DNA
POV.JANE
Tu stai
lì
Lasci
scivolare via
La
realtà
Mentre
un altro giorno vuoto se ne va
Ci
sarebbe un prato immenso
Per
rincorrere perdute libertà
Qui non
c’è
Ma tu rimani
indifferente perché
E
un’altra giornata inizia, segno che il tempo non si ferma mai. Eppure la serata
di ieri sera, così breve, era sembrata un’eternità. Io e Lisbon camminavamo
verso la sala interrogatori. Era passata da poco l’ora
di pranzo e noi stavamo tornando dopo una sosta per mangiare un panino. Era
tutto il giorno che interrogavamo gli inservienti dell’orfanotrofio. Mancavano
la direttrice e alcune ragazze, poi il lavoro pesante era finito: almeno per
me. Entrammo nella stanza e ci sedemmo uno in parte all’altra. La donna,
un’anziana signora alla Rottermeier del cartone Haidi, stava seduta dall’altra
parte con uno sguardo triste e spaventato. Non riuscivo a capire se era più
preoccupata per la ragazza deceduta o per il fatto di non disporre più
dell’enorme ricchezza del patrimonio di famiglia della
piccola.
-Signora
Jones, che può dirci di Sharon?- domandò il mio capo.
-Sharon
era una ragazza adorabile e per bene. Non si comportava mai male ed i suoi voti erano eccellenti.- rispose questa, mantenendo
il suo fare da direttrice.
‘Antipatica!’
-E
con gli altri ragazzi?- chiese ancora Lisbon.
-Era
una ragazza dolcissima. Aveva un sacco di amiche e andava d’accordo con tutti.-
-Questo
non è vero.- la interruppi io. Non mi piaceva quando le persone si
autoconvincevano di cose evidentemente non vere.
-Prego?-
fece questa, alquanto sorpresa dalla mia brusca
interruzione.
-Sharon
non andava d’accordo con tutti. Le ragazze che le andavano dietro erano amiche
che le andavano a genio. Se le sceglieva, dico bene? E
il fatto che fosse di buona famiglia ha influito sicuramente sui suoi voti e
sul comportamento del personale nei confronti della ragazza, è così?-
La
donna aprì e chiuse la bocca svariate volte prima di rispondere.
-Come
si permette? Noi siamo brave persone.- alzò la voce.
-Non
ne dubito. Non è da tutti prendersi cura di bambini che non sono propri e
crescerli. Ma lo ammetta, quei soldi le facevano
comodo… -
-Jane!-
mi richiamò Lisbon.
La
donna sembrava scandalizzata da tutto quello che avevo detto, eppure non negò
niente.
-Lo
neghi signora. Neghi quello che ho detto e le chiederò scusa.- dissi.
La
donna mi guardò negli occhi per un lungo momento, ma alla fine sospirò.
-E’
vero, i soldi dei genitori di Sharon ci facevano comodo. Come dice lei, non è
facile mandare avanti un orfanotrofio, specialmente se si tratta di molti
ragazzi di caratteri e categorie sociali diverse. Sharon era brillante, sul
serio. Sì, è vero era un po’ arrogante, ma certe volte aveva
davvero delle idee originali. A parte qualche parola di troppo non ci sono mai
stati particolari litigi infervorati, o qualcuno che si facesse male.-
-Signora,
perché non ce lo ha detto subito?- chiese la mia
collega.
-Ammettere
di essere in difficoltà, non è facile agente Lisbon. Abbiamo bisogno di soldi e
all’interno c’è gente che fa le differenze e chi non può permettersi di farle.-
-Non
è una bella situazione.- concordai.
Io
e Lisbon ci guardammo, quella donna non era sicuramente un’assassina. La
rilasciammo pressochè subito. Ci mancavano ancora alcuni ragazzi e poi avevamo
finito. ‘Finalmente!’
2
ORE DOPO
Quasi
mi venne un colpo quando lessi l’ultimo nome della lista: Charlotte.
Ero
tentato di chiedere a Lisbon di saltare quell’interrogatorio, lei avrebbe
capito. Ma non aveva senso. Perché saltare
quell’interrogatorio? È vero, mia figlia si chiamava Charlotte, ma era morta
anni fa. Mi sarei lasciato condizionare dal suo nome per tutta la vita? Non
potevo farlo, dovevo affrontare questa cosa. Per questo entrai nella stanza con
un cuor da leone.
Ma due secondi dopo avevo un cuore d’agnello.
La
ragazza che ci stava seduta davanti aveva sì e no
sedici anni, l’età che avrebbe avuto adesso la mia bambina.
Aveva
lunghi capelli biondi boccolosi portati sulle spalle, come quelli della mia
bambina.
Due
occhi di un azzurro intenso, come quelli che aveva preso da me la mia bambina.
Lo
sguardo dolce, curioso e indagatore allo stesso tempo, che aveva la mia
bambina. Una voglia di urlare mi esplose nel petto. Non parlai. Non dissi
niente. Entrai nella stanza e mi misi a sedere dopo aver lanciato una fugace occhiate a quella figurina magra seduta di fronte
a noi. Sul volto nessun sorriso, nessun segno baldanzoso,
nessuna falsa espressione; solo una perfetta maschera seria, irremovibile.
Il cuore mi batteva furioso contro lo sterno.
Indossava
dei jeans blu a tre quarti, un maglione lungo a
maniche corte marrone scuro e un foulard intorno al collo con varie tonalità di
rosso e rosa. Ci guardava nascondendo abilmente la sua agitazione.
-Qui
c’è scritto che ti chiami Charlotte.- fece Lisbon tranquillamente.
Da
quando avevamo iniziato ad interrogare i ragazzi
cercava sempre di non usare il tono severo e autoritario che usava con i
detenuti o i sospettati.
La
ragazza annuì.
-Quanti
anni hai?-
-Sedici.-
-Ci
puoi dire il tuo cognome?-
La
ragazza si morse il labbro inferiore. Lo stomaco mi si arricciò. Ma perché?
-Non
lo so. Io, non so chi siano i miei genitori.-
Vidi
Lisbon fermarsi a bocca aperta, il respiro bloccato a metà. Non se lo
aspettava. Io mi trattenevo per pura forza di volontà su quella sedia. Ma perché doveva essere tutto così difficile? Era solo una
ragazzina…
-Mi
dispiace.- disse la mia collega. ‘Quanto era dolce quando faceva così…’
-Non
fa niente. Non poteva saperlo.- fece la ragazza in tono tranquillo.
I
suoi occhi erano sinceri e il sorriso d’incoraggiamento che fece alla mia
collega era un chiaro invito a non preoccuparsi e ad andare avanti. Anche
Lisbon, con mia sorpresa, sorrise. La ragazza per una frazione di secondo mi
guardò, intensamente, per poi distogliere lo sguardo.
-Da
quanto tempo sei all’orfanotrofio?-
-Da
sempre.- rispose lei alzando le spalle, quasi fosse ovvio.
-E
da quanto conoscevi Sharon?-
-Sharon
la conoscevo da quando era arrivata all’orfanotrofio due anni dopo di me.-
-Eravate
amiche?-
-Non
proprio. Abbiamo collaborato alcune volte per delle ricerche studio, ma non è
che ci frenquentassimo.-
-A
te non piaceva, vero?- intervenni io con mia grande sorpresa.
Lei
mi guardò. Per un attimo sembrò spiazzata, indecisa se rispondermi o meno.
-No,
non mi piaceva.-
-Perché?-
chiese Lisbon, non capendo.
-Lei
si dava arie e non le piaceva, è così?- risposi io per lei.
-No,
non è affatto così. È vero si dava
delle arie, ma non era quello il punto. Con la scusa che era una ragazza
ricca aveva logicamente alcuni privilegi, tutti noi lo
sapevamo che era così. Si comprava molte volte l’amicizia della gente. Il punto
era che mentiva, era una persona falsa. Lei era la reginetta a
cui tutti dovevano voler bene. Lei poteva fare e dire quello che voleva
quando voleva. E a me non andava a genio. Aveva
tentato più volte di avvicinarsi a me, ma ho rifiutato sempre il suo invito.
Non mi piacciono le persone che giocano con i sentimenti degli altri.-
-Così
l’ha uccisa?- intervenni duro.
Sbarrò
gli occhi, presa di sorpresa. Andò in panico.
-Cosa?
No! Assolutamente! Io non sono un’assassina!-
-Dov’era
l’altra sera?-
-In
camera mia.-
-Era
sola?-
-Certamente.
C’è il coprifuoco alle nove.- mi rispose seria.
Il
suo volto ritraeva un’espressione dura e determinata, i suoi occhi erano
sinceri. Non era stata lei a uccidere Sharon.
-Quindi
non può provare di non essere stata lei?- concluse
Lisbon.
Mi
sentii morire. ‘No, Lisbon ti prego. Non farmi questo.’ Chiusi gli occhi
traendo un respiro profondo. Lo sguardo della ragazza si dilatò dalla paura.
-Cosa?
Pensate che sia stata io? Non sono stata io!-
-Charlotte,
purtroppo non possiamo toglierti dalla lista dei sospettati. Non hai un alibi,
ma hai un movente.- cercò di spiegare Lisbon con tatto.
-Il movente che ha lei ce l’hanno un sacco di
ragazzi lì dentro. Non è stata lei.- proferii perentorio. Lisbon mi guardò allibita,
non si aspettava di certo un mio intervento così pacato
e deciso. Mentre la ragazza mi guardava senza capire; ed effettivamente non
potevo darle torto. Come si può giudicare una persona che ti accusa di omicidio
per poi difenderti del contrario pochi secondi dopo?
Alla
fine la lasciammo andare dicendole di rimanere reperibile. Beh, era ovvio; dove
mai poteva andare se era orfana e confinata in un orfanotrofio?
-Jane,
tu adesso mi spieghi… -
Ma
prima che potesse dirmi altro me ne andai dal CBI, non
potevo stare lì dentro un minuto di più. Sentii lo sguardo di Lisbon sulla
schiena, seguirmi fino all’ascensore, dalle finestre del CBI che davano sul
parcheggio, finchè la mia auto non scomparve dalla vista del distretto… ‘Perdonami Lisbon.’
Il
mattino dopo ero tornato quello di sempre: allegro e
spensierato.
Aprii
la porta dell’ufficio di Lisbon per salutarla come facevo sempre, quando mi
abbassai all’improvviso per schivare un fermacarte che mi stava letteralmente
per colpire in testa. L’espressione rabbiosa e corrucciata del mio capo mi fece
capire che non era contenta che ieri le avessi interrotto l’interrogatorio, me ne
fossi andato a metà frase e non mi fossi fatto sentire per il resto della
giornata. Avevo in memoria ancora tutti i messaggi e le chiamate che in quelle
ore mi aveva mandato. E a cui io disgraziatamente non
avevo risposto. Sembrava decisamente arrabbiata e
questa volta dubitavo mi avrebbe perdonato tanto facilmente…
-Jane,
sei uno stronzo, idiota, egoista, irresponsabile e… -
-Lisbon,
ma ti vuoi calmare?- domandai con la voce stridula. Mi stava trapanando i
timpani. Mi fulminò con lo sguardo. Mi guardò ironicamente scettica.
-Calmarmi?
Calmarmi? Vuoi che mi calmi? Perché non te ne torni da dove sei venuto? Qui non
c’è bisogno di te!- era decisamente arrabbiata.
-Oh,
andiamo Lisbon. Non ti arrabbiare.-
-Arrabbiarmi?
E chi si arrabbia. Non ho alcuna intenzione quest’oggi
di sprecare fiato per uno come te, che a metà lavoro se ne va e non si fa più
sentire.-
Mi
oltrepassò, diretta in cucina. La guardai stralunato.
-Tu
sei arrabbiata perché non mi sono fatto sentire?- le chiesi.
Si
versò una tazza di caffè.
-Non
tentare di cambiare discorso signorino.- mi redarguì.
-Eri
così tanto preoccupata per me?- continuai
imperterrito.
-Io?
E chi si preoccupa! Tranquillo Jane, non mi impiccerò
nella tua vita privata… -
-Lo
sai cosa intendo.-
Continuai
a seguirla.
-Signori,
mi dispiace interrompere la vostra discussione: ma vi devo parlare; ora.-
Dal
suo sguardo deducemmo che non avevamo fatto bella impressione, e che non aveva
delle buone notizie da darci.
Quando
la porta si richiuse alle nostre spalle, io e Lisbon ci portammo di fronte alla
sua scrivania. Benchè lei fosse seduta e noi in piedi, il suo sguardo poteva
benissimo dirsi ‘dall’alto in basso’.
-Ho
il risultato delle analisi effettuate dalla scientifica sulla scena del
crimine. Ci sono due tipi di DNA diversi.- iniziò a spiegare.
-Quello
della vittima e quello dell’assassino.- concluse
Lisbon.
Hightower
annuì.
-Sembra
che l’assassino sia una delle ragazze dell’orfanotrofio. Charlotte.-
Mi
sentii come se mi avessero appena sparato: cadere nel vuoto. Vidi Lisbon
guardarmi per una frazione di secondo, preoccupata per la mia reazione. A
quanto pare dovevo essere tornato di ghiaccio.
-Signora,
posso chiederle perché ci ha fatto venire qui? Non
sarà soltanto per dirci che abbiamo l’assassino?- chiese Lisbon.
-Il punto è un altro Lisbon. Abbiamo cercato nel
database per vedere se aveva altri precedenti. E il DNA effettivamente
combacia, ma non nella scheda degli ex detenuti.- ci guardò –Nella scheda degli
agenti del CBI.-
-Cosa?
Il suo DNA combacia con qualcuno che lavora qui?- Lisbon era letteralmente
fuori. Io rimanevo impassibile ad ascoltare, incuriosito. Possibile che mi
fossi sbagliato su quella ragazza?
Il
nostro direttore annuì, prima di puntare i suoi occhi su di me.
-Ha
il tuo stesso DNA Jane.-
Da
troppo tempo non ami
E
girando la chiave ti chiudi
Nei
tuoi sordi silenzi ti assenti
Con il
vuoto negli occhi
Tu non
vuoi far vedere se piangi… se ridi
E così
ti difendi con scudi
Dagli
attacchi violenti degli altri
Non la
vedi l’uscita
Ma c’è una luce laggiù
POV. LISBON
-Ha
il tuo stesso DNA Jane.-
Mi
sentii lo stomaco rovesciarsi. Avvertii un freddo glaciale di fianco a me. Mi
girai lentamente: scioccata, allibita, spaventata,
preoccupata, terrorizzata… a guardare il volto del mio consulente. Non si era
mosso. Fermo come una statua. Il suo volto privo di espressione. Solo i suoi
occhi mi sembravano lucidi. Quanto avrei voluto poter suddividere quel dolore
con lui. Dovevo riprendere le staffe, doveva pur
esserci una spiegazione logica, un qualche errore….
-Ma
signore, questo vuol dire che… -
-Che
è la figlia di Jane, sì.- confermò Hightower.
-Ma
è impossibile. Jane non ha avuto altre relazioni oltre a quella con la moglie.-
-Abbiamo
controllato Lisbon, quello è il DNA di Charlotte. Non ci sono dubbi.-
-Ma
la bambina trovata a casa insieme ad Angela allora?-
insistetti.
-Era
una sosia.-
-Cosa?-
era la prima volta che Jane parlava, mi sorprese molto, e ne fui sollevata.
Almeno non aveva avuto una ricaduta della serie ‘non parlo più’.
-Il test del DNA eseguito sull’autopsia dice che
è tua figlia. Dopo quello che abbiamo scoperto abbiamo
avuto un dubbio. Abbiamo fatto riesaminare il DNA: non è quello di Charlotte.
Probabilmente un collaboratore di John il Rosso ha scambiato le due boccette di
sangue quando abbiamo fatto il test.-
-Un infiltrato.- conclusi.
C’era
un infiltrato nel CBI. Quello stesso uomo che aveva scambiato le fiale delle
due bambine e aveva rapito per tutto questo tempo la figlia di Jane. Era
assurdo e orribile allo stesso tempo. Non potevo crederci. Non capivo come Jane
riuscisse a restare ancora in piedi. Io se fossi stata al posto suo sarei
crollata.
-Ma
perché l’ha rapita? E poi perché ha permesso che la ritrovassimo proprio
adesso? Non ha alcun senso.- non capivo.
-Invece
sì. È tutto collegato Lisbon: il messaggio,
l’omicidio, il DNA… tutto combacia. È questa la sua ultima mossa. L’ultima
mossa per farmi soffrire.-
-Ha
aspettato tutto questo tempo per uccidere la tua famiglia una seconda volta.-
decretò il nostro direttore.
M
Jane negò vigorosamente.
-Quella ragazza non è mia figlia!-
Lo
disse diretto, eppure avvertivo una nota di amarezza. Quel suo abbassamento di
voce, quella rochezza intensa e profonda. Lo sapevo che non era vero, che
sentiva qualcosa. Lo vidi uscire a grandi falcate dalla stanza, sconvolto.
Dovevo andare da lui, dovevo convincerlo.
-Signore,
posso provare a convincerlo?-
-Devi
farlo Lisbon. Non credo veramente che sia stata Charlotte a uccidere Sharon
Smith. E se è come dice Jane, John il Rosso non tarderà a farsi vivo. E
sappiamo entrambe che Jane non permetterà mai a John di fare del male a
un’altra ragazza, specialmente se è davvero sua figlia.-
Lo
sguardo dell’Hightower fu lo slancio finale di cui avevo bisogno. Mi voltai e
andai alla ricerca di Jane.
POV.
CHARLOTTE
Tu per
lei
Avresti
dato tutto ma
No non
si può
Affidarsi
a un altro totalmente no
Allora
fingi di star bene solo
Fino a
quando un giorno poi
Ti
accorgi che
Le
note che uscivano dal piano erano favolose, rilassanti. Mi stupiva ogni volta
come quella leggera pressione di tasti, in un’esatta sequenza di note potesse dar vita ad una fantastica melodia come questa. Le mie dita
volavano su quella tastiera, impercettibili, con movimenti lievi ed aggraziati. Il piano, la musica: questo era tutto quello
che mi era rimasto del mio passato. Della mia famiglia. La musica entrava dentro di me, superando tutte le barriere e i muri che avevo
innalzato contro il mondo esterno. L’unica cosa che avesse libero accesso alla
mia mente. Riusciva sempre a calmare il mio animo tormentato, ad acquietare i
miei pensieri a volte così tormentati, e al contempo mi aiutava ad esternare le mie emozioni. E la cosa piacevole era, che
non solo riuscivo ad esternare quello che provavo, ma
nessuno capiva, nessuno riusciva a concepire la musica come la vedevo io qui
dentro. In questo modo la mia privacy non era violata in alcun modo. Erano le
due del pomeriggio, tutti i ragazzi erano nelle loro camere a parlare o a
studiare. Io mi esercitavo come mio solito, dopo quello
che era successo la mia ansia era cresciuta a dismisura. Come se la morte non
mi avesse tormentata abbastanza nella mia infanzia. In
quel momento la mia salvezza era la sonata op. 28 di
Beethoven “
-Charlotte!-
sebbene la stanza a pareti di vetro fosse abbastanza isolata per non disturbare
le persone al di fuori, il mio orecchio sensibile sentì subito la voce della
direttrice chiamarmi dall’altra parte. La donna, sempre con il suo fare
apprensivo, ma anche autoritario, entrò nella stanza. Dalla sua espressione e
dal sorriso concitato sul suo volto dedussi che ci
fossero splendide notizie. Forse avevano trovato l’assassino di Sharon, così
adesso potevamo stare tutti più tranquilli. Oppure qualcuno era stato adottato,
possibile che fossi io? Boh.
-Signorina
Jones.- la salutai.
Il
rispetto nella mia voce bastava perché la donna non mi dicesse di alzarmi. Questa mi si avvicinò quel tanto che bastava per appoggiare
le sue mani sulle mie spalle. Aveva gli occhi lucidi di felicità, quasi si
volesse mettere a piangere.
-Charlotte,
ho una grandissima notizia per te.- riuscì a dire in
un soffio.
-Hanno
trovato l’assassino di Sharon?- domandai, speranzosa.
-Abbiamo
scoperto che tuo padre è ancora vivo!- la voce le si smorzò
in gola.
A
me per poco non venne un infarto. Il mio cuore mancò un battito. Una fitta
lancinante. Poi prese a battere furiosamente, gli occhi iniziarono a
pizzicarmi. Il punto era che non sapevo se essere felice perché non ero più
sola o se essere arrabbiata perché in tutti quegli anni ero stata chiusa lì
dentro, senza che provassero a cercarmi. Ma forse mi
avevano cercato. Una confusione pazzesca mi colse, una serie di domande senza
risposta, tutte incerte… mi venne mal di testa.
-Mio
padre? Ma, come è possibile…?- questo era tutto quello
che mi venne in mente da chiedere, dopo tutto quel casino nella mia mente. La
donna si soffiò il naso, commossa.
-Non
hanno voluto spiegarmi i dettagli al telefono, ma mi hanno detto che hanno
trovato un riscontro del tuo DNA nel database del distretto del
CBI.-
Possibile
che fosse più felice lei di me?
-Posso
almeno sapere chi è?- chiesi, un po’ di curiosità in fondo l’avevo.
-Il signor Jane, il consulente della squadra
investigativa che si occupa del caso di Sharon.-
Non
era possibile. Un incubo. Perché mi assillava tanto? Eppure adesso c’era un
senso. Potevo dare senso a quella strana sensazione di
averlo già conosciuto in passato. Ma era così strano,
così… impossibile.
-E’
stato fissato un incontro per voi lunedì, alle tre e mezzo.-
Sollevai
gli occhi sullo sguardo eccitato della direttrice. Sì, era più emozionata lei
di me. Io al contrario ero tesa come una corda di
violino. Solo il pensiero di reincontrarlo, e che lui fosse mio padre, mi
faceva venire la pelle d’oca. Ma che potevo fare se
non dire di sì, e poi forse era il momento di avere un po’ di risposte.
-Va
bene!- risposi a bassa voce.
La
donna se ne andò gongolante, tutta contenta come se fosse arrivata prima ad un concorso di bellezza.
Da
troppo tempo non ami
E
girando la chiave ti chiudi
Nei
tuoi sordi silenzi ti assenti
Con il
vuoto negli occhi
E non
si può capire se sei triste o felice
Forse
da troppo tempo si dice che per tutti è più dura la vita
Se non
vedi l’uscita
Ma c’è una luce laggiù