi?» mi domandò.
«Che gusto vuoi?» svicolai l'argomento Ruben. Forse la sua golosità avrebbe sovrastato la sua curiosità da detective.
«Non mi riferivo al gelato. Per quello c'è tempo» rispose sorridendo «Ma di questo fantomatico Ruben. Chi è?»
«Non, non saprei» fingere, dovevo solo fingere di non conoscerlo.
«Senti Celeste, non stai parlando con Robbeo, né con una stupida qualunque. Sputa il rospo!»
Sospirai rumorosamente e appoggiai i palmi delle mani sul bancone. Rimuginai, forse un po' troppo, ma alla fine lei era la mia migliore amica.
«È un cafone che ho conosciuto per caso» tagliai corto.
«E poi?» si informò, curiosa di sapere tutta la storia mia e di Ruben.
«E poi niente» grugnii e mi sedetti sulla sedia che Bombolo aveva posizionato di fianco all'aggeggio delle granite.
«Ma siete usciti?»
«Ogni tanto. Ma non erano appuntamenti ufficiali. Insomma, abbiamo fatto un giro in Vespa del 1556 e siamo stati ad una festa. Nulla di che» scrollai le spalle con noncuranza.
Ma ripensando a quel party e a tutto quello che era successo tra di noi, dalle cose poco caste, al nostro litigio mi incupii. Era strano che mi succedesse di ripensare così tanto ad una persona, ma era solo il senso di colpa. Già... sembrava impossibile anche a me, ma mi sentivo in colpa nei suoi confronti. In fondo lui non aveva fatto nulla, mi aveva solo riaccompagnata a casa e si era addormentato nel mio letto. Ed io lo avevo sbranato solo perché non volevo ammettere a me stessa che quello che era successo non era solo un semplice sogno.
Le mani morbide e diafane di Ven si posarono sulle mie ginocchia ed io mi ritrovai ad alzare lo sguardo per incontrare il suo. Non mi ero accorta che lei fosse venuto dietro la bancone e sicuramente lo aveva capito dai miei occhi spaesati.
«Durante uno di questi appuntamenti non ufficiali, però, deve essere successo qualcosa, vero?» domandò con tono materno.
Feci spallucce ed annuii.
«Abbiamo litigato. Lui mi aveva semplicemente riaccompagnata a casa dopo il party perché avevo bevuto un po' troppo e si addormentato accanto a me. Ed io lo cacciato di casa in malo modo»
«E ti senti in colpa, immagino»
Presi un respiro profondo ed annuii mestamente.
«Insomma, lui non aveva fatto nulla e l'ho aggredito senza un motivo»
«Quello che fai un po' con tutti» ridacchiò Ven e la guardai torva «Ti conosco da così tanto tempo che so che per te è difficile chiedere scusa perché difendi le tue posizioni con le unghie e con i denti. E perché sei una gran testarda» fece una pausa e sghignazzammo entrambe «Ma arriva un momento in cui bisogna ammettere i propri sbagli e dire quella parolina magica. Soprattutto quando si tiene ad una persona».
Venera aveva ragione, anche se per me era sempre stato difficile chiedere scusa. In tutta la mia vita avevo usato quella parola solo quando ero piccola e combinavo, raramente, qualche marachella. Ma con l'adolescenza, quando l'acido aveva cominciato a scorrere nelle mie vene al posto del sangue, l'avevo cancellata dal mio vocabolario. E forse era arrivato il momento di rispolverare quella parola e ammettere i miei sbagli e non solo. Ammettere anche quello che c'era stato tra noi due, anche perché lui era rimasto molto male dal fatto che non mi ricordassi nulla.
Celeste tu non devi chiedere scusa a nessuno. Credi che lui adesso stia pensando a te, che non sia con qualche sgualdrina?
«Non so...» bofonchiai, dopo aver dato retta al mio subconscio.
«Non voglio obbligarti, per carità. Volevo solo farti capire che non vale la pena perdere qualcuno solo perché non si riesce a chiedere scusa» spiegò accarezzandomi la mano «Ma, ovviamente, non devi farlo se non ne sei convinta. Deve uscirti da qui» e mi appoggiò il palmo della mano sul cuore.
E proprio da lì sentivo che quello “Scusa” voleva uscire. Peccato solo che non avevo la benché minima idea di dove trovarlo. Potevo provare al negozio di fiori di sua nonna in cui lavorava, ma non mi ricordavo nemmeno dove stesse. Avrei potuto chiamarlo, ma le cose era meglio dirle in faccia. Forse il destino voleva che noi non stessimo assieme, per cui scrollai le spalle arresa.
«Anche se volessi non saprei dove trovarlo» dissi in un soffio.
«Oh» si stupì Ven «Non sai dove abita, che locali frequenta...?»
«Nulla di nulla!» sbottai «Per cui al diavolo Ruben. Che se ne stia dove sta».
Mi alzai di scatto dalla sedia e andai a servire il primo cliente del pomeriggio, un bambino che sembrava Augustus Gloop e che aveva già troppa ciccia senza mangiare un cono gelato di tre gusti ipercalorici. Lo salutai con un sorriso falso e tornai a sedermi.
«Io so dove puoi trovarlo» lo voce di Robbeo ci sorprese e ce lo trovammo appoggiato all stipite con le braccia conserte in stile 007 «Ruben, intendo»
«Dove?» mi precedette Ven.
«Beh, lo potrete trovare a...» lasciò la frase in sospeso, per creare suspense.
«Parla, idiota» lo apostrofai.
«Stasera cenerà al Caminetto» rispose offeso per l'epiteto che gli avevo affibbiato.
Non mi soffermai sul fatto che cenasse in un ristorante di classe, pur essendo un fiorai. Mi alzai solamente e mi avvicinai a Robbeo, guardandolo dubbiosa.
«Tu come lo sai?» gli domandai, assottigliando lo sguardo.
«Me lo ha detto Leonardo» rispose intimidito.
«Che stiamo aspettando, allora, andiamo!» esclamò trionfale Ven, prendendomi per un braccio.
Mi trascinò fuori dalla gelateria e mi scarrozzò per qualche viuzza, fino a quando non riuscii a liberarmi della sua presa.
«Ven!» la richiamai mentre lei camminava a passo spedito senza nemmeno sapere dove stesse andando «Non credo che ceni alle quattro del pomeriggio».
La mia migliore amica si voltò e guardò il suo Swatch azzurro. Sorrise imbarazzata e si grattò la nuca, tornando sui suoi passi.
«Aspetteremo, allora. E stasera andremo da questo Ruben e chiarirete la situazione», sembrava quasi un'imposizione. «E tu ci farai da autista», si rivolse a Romeo che era rimasto pietrificato accanto allo stipite.
«Te pareva» bofonchiò il mio miglior amico.
«Intanto mangiamo il gelato. Per festeggiare!» trillò Ven che sembrava più felice di Robbeo quando la Roma vinceva una partita.
Preparai tre coppette – da un gusto solo, ovviamente – e le porsi ai miei due amici. Sbocconcellai un po' di gelato allo yogurt, anche se avevo un peso sullo stomaco che mi opprimeva. E quel peso era Ruben e la paura che lui non volesse perdonarmi.



Girai le chiavi nella toppa e rientrai a casa il mattino dopo, trovandomi davanti agli occhi un cupo e insonnolito Ruben, con tanto di tazza di the tra le mani.
Era senza occhiali, perciò impiegò un po’ di tempo – ed una notevole quantità di espressioni imbarazzanti – per decifrare chi fossi.
«S-Sei s-sei tu L-L-Le-Leonardo?» mi chiese poi, sperando di non aver fatto una gaffe.
Cercai di soffocare una risata alla vista del suo pigiama a tutina, con la patta sul didietro e i bottoncini a forma di elefante cuciti sul davanti. Mi avvicinai, gettando il borsone della squadra sul divano, e gli poggiai entrambe le mani sulle spalle. «Tranquillo tigre, la gallina dalle uova d’oro è tornata al pollaio» sghignazzai.
Ruben si concesse a mala pena un sorriso stiracchiato, quando si allontanò preventivo dalla mia stretta e inforcò gli occhiali che aveva abbandonato sul tavolo della cucina.
«D-Do-Dove s-se-sei s-stato? I-Ie-Ieri s-se-sera nes-nessuno sape-sapeva d-d-dove f-fo-fos-fossi!» mi accusò, stavolta vestendo più i panni del mio migliore amico, piuttosto che del mio manager. «H-Ho p-pro-provato a c-chia-chiamarti mi-milioni di vo-volte! P-Per-Perché n-no-non mi hai ri-rispo-risposto?!».
Non avevo scusanti in quell’occasione, l’avevo combinata davvero grossa. La stizza per il dopopartita, per l’espulsione e per quello che era successo la mattina stessa con Celeste mi avevano privato di ogni raziocinio e me l’ero presa con il mondo intero, invece che con me stesso.
Ruben si sedette sullo sgabello e posò la tazza della Magica sul bancone di marmo. Si passò una mano tra i capelli e sospirò. «S-Sono il t-t-tuo manager, Leo, ma p-pri-prima d-di t-tu-tutto s-sono il t-tuo m-mi-migliore amico».
«Hai ragione» risposi solamente, visto che non avevo scusanti. «Mi sono comportato come uno stronzo e non avrei dovuto reagire così anche con te».
Il mio migliore amico sembrò capire il mio stato d’animo, infatti fece un mezzo sorriso che mi fece capire il suo momentaneo perdono. «D-Do-Dove hai p-pas-passato la n-no-notte?».
Cominciai a spogliarmi, desiderando soltanto una lunga doccia rilassante, perciò mi incamminai verso il bagno, seguito da Ruben che non demordeva.
«Sono stato da Annunziata» tagliai corto, sperando non approfondisse.
Ruben prese un altro sorso da quel disgustoso the alle erbe maleodorante e si appoggiò allo stipite della porta del bagno. «H-Hai d-dor-dormito da t-tua n-no-nonna» constatò.
«Sì, genio, dove pensavi avrei passato la notte?» insinuai sarcastico, togliendomi la maglietta e i pantaloni della tuta, mentre l’acqua calda cominciava a scorrere nel box doccia.
Ruben fece spallucce e si sistemò meglio gli occhiali sul naso. «N-Non s-saprei» ipotizzò. «P-Pe-Per ese-esempio d-do-dove l’hai p-pa-passata l’ulti-utlima v-vo-volta...».
Ingoiai la bile in un nanosecondo, sgranando gli occhi e riabbassandoli subito dopo alla velocità della luce. Il mio migliore amico non disse nulla, rimase immobile ed immutabile, come una statua, mentre mi lasciava cuocere nel mio stesso brodo.
«Non devi preoccuparti» gli dissi infine, togliendomi i boxer ed entrando nella doccia. «Credo proprio che Celeste non voglia più rivedermi dopo quello che è successo»
Chiusi il box doccia e lasciai che l’acqua scivolasse sul mio corpo, udendo i passi di Ruben allontanarsi dal bagno. Prima me ne sarei reso conto e prima avrei smesso di comportarmi come un imbecille.
Celeste mi aveva cacciato da casa sua per ben due volte, entrambe senza apparente motivo. Era una pazza isterica, ecco cos’era quella bionda. Alla festa di Annalisa mi era parsa più che coinvolta, avevo addirittura notato una punta di gelosia nel suo comportamento, ma evidentemente mi ero sbagliato. Quello che era successo era soltanto il frutto di una schizofrenica.
«St-sta-stasera h-hai la c-ce-cena c-con l-la sq-squadra, r-ri-ricordi?» mi urlò Ruben, per sovrastare il picchiettare dell’acqua sul piatto della doccia.
Rabbrividii a quel pensiero. «Ci devo andare per forza?» borbottai.
Ruben entrò per lavarsi i denti e mentre si spazzolava mi lanciava occhiate stranite. Era preoccupato, ma non l’avevo mai visto così teso.
«D-Dopo q-que-quello c-che hai f-fa-fatto, è un m-mi-miracolo che t-ti a-ab-abbiano d-da-dato solo t-t-tre g-gio-giornate» constatò, facendomi sentire ancora più stupido.
La mia carriera era l’unica cosa che mi era rimasta e in una frazione di secondo avevo rischiato di mandare tutto a farsi benedire. Ero stato un completo imbecille e ciò non si sarebbe dovuto più ripetere.
«Hai parlato con qualcuno?» gli chiesi, insaponandomi i capelli.
Ruben sulle prime non rispose, poi si pulì la bocca e si passò una mano tra i capelli con nervosismo. «M-Ma-Marco è f-fu-furioso, i-il s-su-suo ag-agente ha mi-mina-minacciato di f-fa-fargli las-lasciare la sq-squa-squadra se co-continui a g-giocare a-anche t-tu».
Perfetto, stava ricattando la Società.
«’Sti cazzi» me ne uscii, spalancando la porta della doccia, ancora nudo e gocciolante. «Che se ne vada a fare in culo da qualche altra squadra pulisci-cessi» sbottai.
Il mio manager sgranò gli occhi e mi fissò con la bocca semiaperta. «C-Cre-Credo, invece, c-che tu gli de-deb-debba de-delle s-scu-scuse» se ne uscì, quasi sussurrando quella proposta. «È p-per i-il b-be-bene della sq-squadra».
Cominciai a ridere, stupito di quella richiesta pressoché idiota. «Io? Dovrei chiedere scusa? E per cosa?» sghignazzai, afferrando l’asciugamano e legandolo in vita. «Quel bastardo ha fatto delle stupide insinuazioni e per me può continuare a ficcarsele su per il culo!» ringhiai offeso.
Sentii Ruben sospirare, poi mi diressi nella mia stanza spalancando un cassetto e afferrando con violenza un paio di boxer. Mi sentivo frustrato, arrabbiato, nervoso ed erano tutte sensazioni che riservavo solamente per l’esito storto di una partita, non per un semplice problema di vita familiare.
«L-Leo» continuò, calmo. «N-Nulla d-di qu-quello che p-può aver d-de-detto ti g-giustificherà, l-l-lo s-sa-sai b-bene...».
Un moto di rabbia si impossessò di me e mi voltai di scatto, scagliando un pugno contro il muro. «HA DATO DELLA PUTTANA ALLA MIA...».
Sgranai gli occhi e rimasi con la bocca aperta, ricacciando indietro il pensiero che voleva liberarsi spontaneamente dalla mia mente. Indietreggiai confuso, sedendomi sul letto e passandomi l’asciugamano sui capelli gocciolanti.
Ne approfittai per mettermi la testa tra le mani, puntellando i gomiti sulle ginocchia, e rimasi a fissare il pavimento con gli occhi sgranati. Che diavolo mi stava succedendo?
Ruben mi si avvicinò con un po’ di timore, poi s’inginocchiò e mi costrinse a guardarlo negli occhi.
«H-Ha of-offeso Ce-Cele-Celeste?» mi chiese, con un semi-sorrisetto furbo.
Mi alzai di scatto, conscio che ormai pure le pietre avevano capito che la biondina non mi era affatto indifferente, e cominciai a camminare per la stanza stizzito.
«No» mentii. «Ha fatto delle insinuazioni su mia madre, ed io non c’ho visto più».
Sapevo di non poter continuare a sparare cazzate a lungo, che prima o poi mi avrebbero scoperto oppure sarei scoppiato, ma l’importante era far passare un po’ di tempo, qualche giorno o qualche mese necessario a farmi dimenticare di quella ragazza.
Ruben annuì e fece per uscire dalla stanza. «S-Se c-ci st-stai c-co-così m-male» sospirò, indossando le vesti del mio migliore amico. «D-Do-Dovresti tele-telefonarle».
Mi voltai di scatto ma Ruben era già sparito nei corridoi della casa e mi ritrovai a fissare un muro bianco.
Telefonarle... come se avessi ancora il suo numero...
La sera scese veloce, più di quanto mi sarei aspettato. Avevo finito col passare la giornata spaparanzato sul letto, ingurgitando una quantità industriale di patatine e vedendomi vecchie partite registrate. Ruben era passato due o tre volte a dirmi di darmi una regolata, di smettere di stare davanti alla televisione, ma perfino la luce che filtrava dalle tapparelle cominciava a darmi fastidio e non riuscivo davvero ad alzarmi.
L’essere rifiutati faceva male, anzi, malissimo e avrei volentieri barattato una doppia frattura alla tibia piuttosto che ricaderci ancora. Mi sentivo la testa pesante, uno strano senso di oppressione al petto, e avrei voluto strafogarmi di Puff al formaggio fino a che non avrei passato il resto della giornata a rivomitarle nel bagno.
Il succo della questione era che amare faceva schifo, davvero schifo.
«T-Tra p-po-poco d-do-dobbiamo a-a-an-andare» soffiò Ruben, facendo capolino all’interno della mia stanza e storcendo il naso quando mi vide sdraiato sul letto, stile uomo vitruviano, sommerso dalla testa ai piedi di patatine al formaggio.
«Non mi ronfere!» bofonchiai, con la bocca che straripava di cibo. «Voglio foltanfo mofife».
Il mio migliore amico stranamente sorrise, poi entrò nella mia stanza, chiuse il televisore e cominciò a tirare su la serranda, inondando la mia camera da letto della luce tenue del crepuscolo.
«Dai, Ruben!» gridai coprendomi gli occhi dalla mancata penombra in cui mi ero crogiolato per tutto il pomeriggio.
«È o-ora c-che t-tu ri-ri-ricominci a-a-ad ess-essere Leo-Leonardo S-S-Sogno» mi suggerì, tendendomi una mano. «G-Gua-Guarda i-il l-la-lato p-po-positivo, no-non d-do-dovrai p-più m-me-mentire».
Già, forse Ruben stavolta aveva fatto centro e avvertii chiaramente il mio Ego cominciare a farsi spazio, spingendo da parte l’inedia e la depressione. Una nota positiva in tutta quella faccenda c’era: Leonardo Sogno avrebbe brillato di nuovo in tutta la sua lucentezza.
Niente più menzogne, niente più scuse da inventare con il Mister e soprattutto nessuna presa in giro da parte dei compagni di squadra, perché Leonardo era tornato su piazza più libero che mai.
Sputai il resto delle patatine che avevo ancora in bocca e mi alzai con uno scatto, posando un piede sulla testiera del letto e puntellando i pugni sui fianchi – stile eroe americano. Ruben mi fissò sbalordito, e anche un po’ preoccupato, ma non disse nulla. Fu allora che puntai un dito verso il soffitto, indossando niente meno che un semplice paio di boxer bianchi, e gridai a gran voce.
«Signore di tutte le età!» e imitai la voce dell’arrotino. «Venite, avvicinatevi, perché Leonardo Sogno è tornato sulla piazza e soddisferà qualsiasi donna glielo chieda!».
«N-No-Non p-pe-pensi d-di es-essere un t-tantino e-esa-esagerato?» mi chiese Ruben, sperando la smettessi di comportarmi da idiota.
Mi voltai e gli sorrisi di sbieco, con un guizzo di malizia negli occhi che avevo ritrovato soltanto da poco.
«Tira fuori il completo di Armani, Wagon!» trillai eccitato.
«È W-Wa-Watson» miagolò lui, intimorito dalla mia ritrovata ambizione.
Lo fissai con sufficienza e alzai un sopracciglio. «È uguale» bofonchiai, rimettendomi nella stessa posizione vincente, con l’indice verso il cielo. «Stasera, dopo la cena con la squadra, la prima ragazza che mi chieda di uscire la porterò a cena fuori! Si ricomincia, bello!».
«S-Se l-lo-lo d-di-dici tu...» e si adoperò per frugare tra le mie cose e tirare fuori un bellissimo completo blu scuro.
Mi fiondai in bagno a lavarmi sommariamente, pulendomi dalle briciole di patatine che avevo fin dentro le mutande, poi passai un’ora davanti allo specchio facendo gli esercizi facciali e sperimentando quale dei miei 200 sorrisi avrebbe conquistato di più.
La parola d’ordine di quella serata, sarebbe stata “Non pensare a Celeste”. Mi sarei fatto scivolare la storia addosso, senza più pensarci, perché in fondo sapevo che non mi avrebbe chiamato, era troppo orgogliosa per farlo.
Stavolta la colpa non era mia, era stata lei ad accusarmi senza motivo e a non ricordare nulla di quello che era successo, perciò la mia coscienza – per l’unica volta in tutta la mia vita – era al sicuro.
Un po’ di dopobarba era l’ideale, così come del gel per domare i miei ricci appena accennati.
«Perfetto» mi dissi, rivolgendo lo sguardo all’immagine riflessa nello specchio. «Stasera farai faville, amico mio».
Mi fiondai di corsa nella mia stanza e cominciai a vestirmi, fissando di tanto in tanto il mio I-phone che riposava sul comodino. Passai un dito distrattamente sullo schermo e quello s’illuminò, ma non c’era ombra né di messaggi, né di qualche chiamata persa.
Immediatamente mi diedi dell’idiota e lanciai il telefono sul letto, sommergendolo di patatine al formaggio, mentre cominciai ad allacciarmi i bottoni della camicia celeste allo specchio della mia stanza.
Alzai il colletto e vi passai attorno una cravatta blu, con piccoli motivi azzurri disegnati sopra, e la annodai come mi aveva insegnato mio padre. Passai poi ai polsini, ed infine indossai i pantaloni del completo, rifinendoli con una cinta blu scuro.
La giacca fu l’ultimo tocco di classe e infine mi diedi un’ultima occhiata allo specchio, sistemando un ricciolo ribelle che era sfuggito al gel.
Eccoti qua, Leonardo Sogno, il miglior calciatore in circolazione, astro nascente della A.S. Roma e prossimo in lizza per il pallone d’oro. Come ti senti?
Una vera merda, quello avrei dovuto rispondere.
«Benissimo» ridacchiai, poi sfoderai il mio ormai brevettato sorriso sghembo e mi fiondai fuori dalla stanza afferrando le chiavi dell’Audi TT.
Ruben mi aspettava seduto sullo schienale del divano, mentre ricontrollava alcuni documenti. Appena lo vidi, per poco non ebbi un colpo al cuore, ma non volli interferire. Il completo da lui scelto era di un color prugna acida, completamente di velluto, e il papillon non era certo il miglior accessorio che un uomo potesse scegliere di indossare nel ventesimo secolo. Si era tolto gli occhiali – finalmente – ma non avrei mai immaginato che dietro quelle lenti così spesse da sembrare fondi di bottiglia, ci fossero degli occhi così piccoli che era difficile distinguere le sue iridi da semplici efelidi.
Inoltre, come se la pagliacciata non bastasse, si era pettinato i capelli all’indietro con un quantitativo di gel esorbitante, tant’è che sembrava che una vacca gli avesse leccato la testa.
«C-C-Come s-st-sto?» mi chiese, alzandosi in piedi e mettendo il petto in fuori.
Avrei voluto rispondergli che sembrava mia nonna Annunziata quando si vestiva per partecipare all’annuale Gay-pride, ma sarei stato irrimediabilmente scortese e tanto, visto che ormai avevo la licenza per mentire, potevo inventarmi qualsiasi cosa.
«Fantastico» gli dissi, alzando entrambi i pollici per confermarglielo.
Ruben sorrise imbarazzato, poi afferrò le chiavi di casa e uscì dal portone, aspettando che lo seguissi. In fondo era il mio migliore amico, e sapevo che esistevano bugie a fin di bene, quindi questa volta non mi si sarebbero ritorte contro.
«Andiamo?» mi chiese ed io mi chiusi la porta alle spalle.
«E facciamola ‘sta cosa» bofonchiai, immaginando subito la faccia delusa dei miei compagni e del Mister.
Scendemmo in garage e montammo sull’Audi, poi feci girare le chiavi nel cruscotto e accesi il motore. Il ristorante si trovava a Via dei colli Portuensi, si chiamava il Caminetto, perciò imboccai la circonvallazione Gianicolense e svoltai subito a destra.
Il traffico serale romano era snervante, ma dalla mia non avevo alcuna fretta di sentirmi sputare addosso quanto avessi sbagliato a farmi espellere. C’era costato la partita e anche le tre successive giornate di squalifica.
Mi sentivo un emerito imbecille ad aver sacrificato tutto per una ragazza e in cuor mio continuavo a ripetermi che non sarebbe mai più accaduto.
«Comincia a cercare parcheggio» mi suggerì Ruben, vedendo alcuni spiazzi.
Decisi di fare due o tre giri prima di decidere in quale posto sarebbe stato più appropriato parcheggiare il mio gioiellino, ma quando vidi la Corvette di Borriello rabbrividii. Era arrivato il giorno del giudizio, era inutile temporeggiare.
Parcheggiai il più lontano possibile, così da allungare la distanza tra me e la gogna, quando Ruben cominciò ad accelerare il passo. Cosa aveva da sbrigarsi? Se fossi entrato nel ristorante ero sicuro che gli sguardi degli altri mi avrebbero linciato, ma almeno eravamo in un luogo pubblico e magari non mi avrebbero riempito di insulti.
«F-Fo-Forza, s-sia-siamo i-in ri-rita-ritardo» borbottò Ruben, mentre camminava a passo veloce sembrando una grossa melanzana scappata fuori da un orto.
Soffocai una risatina maligna e accelerai anch’io, visto che non c’era altro modo di evitare quella tortura. Entrammo nel ristorante e fummo subito accolti dal maître che ci condusse in una saletta privata, dove era seduto il resto della squadra.
Non appena Ruben spuntò davanti agli altri, notai diverse risatine soffocate, ma il mio amico era troppo buono e ingenuo per notarle. In seguito, gli sghignazzi furono sostituiti da mormorii di dissenso, soprattutto quando i miei compagni di squadra si voltarono verso Marco, seduto in un angolo, con un occhio nero e il naso tumefatto.
Mi sentii profondamente in colpa per la cazzata che avevo fatto, ma in mia difesa potevo dire che Borriello si era comportato da vero stronzo. D’accordo, Celeste non era la mia ragazza o altro, ma si era approfittato di un mio momento di rabbia e debolezza per metterci il carico da undici e farmi incazzare di brutto.
Il Mister si alzò da capotavola e mi raggiunse, dandomi una pacca sulla spalla. «Sono contento che sei venuto» mi confessò, con un sorriso paterno.
«Non potevo mancare» risposi, sfoderando il solito sorriso da menefreghista.
Notai un posto a sedere e lo raggiunsi, scostando la seggiola e accomodandomi di fronte a Daniele. Gli altri compagni di squadra mi fissavano ancora in modo strano, ma ben presto la storia della mia espulsione passò in secondo piano, visto che la serata fu riempita da risa e scherzi da parte degli altri.
Nessuno parlò della partita, né del cazzotto che avevo ammollato a Marco, e neppure del motivo scatenante tutto questo. Ordinammo gli antipasti, le pizze, le birre e quant’altro, ma il Mister fece di tutto per lasciarci godere in pace la serata.
Lo vedevo a capotavola mentre scherzava con Ruben, il cui completo color melanzana spiccava tra gli altri vestiti di scuro.
«Ieri la mia ragazza mi ha obbligato ad andare a Parco Leonardo» sbuffò Daniele, dando un colpetto a Simone.
«Lascia perdere, quando mia moglie si mette in testa di comprare un mobile nuovo, mi tocca girare mezza Roma per accontentarla...» gli rispose, sghignazzando.
«Per non parlare di mia figlia, poi» insistette il biondo. «Più cresce e più vuole il padre, mi tartassa ogni momento».
In quell’istante la mia mano si chiuse a pugno sul tovagliolo che tenevo accanto al braccio e tentai di isolarmi da quei discorsi. Purtroppo le parole di mia nonna mi colpirono violente come uno Tsunami.
Una casa cui tornare, una famiglia.
Basta! Dovevo finirla di essere invidioso dei miei compagni di squadra! Ero Leonardo Sogno, dannazione, ero più forte e più in gamba di tutti loro messi insieme, prima o poi avrei giocato in un club inglese ed ero quasi certo che quest’anno avrei vinto il pallone d’oro. Non avevo nulla da invidiare a quei pezzenti, la mia vita era perfetta.
«Mi ha regalato questo» disse Daniele, tirando fuori un piccolo portachiavi stortignaccolo, evidentemente fatto a mano, con su scritto ‘Sei il mio eroe, papà’.
Sgranai gli occhi e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Dovevo respirare, prendere una boccata d’ossigeno, schiarire le idee prima che il mio cervello cominciasse a farmi brutti scherzi.
«Scusatemi» dissi, poi mi alzai e raggiunsi l’uscita in fretta, fiondandomi di fuori e respirando finalmente l’aria pungente di una sera d’Aprile.
Sicuramente avevo fatto la figura dell’idiota, oppure del pazzo, magari anche del drogato, ma non me ne fregava un cazzo. Ero stufo di tutti quei racconti strappalacrime sulla famiglia e quelle finte lamentele, quando si vedeva lontano un miglio che erano felici come bambini.
Mi appoggiai ad una ringhiera e strinsi i pugni, maledicendomi più volte per essere andato alla cena. Avevo soltanto pensato a proteggermi da un eventuale attacco degli altri per l’espulsione, ma non avevo minimamente pensato a discorsi semplici come quello che continuavano a farmi pensare a cosa avessi rinunciato per tutta la vita.
«Fa freddo, stasera» disse una voce, raggiungendomi.
Era Marco Borriello, lo vidi con la coda dell’occhio e non potei fare a meno di notare l’occhio nero e il naso violaceo. Il pugno gliel’avevo dato proprio forte e non ero tanto sicuro di poter rimanere solo in sua compagnia.
Se mi ammolla un pugno, me lo merito.
«Sì, ma almeno mi potrà schiarire le idee» commentai, poi si avvicinò e si sedette sulla ringhiera, fissandomi.
Era giunto il momento della verità, l’istante in cui Leonardo Sogno avrebbe dovuto mettere da parte l’orgoglio e chiedere scusa. In fondo Marco era lì solo per quello, ne ero sicuro.
«Senti, per quel pugno...» cominciai, in evidente imbarazzo. Le scuse non erano il mio forte, anche perché ero un tipo che preferiva litigare a morte con le persone piuttosto che sgonfiare il suo orgoglio e ammettere di aver sbagliato.
«Ti interrompo subito» mi disse lui, bloccandomi proprio quando la parola ‘scusa’ stava per uscire dalle mie labbra. Lo fissai sorpreso e piuttosto incuriosito, visto che Marco era un tipo come me. «È stata colpa mia, non avrei dovuto dirti quelle cose».
Per poco non mi caddero le orecchie dopo quella confessione. Non era possibile che Marco Borriello potesse abbassare la cresta in questo modo e chiedere scusa al sottoscritto, dopo che gli avevo ridotto la faccia ad una zampogna.
«La mia ragazza, dopo che sono tornato in questo stato, mi ha fatto ragionare e mi ha detto cosa avrei fatto se la situazione si fosse invertita. Beh, ti avrei riempito di pugni, amico!» sorrise, poi mi diede una pacca sulla spalla. «Ho mandato tutto a puttane e abbiamo perso la partita, non ho pensato al bene della squadra».
Visto che eravamo in vena di confessioni, tanto valeva ammettere anche la mia parte di colpa. «Scusami anche tu per quel pugno, ti ho rovinato quel bel visetto» sghignazzai.
Lui si sfiorò il naso gonfio, poi fece un mezzo sorriso. «Alla mia donna piace, ha detto che fa più macho».
Strinsi la mano a pugno e mi conficcai le unghie nella carne. Perché avrei dovuto desiderare l’unica cosa che non avrei mai potuto avere?
Perché sei un bambino viziato.
«C-Com’è?» chiesi, all’apice dell’imbarazzo.
Borriello sgranò gli occhi e mi fissò confuso. «Com’è, cosa?».
Deglutii la bile e mi preparai alla peggior figura di merda della mia intera esistenza. Tanto ero già in ballo, tanto valeva ballare. «Avere una ragazza, è bello?».
Marco tentò di soffocare una risata, ma quando vide il mio sguardo puntare per terra, tornò incredibilmente serio. «Non mi stai prendendo in giro? Tu... tu non hai mai avuto una ragazza?».
Scossi la testa colmo di vergogna, poi mi pentii subito di quella pagliacciata. «Lascia perdere» bofonchiai, stufo che mi prendesse per il culo, ma Borriello mi afferrò per le spalle.
«Aspetta, nemmeno quando eri al liceo?» s’informò meglio.
Lo fissai di sbieco, non sapevo se fidarmi o no, ma dannazione, gli avevo quasi spaccato il naso, quella confessione gliela dovevo. «Ho amato soltanto il calcio in tutta la mia vita, non ho avuto tempo per le ragazze».
«Quindi non hai…» e lì lasciò la frase in sospeso, scuotendo pollice e indice tesi, facendo il segno del ‘niente’.
«Certo! Ma per chi mi prendi!» ringhiai, offeso che avesse pensato quella cosa.
«Scusa» ridacchiò. «Infatti, mi sembrava un po’ strano. Quindi non sei mai stato con una in modo definitivo, ma soltanto per poco tempo».
«Una notte» specificai.
Marco mi fissò stralunato, poi sospirò e mi posò una mano sulla spalla con fare paterno.
«Non dico di avere una grandissima esperienza alle mie spalle,» iniziò «Ma un paio di cosette le ho imparate con l’esperienza. Esistono diversi tipi di donne: quelle bellissime, quelle che ti fanno ridere e quelle che non sopporti».
Lo ascoltavo attento, visto che non avevo poi nulla da perdere. Stranamente mi sentivo a mio agio a confessarmi, per la prima volta. Come se mi fossi tolto un peso dal cuore.
«Dovrei scegliere le bellissime o quelle che mi fanno ridere?» gli chiesi, curioso.
Borriello scosse il dito indice davanti ai miei occhi, poi sfoderò un sorriso furbo. «No, mio caro. Se riesci a trovare una donna che incarna alla perfezione tutte e tre le caratteristiche, allora non lasciartela sfuggire. È lei quella perfetta, la sola ed unica con cui potrai mai stare».
Sgranai gli occhi confuso e profondamente perplesso. «Ma... se non la sopporto, come può essere perfetta?».
Marco fece per andarsene, ma si fermò con una mano sulla porta d’ingresso del ristorante.
«Se non litighi con la tua ragazza, che gusto c’è a far pace poi, eh?» sghignazzò, in seguito sparì all’interno del Caminetto ed io rimasi come un baccalà a fissare la porta a vetri.
Inevitabilmente il mio pensiero andò a Celeste e a tutti quegli infiniti battibecchi che facevamo ogni volta che stavamo insieme.
Sicuramente le litigate con lei sono all’ordine del giorno.
Ormai avevo messo una pietra sopra al nostro ‘rapporto’, ma questo non voleva dire che non potevo avere una ragazza. Magari non sarebbe stata bellissima, o non mi avrebbe fatto ridere, oppure l’avrei sopportata tranquillamente – quella era Celeste –, ma ciò non mi avrebbe fermato.
Con quella sicurezza feci per entrare nel ristorante, almeno per rassicurare Ruben sul fatto che gli alieni non mi avessero ancora rapito, quando udii una voce dalla strada.
«Leonarduccio?». Voce femminile e abbastanza stridula. «Leo, sei tu?».
Il brivido dietro alla schiena mi suggerì che la voce in questione doveva appartenere per forza ad una rossa di mia conoscenza.
Annalisa Cavalli.
Mi voltai, ormai con le mani nel sacco, e la salutai con un cenno della mano, raggiungendo la sua Mercedes SLK rosa shocking.
«Ciao» le dissi calmo, senza tentare in tutti i modi di darmela a gambe.
Il suo sorriso si allargò da orecchio ad orecchio, poi mi sfiorò una mano. «Ho saputo della cena da papà» ridacchiò eccitata. «Potevi invitarmi!».
Fui preso in contropiede, ma non demorsi. «Era solo per i giocatori» mi giustificai.
Lei mi guardò dubbiosa, senza mai smettere di sorridermi languida. Certo, bella era bella, non potevo negarlo.
«E allora la talpa che ci fa in mezzo a voi?» chiese, riferendosi a Ruben.
Storsi il naso a quell’affermazione, anche se perfino io lo chiamavo in quel modo. Ruben però rimaneva sempre il mio migliore amico, e soltanto il sottoscritto poteva offenderlo.
«È la mascotte della squadra» tagliai corto, sperando che quel supplizio finisse.
Sicuramente Annalisa era di quanto più insopportabile potesse esserci in un corpo femminile, quindi rispecchiava due su tre caratteristiche.
«Ti va di venire in un posto con me?» mi domandò, sfoderando un sorriso malizioso e allungandosi per aprire la portiera, favorendo la visuale delle sue tette rifatte al sottoscritto.
Il Leonardo di prima avrebbe immediatamente accettato l’offerta, non avrebbe nemmeno pensato alle conseguenze, ma quello di adesso voleva sperimentare cosa si provasse in una relazione seria.
«Non so se sia il caso» tentai di declinare, ma lei non demorse.
«Soltanto per parlare, ci prendiamo un drink e ti riaccompagno a casa» disse sicura.
Cosa poteva andare storto? Annalisa non era certo la ragazza migliore del mondo, ma era carina e abbastanza insopportabile, avrei anche potuto provare con lei.
Rimasi con la mano sulla portiera della Mercedes per qualche minuto, indeciso sul da farsi. Se fossi salito su quell’auto, avrei detto addio per sempre ad ogni possibilità di rivedere Celeste, di poter costruire qualcosa con lei.
Come puoi instaurare un rapporto basato sulla menzogna?
Il mio Ego aveva ragione, con Celeste ormai era finita e lei non mi avrebbe mai più cercato dopo quello che avevo fatto, anzi avevamo fatto.
«Allora?» chiese Annalisa, impaziente.
«Okay» borbottai, facendo per accomodarmi sul sedile del passeggero.
«RUBEN!» urlò una voce alle mie spalle.
Mi voltai di scatto e vidi Celeste, in piedi dietro la macchina di Annalisa, illuminata dai fari del pandino sgangherato di Robbeo. I suoi occhi azzurri erano sgranati, aveva il fiatone ed indossava una felpa orribile, che le stava tredici volte, e un paio di pantaloni da ginnastica consunti.
Era bellissima.
«C-Che ci fai qui?» chiesi, uscendo dalla macchina e raggiungendola.
Quando fui abbastanza vicino, vidi che il suo sguardo si posò su Annalisa, poi indietreggiò confusa. Dannazione, era arrivata proprio nel momento in cui avevo deciso di accettare il passaggio della rossa.
«Che ci fai con lei?» ringhiò, allontanandosi sempre di più.
Ero sicuro che se non avessi fatto qualcosa, l’avrei persa per sempre. Quella era la mia ultima occasione per sistemare le cose.
Mi faceva ridere.
«Voleva andare a bere qualcosa» le sussurrai, raccontandole per la prima volta la verità.
A quel punto Annalisa spense il motore ed uscì dalla macchina, più nera che mai. Già aveva squadrato Celeste in malo modo, poi quando lei ci aveva interrotti, si era imbufalita.
«Si può sapere cosa vuoi da lui?!» chiese, stizzita. «Lo vuoi capire che uno così non ti si filerà mai? È troppo speciale per stare con una nullità che si veste da stracciona!».
Non la sopportavo.
«Senti tu, roscia del cazzo!» sputò Celeste, incazzata come mai l’avevo vista in vita mia.
Doveva odiare Annalisa dal più profondo del cuore e glielo si leggeva negli occhi. Il fatto che fosse gelosa mi riempì il cuore d’orgoglio e forse era questo uno dei vantaggi di cui parlava Marco.
«È una questione tra me e Ruben, quindi levati di torno!».
La rossa sussultò nuovamente al nome che Celeste aveva usato, ma ormai l’avevano capito anche i sassi che le avevo mentito. Fortunatamente non disse nulla, si limitò a sorridere.
«Forza, Ruben, andiamocene» mi suggerì, montando nuovamente sulla Mercedes. «Lascia la pezzente a bollire nel suo stesso brodo».
Dietro le spalle di Celeste vidi un viso nuovo, quello di una ragazza e il solito Romeo che mi fissava sconfitto. Era innamorato della sua migliore amica, e come potevo dargli torto?
Celeste mi fissava ancora in cagnesco e a quel punto avevo una decisione da prendere, qualcosa da fare. Se fossi salito in macchina con Annalisa, avrei detto addio per sempre a Celeste, ma così facendo Romeo mi avrebbe perdonato – o almeno lo speravo –, invece, se fossi rimasto, avrei rischiato di perdere comunque tutto.
Sapevo che me ne sarei pentito per il resto della vita, ma come avevo cancellato il suo numero dalla memoria del telefono, mossi un passo in direzione della Mercedes e feci per montarci sopra.
«Ora, Cel! Diglielo!» sentii una voce sussurrarle quelle parole.
Sentii qualcuno che mi afferrava per la manica della giacca e mi tirava via dalla macchina rosa, e quando mi voltai, fui lieto che si trattasse di lei.
Aveva il viso abbassato, completamente rosa dall’imbarazzo, mentre si fissava le scarpe da ginnastica. Teneva la mano stretta attorno al mio completo d’Armani, stritolandolo, poi mi fissò.
Azzurro e verde, il colore del cielo e delle vallate.
«Scusami» disse poi, sorprendendomi. «Non avrei dovuto sbatterti fuori di casa e infuriarmi in quel modo, soprattutto dopo quello...» e lì s’interruppe.
«Cosa?» chiesi ingenuamente.
Celeste arrossì ancora di più e si torturò un labbro con i denti, indecisa su cosa dire.
Infine sospirò e mi guardò storto. «Sei proprio tonto» mi apostrofò. «Quella cosa... ricordo tutto, ora» confessò imbarazzata.
Non seppi dire cosa mi accadde, ma sentii chiaramente il cuore salirmi fino alla gola e per poco non uscì fuori dal petto ballando la samba. Si era ricordata, aveva riconosciuto ciò che era successo tra di noi quella sera ed io non potevo essere che felice.
«Allora hai capito perché sono rimasto, vero?» le domandai.
Gli altri ci guardavano confusi, soprattutto Romeo e Annalisa, mentre l’altra ragazza sembrava sorridere soddisfatta.
Celeste annuì e scivolò con la mano dalla stoffa del completo alla mia, stringendola e avvolgendola in una morsa. Mi sentivo leggero come una piuma, sarei stato in grado di volare ne ero più che certo. Non avevo mai provato una sensazione del genere, era stupendo e dopo tutto quello che avevo sofferto, era come una ventata d’aria fresca in un giorno d’estate.
Puro sollievo.
«Oh, ma per favore!» sbottò Annalisa, stranita e scocciata. «Ci manca solamente che adesso tu le chieda di uscire».
I suoi piani erano andati in fumo e l’essere stata ad un passo dal conquistarmi l’aveva resa più acida del solito. Però l’idea non era affatto male.
Cercai gli occhi di Celeste e le sorrisi. Per la prima volta non mi guardò male, tentando di capire se la stessi prendendo in giro, ma mi sorrise di rimando.
«Vorresti uscire con me, domani?» le chiesi, sperando di non risultare ridicolo.
Era tutto nuovo per me, di solito erano le ragazze che mi placcavano e facevano di tutto per raggiungere il mio letto. Il corteggiamento non era il mio forte.
Celeste arrossì imbarazzata, poi annuì con la testa.
Annalisa allora esplose di rabbia, stringendo i pugni e battendo i piedi a terra. Non le andava giù che il suo piano di conquista fosse andato in fumo, ma il sorrisetto furbo che le si dipinse in volto poco dopo non promise nulla di buono.
Raggiunse il pandino a passo spedito e afferrò il povero Romeo per il bavero della felpa, trascinandolo verso di noi. Lui mi fissava confuso ed io lo era altrettanto.
«Facciamo un’uscita a quattro!» sputò, non contenta di aver perso. «Io e pel di carota, tu e quella… stracciona».
«Ehi, tu!» ringhiò Celeste, ma dovevo calmare gli animi in qualche modo.
In mia difesa arrivò la ragazza che non avevo mai visto. «Ragazzi, con calma» sorrise e nei suoi occhi potei leggervi un guizzo di furbizia. «Facciamo una bella uscita a sei, allora».
Celeste si voltò nella sua direzione e sgranò gli occhi.
«E chi esce con te, nanetta?» l’apostrofò Annalisa, stringendo talmente tanto la felpa di Robbeo da far diventare il suo viso dello stesso colore dei capelli.
In quel preciso istante il vero Ruben, con il suo completo melanzana/prugna, comparve sulla scena e si sistemò i capelli, chiedendo cosa stesse succedendo.
La ragazza lo raggiunse e fissò Annalisa con aria di sfida. «Con lui»
Io e Celeste finimmo col scambiarci un’occhiata dubbiosa, ma non potemmo opporci. Quello che sarebbe stato il nostro primo appuntamento ufficiale, rischiava di trasformarsi in una vera e propria battaglia tra prime donne.
Poveri noi.


Se siete arrivate VIVE alla fine di questo infinito capitolo, vi faccio i miei più sentiti complimenti perché io e Lover c'abbiamo messo una vita a produrre ben 27 pagine di Word! Alla fine avevamo gli occhi più o meno così ---> @_______@
Spero che ne sia valsa la pena, almeno, e che per onorare il nostro sforzo, stavolta riusciamo ad arrivare al 15 recensioni! :3 :3  dai, dai, dai! Lo so che ci siete, nascosti da qualche parte! >.<
*fa lo sguardo da cane bastonato* Siamo anche arrivati ad un dolce 'lieto fine' per i nostri adorati Leonardo e Celeste, ma chissà cosa succederà con Annalisa tra i piedi!
Se non c'è lei, c'è JeanPhilippe e se non c'è il francese, ci sarà qualcun altro.. poveracci!
Sono così dolciotti in questo capitolo! Uhuhuhuh, lo so, non resisto, chiamatemi pure pazza ma li adoro. Celeste è fantastica e la mia Lover è un geniaccio ogni volta, soprattutto nell'introdurre un personaggio nuovo di zecca come Vènera (la bestfriend di Cel) nonché interamente dedicata alla nostra Wife/Lover/Beta a tempo perso/Consigliera/e chi più ne ha-più ne metta Nes_sie! Ti lovviamo!
Baci a tutte!

Ecco a voi Venere.. ehm.. Venéra.. Venerdì... oh, insomma! Vènera! :3 :3

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