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Autore: _Pulse_    21/09/2011    2 recensioni
Il ragazzo seduto sul ramo si voltò e lei ebbe la sua conferma: era lui.
Franky si alzò in piedi e saltò di ramo in ramo senza alcuna paura, fino ad arrivare a quello più vicino alla finestra. Si acquattò ad un palmo dal suo viso e in quel modo riuscirono a guardarsi negli occhi senza alcuna difficoltà.
[...] «Io l’avevo detto che avresti avuto i suoi occhi», sussurrò soddisfatto.
{Sequel di Nothing to lose e Everything to gain}
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lose and Gain'
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Un'altra sorpresa per voi ;) Si tratta della seconda locandina da me creata per questa FF (cliccate sul link in azzurro). 
In tutto sono 3, alla fine, quando le avrete viste tutte, mi direte qual è la migliore! Ci conto, eh! :3

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20. Overdose of you

 

Franky entrò nell’ospedale delle anime affiancato da Kim e Raphael; davanti a lui camminava San Pietro.
Era molto presto, non c’era quasi nessuno nei corridoi, oltre alle infermiere che passavano di stanza in stanza per controllare i loro pazienti.

Il santo si avvicinò al bancone e parlò a bassa voce con l’infermiera di turno, che annuì ed internò una chiamata. L’angelo incontrò lo sguardo del suo mentore e questo gli sorrise lievemente, dicendogli di sedersi. Franky obbedì e Raphael si mise seduto al suo fianco su una poltroncina della sala d’aspetto semideserta. 
Kim, in piedi di fronte a loro, continuava a rivolgere occhiate preoccupate a San Pietro e all’infermiera, per poi controllare chi passasse nei corridoi. Era inquieta, lo si vedeva lontano un miglio.

Franky la osservò muovere la gamba come se avesse un tic nervoso, poi infilò la mano nella sua e con quel gesto la ragazza si voltò di scatto, sorpresa. 
Lei incrociò gli occhi verdi oscurati da una patina di dolore del nipote del suo grande amore e una smorfia si impadronì del suo viso: perché era così cocciuto? Perché nemmeno quando si trattava della sua vita non pensava a sé?

«Non mi perdonerò mai di averti appoggiato in questa follia», gli disse, voltando il capo verso il bancone: San Pietro e l’infermiera avevano finito di parlare e un dottore in camice bianco li aveva raggiunti, insieme all’infermiera con la quale Franky aveva avuto parecchi disguidi ma anche momenti di pace. Vide una tristezza sempre crescente impadronirsi di quel volto di donna composto, rigido come se non avesse mai conosciuto l’amore, ma che in quel momento era più espressivo di moltissimi altri, così… amorevole, come se avesse appena scoperto che suo figlio stava lentamente morendo.

Franky interruppe il filo dei suoi pensieri stringendo un po’ di più la presa, ma era ancora debolissimo.
«Grazie», le disse a bassa voce, per poi posare la fronte contro il dorso della sua mano.

Kim si morse le labbra, con gli occhi lucidi, e con delicatezza si sottrasse a tutto quello e si allontanò. Non poteva sopportarlo.

Franky abbassò lo sguardo, dispiaciuto: non voleva che Kim stesse male per lui. Raphael, seduto al suo fianco, gli diede un colpetto sulla spalla ed accennando un sorriso disse: «Non ti preoccupare, le passerà presto».

L’angelo scosse il capo, trattenendo una risata fra le labbra. «Non cercare di consolarmi, lo so bene che ti fa solo piacere vederci lontani. Secondo me dovresti riprovarci con lei, te l’ho già detto».

Il sorriso di Raphael morì. Franky aveva toccato uno dei suoi tasti dolenti, di cui lui non voleva parlare. O meglio, gli aveva già spiegato come stavano le cose, ma non voleva proprio capire.

«Andiamo», esclamò San Pietro, invitandoli ad alzarsi e a seguire lui, Kim, l’infermiera e il dottore.

L’angelo poliziotto aiutò Franky ad alzarsi e con un braccio intorno alla sua schiena lo sorresse lungo il tragitto che li condusse allo studio del dottore, illuminato da una finestra che dava sul giardino. Il dottore badò bene che la porta fosse chiusa a chiave, poi fece sedere Franky sul lettino e gli fece sollevare la manica della felpa che indossava, mentre l’infermiera estraeva da una specie di cassaforte una valigetta con una dozzina di siringhe già pronte per l’uso.

«Visto che il tuo è un caso più che straordinario, abbiamo deciso di aiutarti», gli spiegò il dottore, guardandolo negli occhi. «Queste siringhe contengono un farmaco in via ancora sperimentale, ma che si è rivelato efficace le poche volte che è stato utilizzato».

«Che cosa fa?», domandò Franky, tenendo lo sguardo fisso sull’ago della siringa che l’infermiera aveva già preparato e teneva fra le dita. In particolare osservava quella minuscola gocciolina color turchese che usciva dalla punta dell’ago.

«È in grado di anestetizzare il dolore dell’anima: tu, avendo donato parte della tua anima alla tua protetta e a quella ragazza, soffri quando soffrono le loro anime oppure, siccome hai questo particolare legame con quella ragazza, anche quando…».

«Sì, ho capito», mugugnò Franky, abbassando lo sguardo.

In sostanza, era come la morfina, solo che agiva sulla sua anima: con quel liquido turchese nelle vene non avrebbe più sofferto come aveva fatto quella notte. Avrebbe potuto finalmente fare la cosa giusta, cioè allontanare una volta per tutte Evelyn da sé, spingendola fra le braccia di Martin. Avrebbe potuto tranquillamente continuare ad aiutare il corpo di Zoe a guarire, senza sentirsi tutte le volte privo di forze, e, cosa più importante di tutte, avrebbe potuto liberare una volta per tutte Bill da quell’impiastro di Lilith.

«Stai attento, però», lo avvertì il dottore, attirando di nuovo la sua attenzione. «Questo farmaco fa solo scomparire il dolore, non impedisce alla tua anima di consumarsi, anzi è probabile che in qualche modo acceleri anche il processo. Sei disposto a rischiare così tanto?».

«Non posso fare nient’altro», sospirò. Parte della sua anima era dentro il corpo di Evelyn e dentro di sé aveva una parte della sua, anche se avesse deciso di non starle più accanto avrebbe sentito comunque sulla sua pelle tutto ciò che sentiva lei, non avrebbe smesso di soffrire.

«Potremmo tentare l’estrazione del pezzo della tua anima dal suo corpo…», ipotizzò l’infermiera.

«No. No, non osate toccarla», sibilò. «Non sappiamo se questo possa avere delle ripercussioni sulla sua, preferisco non rischiare».

«Tipico di te», mormorò San Pietro, incrociando le braccia al petto.

Tutti i presenti si guardarono a vicenda per qualche secondo, nel silenzio più assoluto, poi il dottore sospirò e disse: «Dunque la decisione è stata presa».

Kim fece un passo avanti, posò una mano sul braccio candido di Franky e socchiuse gli occhi, con una smorfia sul viso. Gli mostrò mentalmente ciò che lo aspettava, quella che era stata la sua esperienza, durante la quale aveva rischiato più di una volta l’overdose, sopraffatta dal dolore che l’aveva costretta ad iniettarsi più della dose prescritta. Lo pregò di rifiutare, di non entrare in quel calvario, di pensare per una volta a sé, ma appena aprì gli occhi capì che Franky aveva già preso la sua decisione irrevocabile.

«È deciso», affermò l’angelo custode, annuendo con un movimento del capo. Kim si allontanò ancora una volta, ferita, e preferì uscire dalla stanza piuttosto che stare lì a guardare l’inizio di quella che per lei, per un bel po’ di tempo, era stata una specie di tortura.

Raphael, dopo aver scambiato uno sguardo d’intesa con Franky, la seguì, chiudendosi con cura la porta alle spalle. Se la trovò subito davanti, appoggiata alla parete del corridoio, leggermente piegata in avanti e con le mani sul viso.

«Kim», balbettò. L’angelo speciale si sollevò e lo guardò con gli occhi lucidi colmi di tristezza. Raphael si avvicinò e senza nemmeno riflettere sulle conseguenze che avrebbe portato quel gesto del tutto spontaneo, le avvolse le braccia intorno alla schiena. La ragazza si irrigidì all’istante, ma appena percepì il calore di quell’abbraccio si lasciò andare, mise da parte tutto il rancore che gli aveva serbato per tutti quegli anni e ricambiò, scoppiando a piangere sulla sua spalla.

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto», mormorò l’angelo poliziotto, accarezzandole i capelli sulla nuca e stringendola un po’ di più.

 

Il dottore cercò l’ennesimo segno di approvazione dall’autorità suprema - San Pietro. Quando lo ottenne, si rivolse all’infermiera e le prese dalle mani la siringa già pronta. «Non più di una ogni ventiquattrore», gli raccomandò. «La prima te la faccio io, per farti vedere come si fa».

«Okay», soffiò Franky. Lui aveva sempre odiato le punture, ora era costretto a guardare e poi avrebbe anche dovuto farsele da solo.

Il dottore gli strofinò un po’ di cotone inumidito di alcool sul punto del braccio in cui doveva fare l’iniezione. «Vado?».

Franky fece un respiro profondo, poi si voltò verso il suo braccio e guardò la siringa già pericolosamente vicina alla sua pelle. «Vada».

 

***

 

Tom accarezzò i capelli di Linda, poi si alzò dal letto e ancora col viso intorpidito dal sonno si diresse verso la camera degli ospiti. Sbirciò all’interno e non vide nessuno, perciò spinse la porta in avanti e il suo sospetto risultò fondato: Franky se n’era andato. Ma dove poteva essersi cacciato, dopo tutto quello che aveva passato la notte precedente? Era stato duro con lui, era vero, ma era maledettamente preoccupato.

Sbuffò e si portò le mani sulla testa. «Stupido, stupido Franky».

All’improvviso sentì degli strani rumori in camera di suo figlio e vi andò. Entrò facendo più piano che poté, ma le sue precauzioni per non svegliarlo erano state inutili, perché Arthur era già sveglio e singhiozzava seduto sul letto, ancora avvolto nel piumone. Vederlo così fragile ed indifeso gli spezzò il cuore.

Andò da lui, si mise seduto al suo fianco e lo strinse forte fra le sue braccia, cullandolo al petto come faceva quando aveva pochi mesi, accarezzandogli i capelli sulla testa. «Che cosa c’è, cucciolo?».

«Dov’è Franky?».

«Io… io non lo so. Non ne vuoi parlare con me?», chiese con tono pacato.

Il bambino scosse il capo contro il suo collo e il cuore del chitarrista si squarciò ancora di più. Perché suo figlio preferiva parlare con Franky, invece che con lui?

 

***

 

Evelyn si mise seduta su uno sgabello alto dell’isola della cucina, con una tazza di latte di fronte e il cellulare posato poco lontano.
C’era silenzio, tanto che ne aveva quasi paura. Faceva di tutto pur di sentire qualche rumore: girava il cucchiaino facendolo sbattere insistentemente contro i bordi della ceramica, picchiettava le unghie sul marmo bianco e ogni tanto giochicchiava col ciondolo attaccato al suo telefonino.

Suo padre era uscito presto quella mattina, per andare a trovare sua madre. L’aveva sentito scendere al piano di sotto e fare colazione, ma non era scesa, era rimasta a letto, con una guancia premuta contro il cuscino, a pensare alla notte precedente.

Era stato tutto così… strano, forse anche inaspettato. Martin l’aveva baciata e nell’esatto momento in cui le loro labbra si erano incontrate non aveva pensato più a niente, l’aveva baciato e basta. Aveva accantonato tutte le domande che si era posta nei momenti precedenti a quell’evento, tra cui la più importante – se lo stesse facendo per far soffrire Franky come lui aveva fatto soffrire lei. Si era lasciata baciare, lo aveva baciato e quando era scesa dall’auto, dopo averlo salutato, ed era rientrata nella casa buia, si era sentita stranamente leggera, come se sentisse di aver fatto la cosa giusta, anche se… c’era un lato di lei che le diceva il contrario, nonostante… era una cosa complicata, era come se dentro di sé avesse due opinioni contrastanti, di cui una era di per sé contrastante. Non ci aveva capito molto né allora né quella mattina, ma forse semplicemente non c’era nulla da capire: era successo perché doveva succedere e ora spettava a lei decidere se portare avanti qualcosa con Martin oppure no.

Aveva pensato molto anche a Franky, ovviamente. Si era chiesta se lui fosse già venuto a conoscenza di ciò che era accaduto, se sì come l’avesse presa, ma soprattutto aveva riflettuto su come sarebbe stato il loro primo incontro, quello in cui si sarebbero di nuovo guardati negli occhi dopo tutto quello che era successo: Franky si sarebbe mostrato arrabbiato, ferito, offeso, mortificato? Oppure contento per lei come solo lui sapeva fare, con quello sguardo acceso e allo stesso tempo spento dalla malinconia?

Quando si era decisa a scendere al piano inferiore aveva visto suo padre all’ingresso, che si stava infilando il cappotto.

«Che ci fai già sveglia?», le chiese, sorpreso.

Lei scrollò le spalle, concedendosi uno sbadiglio. «Tu, dove stai andando a quest’ora?».

Abbassò lo sguardo. «Volevo passare a trovare mamma. Credevo che tu volessi dormire un po’, per questo…».

«Sì, ho capito», accennò un sorriso lei. «Grazie per il pensiero».

«Vuoi venire? Ti aspetto».

«No… magari faccio un salto dopo, col motorino».

«Mmh». Dondolò sui talloni, indeciso se parlare o no. Alla fine la curiosità lo sormontò, ma si tenne comunque sul vago: «Com’è andata ieri sera?».

«Bene, è stata una bella festa, mi sono divertita». Guardò suo padre e capì che voleva sapere di più, nonostante si stesse trattenendo dal costringerla a raccontargli tutto per filo e per segno. Ridacchiò e aggiunse: «Siamo andati via ancor prima che la festa finisse, Martin aveva paura che tu potessi sgridarlo». Bill fece un sorrisetto, portandosi le braccia strette al petto: quel ragazzo iniziava a piacergli. «Ha… ha avuto cura di me, forse un po’ troppa. Lui è tanto bravo, papà, e io…».

«Cosa?», le domandò, mentre sul suo viso appariva la copia dell’espressione dispiaciuta di Evelyn.

«Niente», scosse il capo e sorrise per rassicurarlo.

Bill non le pose altre domande, annuì e si voltò verso la porta. «Ci vediamo tra un po’ allora».

«Sì, certo».

«Chiudi la porta a chiave».

«Sì».

«Fai colazione».

«Sì, papà!», ridacchiò e lo aiutò ad uscire di casa, spingendolo per la schiena.

Dopodiché era andata in cucina per fare colazione. Era lì tutt’ora, con lo stomaco chiuso, ma nonostante tutto si sforzava per ingurgitare qualche biscotto inzuppato nel latte.

Aveva portato il cellulare con sé perché appena sveglia aveva visto un messaggio di Martin, ancora della notte precedente che però non aveva letto perché era già andata a dormire. C’era scritto che era stata davvero una bella serata e che il bacio che c’era stato fra loro era stata la conclusione migliore, perfetta. Le aveva detto che l’aveva sognato tante volte, ma la realtà era stata in grado di sorprenderlo. Poi le aveva dato la buona notte. Che cosa poteva rispondergli? Perché sì, non gli aveva ancora risposto, aggrappandosi all’idea che quel giorno non sarebbe dovuto andare a lezione e non voleva svegliarlo, quando in realtà era lei che non sapeva assolutamente cosa dirgli.

Sbloccò il touch-screen del cellulare e, guardando la figura sul display, rifletté su quale fosse la cosa migliore da dire e da fare, ma riuscì soltanto a capire che doveva parlare e chiarire con Franky, anche se avrebbe fatto male tornare sulla questione del bambino.

 

***

 

Salutò San Pietro e l’infermiera ed uscì dalla struttura ospedaliera sentendosi come nuovo, nonostante percepisse di essere assuefatto da qualcosa che normalmente non avrebbe dovuto scorrere nelle sue vene.

Aveva perso Kim e Raphael qualche tempo prima, quando lei era scappata per non vedere l’ago bucargli la pelle ed iniettargli quel liquido turchese nel braccio. Non sapeva dove fossero, ma erano insieme e ne era contento.

Un brivido, seppur debole, lo collegò alla mente di Evelyn che gli fece vedere ciò che stava pensando. Con un sospiro socchiuse gli occhi ed annuì, come se stesse acconsentendo ad una richiesta – la sua.

Ridiscese sulla Terra ed andò direttamente da lei, senza fare soste altrove. Atterrò nel bel mezzo del giardino, sul vialetto che portava alla porta d’ingresso, e proprio in quel momento Bill uscì e si trovarono faccia a faccia, per la prima volta soli dopo la scoperta della presenza del demone di nome Lilith nella vita del cantante. Il suo proposito di andare da Evelyn passò in secondo piano, la sua priorità divenne quella di parlare con Bill, che però non sembrava intenzionato nemmeno a starlo a sentire.

«Che ci fai tu qui?», gli domandò bruscamente, guardandolo truce. Come volevasi dimostrare.

«Sono venuto per te», gli rispose in maniera pacata ed aspettò che il cantante si avvicinasse a lui. Quando fece per superarlo, aprì le ali e gli bloccò la strada.

«Togliti di mezzo», ringhiò infastidito. «Non costringermi a trapassarti».

Ma Franky, per nulla spaventato, ribatté deciso: «No. Ti devo parlare».

«Io non voglio, quindi…». Aveva cercato di trapassargli un’ala, ma non era riuscito ad andare fino in fondo e si era ritrovato avvolto da essa, a contatto con l’angelo, che puntò il mento sulla sua clavicola e gli sussurrò all’orecchio: «Almeno ascoltami».

Bill scosse il capo, con le lacrime agli occhi. «Come posso farlo, Franky? Mi hai raccontato così tante stronzate!».

«Ti sbagli. È Lilith quella che ti ha raccontato un sacco di fesserie per metterti contro di me, contro Tom… non ti rendi conto di quello che ti sta facendo? Lei non è il tuo angelo custode, lei è…».

«Basta! Basta!». Si dimenò e si liberò dal suo abbraccio, lo guardò negli occhi per un attimo, poi distolse subito lo sguardo e quella volta l’angelo lo lasciò passare. Era tutto inutile: il seme nero che Lilith aveva piantato nel cuore di Bill era più potente di ciò che pensava, nemmeno l’energia guaritrice che aveva infuso in lui durante quell’abbraccio era servita a qualcosa, non l’aveva nemmeno raggiunto.

«Io non sono più innamorato di Zoe».

Il cantante si bloccò a pochi passi dal cancello e sgranò gli occhi con il fiato mozzato. Entrambi si davano le spalle: Bill guardava verso la sua auto, Franky guardava l'ingresso, cercando di percepire i pensieri che provenivano dall'interno della casa. Capì che Evelyn si trovava in cucina. 

«So che cosa ti ha detto Lilith, che cosa ti ha fatto credere, ma ti giuro… non è così. Come potrei fare una cosa del genere? Il mio compito è quello di proteggere la mia protetta, non di farla soffrire. Perché è ovvio che soffrirebbe se io la strappassi da te. Lei ti ama, Bill, possibile che ancora ne dubiti?». Franky si voltò lentamente e guardò la schiena del suo amico tremare impercettibilmente. Sospirò e aggiunse: «Sono passati tanti anni, sia io che Zoe siamo cambiati, sono entrate altre persone nei nostri cuori…».

«Non ci riesco, io… Vorrei crederti, vorrei ma… non ce la faccio», singhiozzò.

Lo so. Lo so che è difficile Bill, Lilith ha fatto proprio un bel lavoro. Ma devi provarci. Farò di tutto perché tu mi creda di nuovo, te lo prometto. «Prima che tu vada, devo dirti un’ultima cosa». Il frontman attese, continuando a dargli le spalle. «Gli angeli custodi per loro natura non fanno in modo che i rapporti con le persone che il loro protetto ama si incrinino. Se anche io ti stessi facendo quello che lei ti ha detto, lei te lo avrebbe detto perché sarebbe stato suo compito proteggerti, ma siccome non è un angelo custode ti ha consigliato di tagliare i ponti con me, di allontanarti, e ti ha detto quelle cose su Tom in modo tale che ti allontanassi anche da lui. Sta facendo di tutto perché tu rimanga da solo. Lei non vuole la tua felicità, vuole la tua sofferenza. Pensaci, Bill, e se farai attenzione sono certo che te ne accorgerai anche da solo».

«Ora… ora devo andare», balbettò e raggiunse il cancello, lo aprì e raggiunse l’auto quasi di corsa. Si mise al volante e diede gas, allontanandosi più in fretta che poté.

Franky sospirò e rilassò le spalle, rimaste tese per la durata di tutta la conversazione. Si voltò di nuovo verso la facciata della casa e vide Evelyn prendere il cellulare e rispondere finalmente al messaggio di Martin, al quale lui rispose quasi subito, chiedendole se aveva voglia di vederlo. Evelyn disse di sì.

L’angelo non ce la fece proprio, abbandonò l’idea di raggiungerla per chiarire, dicendosi che sarebbe stato meglio per entrambi posticipare quell’incontro, e spiccò il volo, diretto verso casa. Sentiva che doveva essere successo qualcosa a Tom, percepiva il suo stato d’animo e sembrava davvero molto scosso, oltre che affranto. Quando ne capì il motivo, accelerò e in un batter d’occhio si ritrovò in cucina, dopo aver trapassato la finestra.
Sentì Tom e Linda parlare in salotto e si avvicinò con cautela, stringendo convulsamente il manico della valigetta che gli avevano dato in ospedale, contenente le siringhe con l’anestetico per la sua anima. Si schiarì debolmente la voce, agitato, ed entrambi si voltarono: Tom aveva gli occhi lucidi, aveva pianto. Era più grave di quanto pensava.

«Franky, menomale che sei tornato», disse Linda, alzandosi in fretta dal divano e raggiungendolo per stringerlo forte a sé. «Ma si può sapere dove sei stato? Come ti senti adesso?». Gli prese il viso fra le mani e la prima cosa che vide furono i suoi occhi, che le fecero stropicciare il viso in una smorfia. «Che ti è successo?».

«Cosa?», domandò l’angelo, confuso.

«Hai gli occhi azzurri».

Franky si intrufolò nella mente di Linda, si guardò il viso con i suoi occhi e verificò ciò che gli aveva appena detto: aveva gli occhi di una strana tonalità di azzurro, come se questo si fosse mescolato al loro colore naturale, il verde. Che fosse a causa del farmaco che gli avevano dato? D’altronde, gli occhi sono lo specchio dell’anima e fin quando la sua sarebbe stata protetta da quel medicinale, anche i suoi occhi ne avrebbero subito l’effetto.

«Niente è… è una cosa da angeli», scosse il capo con un leggero sorriso sulle labbra. «Ci capita, a volte, di cambiare colore degli occhi».

«Non ti era mai successo prima».

Franky alzò il capo e guardò il suo migliore amico che si strofinava il naso. Era davvero un colpo al cuore per lui vederlo ridotto in quelle condizioni, con un fratello che si stava allontanando da lui a causa di un demone e un figlio che preferiva parlare con un angelo piuttosto che con suo padre. Era davvero un brutto periodo per lui, avrebbe dovuto fare qualcosa.

«Ci capita in periodi molto particolari», rispose titubante.

«Per esempio?».

«Per esempio… quando si sta molto tempo col proprio migliore amico».

Tom sbuffò e si coprì gli occhi con una mano. «’fanculo, Franky». 

L’angelo continuò a guardarlo, ma il suo sorriso appena accennato svanì e i suoi occhi si velarono di malinconia. Diede una carezza sul braccio della sua mamma adottiva e posò la sua valigetta sul tavolino di vetro di fronte al divano, sul quale si mise seduto accanto al chitarrista. Si appoggiò col capo nell’incavo della sua spalla e gli avvolse la schiena con un’ala.

«Adesso ci penso io ad Arthur, okay?», gli sussurrò.

«Avrei voluto poterci pensare io», gli rispose Tom con la voce che tendeva a spezzarsi nuovamente.

«Lo so, lo so. Appena scopro che cos’ha te lo vengo a dire».

«Non lo sai già?». Lo guardò stupito. L’angelo scosse il capo, con espressione mesta sul viso.

«La sua mente ha creato una barriera intorno ai suoi pensieri».

«Ho la sensazione che non sia una bella cosa», disse Linda, preoccupata.

Franky sospirò e ritornò dritto, posò le mani sulle ginocchia e si alzò dal divano. Evitò di dirgli che casi come quello di Arthur erano dovuti ad una chiusura emotiva piuttosto forte, causata dai più svariati motivi. «Vado a vedere».

Recuperò la sua valigetta sul tavolo e si diresse verso il corridoio, ma venne fermato quasi subito da Tom che gli chiese: «Che cosa c’è in quella valigetta?».

Accennò una risata e rispose: «Solo… il programma e i temi delle lezioni che ho tenuto fin’ora a scuola».

Appena voltato l’angolo corse nella sua camera, cacciò la valigetta sotto al letto, in modo tale da nascondere la sua nuovissima fonte di “benessere” agli occhi di tutti, poi corse verso la cameretta di Arthur. Era preoccupato ed in ansia come se fosse suo figlio.

Lo vide seduto sul bordo del letto, in pigiama, col viso rivolto verso il pavimento, i capelli arruffati che gli coprivano gli occhi, e il suo peluche a forma di automobile stretto al petto.

«Piccino», mormorò e si lasciò la porta alle spalle, si inginocchiò di fronte a lui e gli prese fra le mani i piedini gelati. «Volevi parlare con me?».

Il bambino annuì e tirò su col naso, rivelando le lacrime che gli rigavano le guance. Ci mancò poco che anche Franky non scoppiasse a piangere: vedere un bambino star male era la cosa peggiore per un angelo.

«Vieni, su». Lo fece sdraiare di nuovo sul letto, sotto le coperte, e lui si mise stretto al suo fianco. Lo abbracciò, avvolgendogli le ali intorno al corpicino, gli accarezzò i capelli biondi e gli asciugò le lacrime con alcuni baci sul viso. «Che cosa c’è che non va?».

«Prima ho fatto un incubo», singhiozzò, strofinando il musetto contro la sua clavicola ed accucciandosi in posizione fetale come a volersi proteggere e allo stesso tempo stringersi più che poteva alla presenza rassicurante dell’angelo.

Franky riuscì ad intravedere qualcosa, quella barriera si stava sgretolando solo per lui. «Ed era tanto brutto quell’incubo?», gli domandò in un sussurro.

Il bimbo mugugnò un sì, ma non glielo raccontò. In compenso il muro si dissolse del tutto, permettendogli di spaziare liberamente fra i suoi pensieri, in particolar modo in quel sogno che era ancora vivido nella sua mente, chiarissimo. Aveva sognato che alla festa di compleanno di un suo compagno di classe, alla quale sarebbe dovuto andare quel pomeriggio, tutti lo avrebbero trattato male e lo avrebbero lasciato a piangere da solo in un angolo dicendogli che lui non giocava mai con nessuno, tanto valeva che se ne stesse per conto suo.

«Io non ci voglio andare. Non ci voglio andare! Ma mamma mi ha detto che devo perché sono stato invitato e che devo farmi degli amichetti, che ha già comprato il regalo! Ma io non voglio andare a quella festa!». Il suo viso era diventato paonazzo, le lacrime glielo graffiavano senza pietà, e i suoi strilli gli facevano sanguinare il cuore.

«Shhh, piccolo, calmati. Ti prometto che andrà tutto bene, non ci pensare più». Lo avvolse con la sua aura e in poco tempo si rilassò e si riaddormentò, ma l’angelo non riuscì ad allontanarsi da lui. Gli rimase vicino per un po’, fino a quando non sentì i pensieri di Tom, che si chiedeva perché non fosse ancora tornato da lui per spiegargli cosa stava succedendo. Franky si passò una mano sugli occhi e sospirò stancamente. Poi si alzò e camminò a passo lento fino al salotto, dove trovò sia Tom che Linda, tesi come due corde di violino. Dovevano aver sentito le grida di Arthur.

Il chitarrista si alzò di scatto e lo guardò con l’ansia negli occhi. «Allora, che cos’ha?».

Franky in un primo momento si irrigidì, ma successivamente gli indicò il divano con un gesto stanco quanto il suo respiro. Però non sentiva alcun dolore: il farmaco funzionava. «Siediti, Tom».

«Non farmi stare sulle spine, dimmelo e basta!».

«Ho detto di sederti», ripeté serio. L’amico strinse i pugni e si rimise seduto accanto alla moglie, che si strinse al suo braccio mentre l’angelo si sedeva sul tavolino di vetro a gambe incrociate e con le mani sulle tempie, che si massaggiò per trovare le parole con cui dirglielo.

Alla fine esordì: «Arthur ha fatto un incubo ed è venuto da me per un motivo preciso». Guardò Linda e lei ricambiò con sguardo interrogativo, senza capire. Inoltre, era sempre più preoccupata. «Arthur è terrorizzato della festa a cui deve andare oggi pomeriggio. Credo che lui non vi abbia mai detto nulla a proposito di come lo trattano all’asilo».

Il volto di Linda si pietrificò. «Come?», balbettò. «Franky, ti stai… ti stai sbagliando, Arthur è un bambino normalissimo, ha degli amici, tutti gli vogliono bene! E poi, se ci fosse stato qualche problema le educatrici ce lo avrebbero detto!».

L’angelo scosse il capo e trasse un respiro profondo: quella era la parte più difficile. «Arthur è infinitamente introverso e da quello che ho potuto capire passa le sue giornate all’asilo a giocare da solo, come fa qui a casa quando non ci sono io. Le educatrici non vedono altro che aspetti positivi nella sua pacatezza, dicono che è un amore e che non dà mai problemi. La verità è che lui è sempre solo e sono certo che non abbia fatto i salti di gioia quando tu gli hai detto che sarebbe dovuto andare a questa festa».

Linda si appoggiò allo schienale del divano e guardò il soffitto con gli occhi lucidi. «Dio mio, Dio mio…».

«Che cosa dovremmo fare, adesso?», domandò Tom, attirando la moglie in un abbraccio delicato. «Possiamo fare qualcosa?».

«Certo», annuì l’angelo, posando le mani sulle ginocchia. «Tutto si può ancora recuperare. Non è nulla di cui non possiamo occuparci, io per primo».

 

***

 

Evelyn si fece una rapida coda di cavallo, che sistemò alla bell’e meglio mentre andava ad aprire alla porta.

«Ciao Martin», salutò il ragazzo stringendosi un braccio intorno allo stomaco per il freddo. Si fece da parte per lasciarlo entrare e lui le posò un fugace bacio sulla guancia, che la mise comunque un po’ in imbarazzo.

«Ciao Evelyn. Come stai?».

La ragazza si strinse nelle spalle, chiudendo la porta. Si voltò verso di lui ed accennò un sorriso. «Bene, dai. E tu?».

«Alla grande».

Rimasero per qualche secondo in silenzio, a guardarsi intorno: erano tutti e due così in imbarazzo, non sapevano cosa dirsi!

«Ahm… togliti il giubbotto, io intanto vado a vedere se è pronto il thè. Ne vuoi una tazza?», domandò la bionda, dirigendosi verso la cucina.

«Sì, grazie».

«Okay». Si girò ed immediatamente il sorriso le svanì dalle labbra per lasciare spazio ad un’espressione dubbiosa: aveva fatto bene a voler vedere Martin così presto? Forse sarebbe stato meglio incontrare prima Franky… Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

«Sei da sola?».

Sobbalzò dallo spavento e vide Martin sulla soglia della cucina, che le guardava le spalle. Non l’aveva sentito arrivare.

«Sì, mio padre è andato in ospedale a salutare mamma», gli spiegò, mentre versava un po’ di thè in due tazze.

«Qualche miglioramento?».

Evelyn scosse il capo e gli passò una tazza tenendo lo sguardo basso. Martin le sollevò il mento con una mano e le sorrise teneramente, aprì la bocca per dire qualcosa, forse ciò che si sentiva dire sempre più spesso, ossia “Non smettere di sperare, presto si sveglierà e tornerà tutto come prima”, ma lei non glielo permise. Era stanca di quelle parole, stanca di tutto.
Perciò lo interruppe dicendo: «Mi mancano giusto due o tre esercizi di matematica, poi potresti aiutarmi a fare un po’ di compiti di inglese».

Martin aggrottò le sopracciglia, ma presto si lasciò andare ad una risata leggera. «Se fossi in te, non mi fiderei troppo».

«Perchè? Non sei bravo in inglese?», gli domandò, divertita.

«Sono sempre stato una frana!».

«Ah, allora c’è qualcosa in cui io sono più brava di te!».

Il ragazzo arricciò il naso in segno di disappunto e dopo qualche secondo entrambi scoppiarono a ridere.

Si sedettero al lungo tavolo della cucina, uno di fianco all’altro, e chiacchierando sui più svariati argomenti e bevendo dalle loro tazze, riuscirono a fare qualche altro progresso in matematica.
Poi Evelyn andò a prendere anche gli esercizi di inglese che doveva fare e il libro che la professoressa aveva dato da leggere per le vacanze.

«Romeo e Giulietta di Shakespeare?», domandò incredulo Martin, rigirandosi il libro fra le mani.

«Esatto. L’ho già iniziato».

«E ci capisci?».

«Sì, qualcosa», ridacchiò.

«Come viene descritta Giulietta?».

Evelyn non capì il senso di quella domanda e rispose semplicemente: «Beh, è una ragazza quattordicenne che dovrebbe sposarsi con Paride, ma appena incontra Romeo se ne innamora e…». Ma era un’altra la conclusione a cui Martin aspirava.

«Tu sei la mia Giulietta», le rivelò infatti, facendola arrossire ed abbassare lo sguardo sulle sue mani.

Martin gliele prese e le strinse nelle sue, le fece alzare il viso e le sorrise, poi le si avvicinò. Evelyn quella volta non riuscì a lasciarsi andare, si allontanò da lui e schivò il suo bacio. Il ragazzo non capì il motivo del suo comportamento e, leggermente ferito, le chiese: «C’è qualcosa che non va?».

«No», mormorò lei.

«Sei sicura?».

«Sì. È solo che…».

«Evelyn». Martin sospirò, frustrato, e si scostò. «Ieri sera…».

«Ieri sera era diverso», sputò senza riflettere e solo dopo si rese conto di quanto avesse fatto meglio se si fosse tagliata la lingua.

«Che cosa intendi dire, che dopo quello che ti avevo raccontato ti facevo così pena che volevi darmi la speranza che anche tu provassi qualcosa per me?», le chiese con parecchio sarcasmo nella voce.

«No, Martin, non è così…».

«E allora cosa?!».

Un pesante silenzio li avvolse. Evelyn non alzò più lo sguardo dalle sue mani, non lo fece nemmeno quando lo sentì alzarsi e dirigersi verso l’ingresso per prendere il suo giubbino e sbattersi la porta alle spalle. Quando rimase sola si lasciò andare ad un lungo respiro che le fece tremare il petto.

La tua Giulietta è innamorata di un altro Romeo, che non può essere fatto fuori in nessun modo.

 

***

 

Franky, seduto a gambe incrociate sul letto di Arthur, guardava divertito Linda mentre gli allacciava i bottoni della camicia a quadretti che gli aveva fatto indossare. Anche Tom osservava la scena, appoggiato con una spalla allo stipite della porta, ma non c’era nemmeno l’ombra di un sorriso sul suo viso: era teso, preoccupato, e non sapeva come comportarsi. In quel momento riusciva soltanto a pensare che era stato un pessimo genitore, se non si era interessato abbastanza della vita sociale di suo figlio.

«Mamma…».

«Dimmi, tesoro».

«Ma perché devo andarci?». Le sue labbra si arricciarono di nuovo, stringendo il cuore di Linda in una morsa. La donna guardò l’angelo, che annuì col capo: doveva attenersi al piano, anche se ora come ora avrebbe soltanto voluto lasciarlo a casa e cullarlo fra le sue braccia.

«Tu perché non ci vuoi andare?», gli domandò in risposta, non del tutto sicura di ciò che stava facendo.

«I miei compagni di classe non mi stanno tanto simpatici e so che mi annoierò».

«Ma no, vedrai che sarà una buona occasione per conoscerli meglio e per giocare con loro», gli spiegò comprensiva.

Allora il bambino, non vedendo vie d’uscita, si voltò col capo verso l’angelo, sperando che almeno lui lo aiutasse. Anzi, non capiva nemmeno perché non l’avesse già fatto, dopo quello che gli aveva raccontato.

«Sai Arthur…», incominciò Franky, posando il mento nell’incavo delle mani. «Anche io da piccolino odiavo i miei compagni di classe. Dal primo all’ultimo. Poi però, passando molto tempo con loro, ho imparato a riconoscerne gli aspetti positivi ed ho iniziato a volergli bene. Non so bene come è successo, ma capita, sai? Se non fosse stato grazie alla mia mamma che mi diceva sempre di guardare con attenzione ciò che mi stava vicino, a questo punto non avrei nemmeno un amico».

Il bambino parve rifletterci sopra, un po’ confuso, ma alla fine gli diede fiducia. Questo però non bastò a tranquillizzarlo. «Tu vieni con me, vero?».

L’angelo ridacchiò. «Ma certo, piccino. Anche se, ricordalo bene, non potrò stare sempre con te».

Arthur annuì, sorridendo, ed andò da lui ad abbracciarlo. Franky notò il suo migliore amico abbassare lo sguardo ed uscire del tutto dalla camera, allora avvolse l’orecchio del bambino con le mani e gli sussurrò qualcosa. Arthur non se lo fece ripetere due volte e corse dietro al padre, a cui abbracciò una gamba, sorridendogli smagliante e dicendogli: «Io e te ci assomigliamo, papà!».

Tom lo guardò senza capire e si inginocchiò per poterlo guardare dritto negli occhi. «Che cosa intendi dire?».

«Che anche tu non avevi tanti amici quando eri piccolo e che ti prendevano sempre in giro, a te e a zio Bill».

«Come fai a sapere queste cose?». Arthur indicò Franky, che li guardava di fianco alla porta della cameretta e sorrideva.

“Parlagliene. Si sentirà meno sbagliato”, gli suggerì l’angelo e Tom accennò un sorriso, arruffando i capelli di suo figlio con una mano.

«Forza, andiamo o faremo tardi».

Salutarono Linda e tutti e tre salirono in auto. Durante il viaggio, Tom gli raccontò della sua esperienza, di come da ragazzini lui e Bill avessero dovuto subire di tutto: dalle prese in giro per i loro look stravaganti a ben di peggio. Si perse così tanto nel suo racconto che più parlava, più ricordava cose che credeva di aver dimenticato. Franky ascoltò forse anche più rapito di Arthur: non aveva mai visto quell’aspetto così intimo del suo amico ed era impensabile che da bambino avesse sofferto così tanto. Se solo avesse potuto sarebbe sceso da quell’auto e sarebbe andato a cercare quelli che allora erano stati i suoi compagni di scuola per fargli passare un brutto quarto d’ora.

«Però adesso sei famoso, hai tanti amici, hai anche un amico angelo!», esclamò Arthur dopo qualche secondo di silenzio.

Tom sorrise e lo guardò attraverso lo specchietto retrovisore. Lo sguardo gli cadde inevitabilmente anche su Franky. «Sì, è vero. Ma sarebbe stato meglio avere qualche amico vero in più allora invece che tanti finti adesso».

«Perché, ci sono anche gli amici finti?», domandò confuso il bambino.

«Questa è un’altra storia», gli rispose Franky, ridacchiando ed accarezzandogli i capelli. «Quello che papà tenta di dirti è che da bambini è più bello avere tanti amici perché non c’è altro a cui pensare, si è più liberi e spensierati; ci si diverte di più da piccoli».

«Siamo arrivati», si intromise Tom, parcheggiando di fronte ad una villetta che anche all’esterno era addobbata a festa con qualche palloncino colorato appeso qua e là.

Quando Arthur realizzò che di lì a poco sarebbe stato lasciato in quella casa dal suo papà gli si bloccò il respiro e il muro che proteggeva i suoi pensieri si eresse nuovamente. Franky se ne accorse e lo comunicò a Tom con un sospiro ed un’occhiata più che eloquente.

“Devo proprio?”, gli domandò il chitarrista col pensiero. “Mi sembra che lo stia portando in prigione”.

“È necessario, Tom. Più va avanti così, più si bloccherà e avrà problemi in futuro”.

“Forse non è grave come pensi, forse è solo un momento e quando sarà più grande…”

“No, Tom. Ormai lo conosco e non è normale una reazione come la sua, di chiusura totale. Rischia di diventare davvero un problema serio”.

Tom, combattuto fra il bene momentaneo e quello futuro di suo figlio, scese dall’auto ed aprì la portiera del passeggero. «Dai Arthur, slacciati la cintura e scendi».

Il bambino esitò, ma dopo un colpetto di incoraggiamento da parte di Franky, eseguì e scese tenendo stretta la mano di suo padre. Tutti e tre camminarono nel vialetto che portava alla porta d’ingresso e il chitarrista suonò il campanello. Poco dopo una donna, la madre del festeggiato, gli aprì e li salutò con un sorriso estasiato sulle labbra.

«Credevamo non arrivaste più!», gridò e Tom stiracchiò un sorriso, mentre Franky incrociava le braccia al petto, infastidito dall’ipocrisia di quella donna. «Vuole entrare a prendere qualcosa da bere?».

«Ahm… no grazie, devo scappare», disse Tom.

In quel momento una bambina dai capelli rossi, la stessa che il chitarrista aveva visto qualche volta all’asilo di Arthur, sbirciò dietro le gambe della donna e sorrise felice quando incontrò lo sguardo del bambino. «Ciao Arthur!», lo salutò.

«Che ci fai tu qui fuori, vai dentro, vai», la ammonì la padrona di casa, irritata perché aveva appena interrotto il suo tentativo di abbordaggio.

Ma Tom si inginocchiò a terra, interessato più alla bambina che alla donna, e le domandò: «Scusa, posso sapere come ti chiami?».

«Reja», si presentò orgogliosa, porgendogli una manina candida, che Tom strinse con piacere.

«Era da tanto che volevo conoscerti. Bene, allora Arthur, perché non vai dentro con lei?».

Il figlioletto lo guardò titubante, guardò la bambina che gli sorrideva teneramente e dopo una spintarella del padre annuì, prendendo la mano della bimba e sparendo nella casa, dalla quale provenivano già alcuni schiamazzi di bambini.

«Ora sarà meglio che vada», disse Tom, tirandosi su, contento del suo operato: ora suo figlio era nelle mani di Franky. «A che ora devo tornare a prenderlo?», chiese alla donna che lo guardava rapita.

«Quando vuole…», sospirò.

Tom era scocciato, ma non lo fece notare. Sollevò soltanto il sopracciglio e riformulò la domanda: «A che ora finisce la festa?».

«Oh, verso le sei e mezza, sette».

«Okay, sarò qui per quell’ora», annuì e fece per andarsene, ma la donna riprovò a trattenerlo:

«È sicuro che non vuole fermarsi a bere qualcosa?».

«No, grazie, davvero».

«Beh se vuole…».

«Arrivederci!», la salutò deciso e si diresse verso la propria auto. Prima di allontanarsi gettò un’ultima occhiata alla soglia della porta e vide Franky ancora lì, con lo sguardo vacuo perso nel vuoto, le mani strette in pugni.

“Che ti prende?”, gli domandò col pensiero e l’angelo si riprese, scosse la testa e gli fece segno di andare e non preoccuparsi. Tom lo guardò entrare in casa prima che la donna chiudesse la porta e meditabondo diede gas.

Quando arrivò a casa, c’era Linda ad aspettarlo, che camminava inquieta su e giù per il salotto. Appena lo vide rientrare, gli fu addosso: «Com’è andata? Ha fatto altre storie? Franky è con lui?».

Tom ridacchiò, prendendole i polsi fra le mani, e le posò un bacio sulle labbra. «Tranquilla, c’è Franky con Arthur, non può capitargli nulla di male».

«E sai che ci sono io con te?», gli domandò a bassa voce, accarezzandogli le guance. Il chitarrista schivò il suo sguardo, alla ricerca di qualcosa che potesse distrarlo ed impedire alle lacrime di depositarsi nei suoi occhi.

«Forse… forse non mi basti, in questo momento», mormorò, per quanto gli dispiacesse dirglielo. Aveva bisogno di Bill e lo sentiva così distante… tutto per colpa di uno stupido demone.

Linda sospirò e si accoccolò fra le sue braccia, che lentamente iniziarono a cullarla a destra e a sinistra. Tom le posò un bacio sui capelli: «Scusami».

«Non importa, capisco come ti senti», gli disse, anche se era molto difficile da comprendere; ma almeno ci provava. 
«Fai una cosa», gli posò le mani sul petto e lo guardò negli occhi con il sorriso più incoraggiante che riuscì a fare. «Chiamalo, chiedigli di venire qui. Vedrai che capirà che hai bisogno di lui e…».

Tom scosse il capo. «Non ne sono così sicuro».

«Tentar non nuoce… Vuoi che lo chiami io e che gli faccia una di quelle ramanzine epiche?».

Riuscì a strappargli un sorriso. «No, ci penso io».

«Okay». Quella volta fu lei a baciarlo e gli diede una pacca sul petto, poi lo guardò estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans e sedersi sul divano, incurvato in avanti con i gomiti puntati sulle ginocchia.

Con un braccio stretto intorno allo stomaco si avvicinò, si mise seduta sul bracciolo accanto a lui e gli massaggiò la schiena con una mano. Il telefono squillava a vuoto e dopo un po’ Tom buttò giù e posò il viso sulle gambe della moglie, che gli accarezzò i capelli e gli baciò la guancia rigata da una lacrima solitaria chinandosi su di lui.

 

***

 

Bill trovò finalmente il cellulare che prima di entrare in ospedale aveva lanciato nel portaoggetti dell’auto, ma quando lesse il nome di suo fratello sul display si irrigidì, indeciso se rispondere o no. Immediatamente, pensando a lui, avvertì un forte sentore di malessere. Ciò voleva dire solo una cosa: Tom stava male. Agì d’istinto e fece per rispondere, portandoselo all’orecchio senza nemmeno pensare di mettersi gli auricolari, ma proprio una frazione di secondo prima gli scivolò dalla mano, cadendo nella fessura tra il sedile e il cambio.

«Non si parla al cellulare mentre si guida».

Trasalì dallo spavento; Lilith, seduta al posto del passeggero, invece, aveva un’espressione divertita che tentava a malapena di nascondere.

«Che ci fai qui?», le domandò nervosamente, mentre con una mano reggeva il volante e con l’altra cercava di recuperare il cellulare, senza particolare successo: ma dove era andato a finire?! O forse… dove gliel’aveva fatto finire?

«Mi preoccupo per te!», rispose con aria da finta innocente, portandosi le mani sul petto. «Non sai che è pericoloso guidare ed usare il cellulare contemporaneamente?».

«Era Tom», biascicò, allungando ancora un po’ di più il braccio.

«Tom… Oh, ora mi ricordo!», si schiaffò una mano sulla fronte. «Il tuo caro gemellino succube di Franky?».

La sua mente quella volta rifiutò di dar ascolto a quelle parole e sul suo viso comparve una smorfia. Che c’entrasse qualcosa il discorso che gli aveva fatto l’angelo poco prima?

«Invece di blaterare», le disse, «perché non mi aiuti a prendere il cellulare, così almeno la faccio finita e non rischio ulteriormente di fare un incidente?».

Il demone lo guardò corrugando la fronte. Bastò una sbirciatina nei suoi pensieri per capire esattamente ciò che era successo e non poté fare a meno di alterarsi, tanto che i suoi occhi ne risentirono. «Oh… Ora è tutto chiaro!», strillò. «Hai parlato con Franky!».

«Sì, l’ho fatto, e allora?».

«E allora?! Ma ti rendi conto che stai credendo alle solite bugie? Credi davvero che io possa farti del male?!».

Le gettò un’occhiata e finalmente sentì lo schermo del suo cellulare sotto le dita. Lo afferrò e non fece caso alla sua espressione furente, se lo portò all’orecchio e gridò: «Tom!». Ma dall’altra parte avevano già riattaccato.

«Troppo tardi», sibilò Lilith, con un sorrisino forzato. «Buona giornata, Bill». E sparì come era arrivata.

Il frontman gettò il cellulare sul sedile su cui era stata seduta fino a quel momento, adirato. Senza nemmeno mettere la freccia svoltò a destra, beccandosi qualche clacson, e premette sull’acceleratore.

 

***

 

Con grande sorpresa, Franky si rese presto conto che Reja aveva un angelo custode: sua nonna, una donna dai capelli ancora rossi come quelli della bambina e un viso dolce stravolto dal dolore provocato dalla presa di coscienza che prima o poi avrebbe visto morire la sua piccolina senza che potesse fare nulla.

Mentre Arthur e Reja giocavano in un angolino, lontani dagli altri bambini che non facevano altro che correre dietro al festeggiato e riempirsi i bicchieri di carta di patatine, si avvicinò alla donna, che come lui stava guardando i due bambini da lontano. Si mise seduto al suo fianco, in silenzio, come la maggior parte del tempo che passarono insieme: non c’erano parole abbastanza adatte per descrivere tutto quel dolore, ciò che gli angeli erano in grado di comunicarsi solo stando vicini era già abbastanza straziante.

L’anziana ad un certo punto accennò un sorriso amaro, quando la sua piccola protetta scoppiò a ridere, e disse: «Ho visto la malattia formarsi dentro di lei, crescere e diramarsi in tutto il suo corpo, e non ho potuto fare niente. È una bambina così…». Le lacrime le rigarono il viso e Franky si strinse le braccia intorno alla pancia, come se si sentisse male. E, in effetti, era così. La sofferenza che la donna provava dentro di sé ogni giorno era quasi insopportabile per lui che non aveva quel peso dentro, come faceva a resistere?

«Tutto quello che posso fare», continuò l’anziana, mantenendo un certo controllo nella propria voce, «è sostenere questa bambina, amarla, infonderle più coraggio e forza che posso. E poi, sostenere mia figlia e suo marito».

«Quando l’hanno scoperto loro?», ebbe la forza di domandare l’angelo più piccolo.

«L’ho sussurrato in sogno a mia figlia qualche mese dopo che la malattia aveva preso parte della sua vita. Lei l’ha portata dal medico perché da qualche giorno Reja si affaticava subito, diceva che le faceva male il fianco sinistro e aveva iniziato a mangiare sempre meno. Le hanno fatto alcuni esami e…».

Franky si portò le mani sul viso, profondamente addolorato, e scosse il capo energeticamente. «È inconcepibile. Perché devono accadere queste cose anche ai bambini?».

«Mi dispiace che anche il tuo protetto ne soffrirà», gli disse l’anziana, posandogli una mano sulla spalla.

Franky alzò lo sguardo su Arthur, che sorrideva porgendole un tovagliolo per pulirsi il viso sporco di panna – il festeggiato aveva già spento le candeline sulla torta e non se n’era nemmeno accorto. «Lui non è il mio protetto», rispose.

«Ah no? Hai un legame piuttosto forte con lui, mi sembrava…».

«No, no, lui è solo… Tengo moltissimo a lui, me ne occupo più che volentieri ora che non posso fare molto per la mia protetta».

L’angelo custode di Reja conobbe attraverso i suoi pensieri tutto ciò che decise di farle conoscere ed aumentò la stretta sulla sua spalla, a mo’ di conforto. «Che il Signore sia con te, figliolo».

Franky accennò un sorriso. Poi riprese, sollevando il sopracciglio: «Come fa a sapere che Arthur ne soffrirà?».

L’anziana ridacchiò. «Ne hai passate molte nella tua carriera da angelo, ma non ti è ancora capitato di vedere il futuro delle persone che ti stanno accanto, vero?».

«Io… posso, davvero? Credevo che fosse una qualità degli angeli speciali…».

«Beh… gli angeli custodi bravi ne sanno qualcosina in più persino degli angeli speciali», gli fece l’occhiolino.

Franky puntò lo sguardo su Arthur e Reja, che si apprestavano a tornare al loro gioco, sazi, e strinse gli occhi a due fessure per concentrarsi, ma non riuscì a vedere assolutamente nulla. Sbuffò e scosse il capo, agitando le mani: «Non vedo niente, forse non sono abbastanza bravo».

«Io invece credo che tu lo sia», ribatté la donna. «C’è qualcosa in te… Devi solo… lasciarti andare quando è il momento».

L’angelo la guardò confuso, ma presto venne distratto dall’urlo della padrona di casa, mamma del festeggiato, che arrabbiata sgridava suo figlio per aver iniziato a giocare con il pallone dentro casa ed aver beccato proprio le bevande sulla tavola imbandita, sporcando tutta la tovaglia e chiazzando il pavimento.
«Se vuoi giocare a calcio vai a farlo in giardino!», strillò, rossa come un peperone. Il bambino non se lo fece ripetere due volte e con la schiera dei suoi amichetti corse ad infilarsi il giubbotto per poi uscire in giardino. C’era il sole quel pomeriggio, strano ma vero, e non faceva poi così freddo.

Franky guardò Arthur e Reja rimanere da soli nel salotto, confusi per ciò che era appena successo. La mamma del festeggiato li notò e si portò le mani sui fianchi: «Perché non uscite un po’ anche voi?». Sembrava più un rimprovero che un invito, tanto che i due si alzarono e corsero fuori, tenendosi per mano.
Anche i due angeli custodi uscirono all’aria aperta ed osservarono i bambini guardare incuriositi i loro compagni correre dietro un pallone bianco e nero, calciarlo e cercare di mandarlo nella piccola porta.

Sia Arthur che Reja si avvicinarono ai loro angeli, l’uno a l’insaputa dell’altra, e rimasero accanto a loro per qualche minuto, poi la bambina guardò il suo amichetto e gli sorrise apertamente, esclamando: «Vai a giocare anche tu!».

Arthur ricambiò lo sguardo spaventato. Franky gli posò una mano sul capo e gli accarezzò i capelli, sussurrandogli che non era una cattiva idea. La nonna di Reja fece la stessa cosa, dicendole però di non essere insistente come suo solito. 

«Ma io… io non so giocare», balbettò intimorito.

«E allora? Dai, vai, io sto qui a guardarti!». Si mise seduta sui gradini della veranda, col viso fra le mani.

Arthur deglutì e dopo una spintarella di Franky si avviò verso gli altri bambinetti che stavano giocando. L’angelo ridacchiò, quando vide fra i suoi pensieri la volontà di far bella figura con la bambina dai capelli rossi. Quella risata però si spense presto, quando gli affiorò alla mente che quella stessa bambina presto o tardi l’avrebbe lasciato per sempre, ferendo ulteriormente la sua emotività già instabile.
D’altro canto, Reja non l’aveva invitato ad andare a giocare un po’ senza di lei senza un motivo preciso, che c’era eccome: si sentiva stanca, debole, e l’aveva mandato via per non farglielo notare e per obbedire alla sua mamma, che prima di andare via, con gli occhi lucidi dalle lacrime, le aveva raccomandato di riposarsi tutte le volte che voleva se ne sentiva il bisogno.

Franky si mise seduto al suo fianco, posò una mano sulla sua schiena e sentì i battiti affaticati del suo cuoricino. Poi le accarezzò i capelli rossi che contrastavano così tanto con il pallore della sua pelle e guardò l’anziana, seduta al fianco sinistro di Reja. La sorreggeva col suo corpo e con il semplice contatto le infondeva la forza che pian piano le faceva ritornare le energie ed un po’ di colore sulle guance.

Uno strano pizzicorio alle ali lo distrasse e fece in modo che portasse lo sguardo su Arthur, che era riuscito ad inserirsi in una delle due squadre e che proprio in quel momento stava difendendo il pallone come se in ballo ci fosse la sua automobilina preferita. Franky continuò ad osservarlo e senza che se ne rendesse pienamente conto una visione si sovrappose alla sua vista: c’era un ragazzo dai capelli biondi, con un fisico asciutto e slanciato, che difendeva una palla molto simile a quella con cui stava giocando Arthur e che riuscì, con finte e giochetti, a smarcarsi di tre difensori e a tirare in porta, per fare uno splendido goal ed essere travolto da tutti i suoi compagni di squadra.
All’improvviso la visione terminò e tornò a vedere soltanto il piccolo Arthur, che si destreggiava in modo impacciato con quella palla troppo grande e troppo pesante per i suoi piedini. Ma Franky ebbe la certezza che il ragazzo che aveva visto nella sua visione e il bambino che aveva di fronte erano la stessa persona.

Si voltò verso l’angelo custode di Reja, che già sorrideva dolcemente, ed indicò nella direzione del bambino con la bocca aperta. «Io…», balbettò, incredulo.

«Hai visto il suo futuro, esatto».

Arthur cadde a terra, spinto da un altro bambino, e si sbucciò un ginocchio sotto i jeans, che si sporcarono di erba e terra come del resto le sue mani. Ma non pianse, nemmeno una lacrima. Si alzò da solo, nonostante Franky fosse corso da lui per vedere come stava, e senza il suo aiuto tornò da Reja, che gli guardò la ferita al ginocchio come se fosse una rinomata dottoressa.

«Ti fa tanto male?», gli domandò, non osando nemmeno sfiorarla.

«Brucia un pochino», rispose con un sorriso. Si voltò verso l’angelo, senza farsi notare dall’amica, e gli chiese mentalmente: “Posso tornare a giocare?”.

Franky lo guardò incredulo, con tanto di occhi sgranati, ma poi allargò le braccia e con un ampio sorriso annuì.

 

***

 

Tom sentì il campanello trillare, ma non si interessò a chi potesse essere. Finì di sciacquarsi il viso, poi se lo asciugò osservandosi allo specchio.

Uscì dal bagno, spense la luce e si diresse verso il salotto. Già in corridoio gli parve di sentire la voce di suo fratello, ma era impossibile… eppure il suo cuore aveva iniziato a battere forte. Una volta entrato in salotto, lo vide di fronte alla porta, ancora col giubbotto addosso, che sorrideva impacciato e dispiaciuto.

«Ciao Tomi», mormorò e lui non rispose, solamente annullò lo spazio che li divideva e lo strinse in un forte abbraccio.

 

***

 

Spense la tv, annoiata, e si passò le mani sul viso stanco. Suo padre non era ancora tornato, anche se quando l’aveva sentito, all’incirca un’ora prima, le aveva detto che stava tornando a casa. Dove si era cacciato?

Stava per chiamarlo al cellulare, quando sentì degli strani rumori provenire dal piano superiore. Sicura che si trattasse soltanto di Coco, lasciò il cellulare sul divano e salì di sopra, ma ciò che vide appena si sporse sul corridoio le fece gelare il sangue nelle vene: Lilith stava tastando con le mani gli stipiti della porta della camera da letto di suo padre, lasciandogli appiccicato uno strato di fuliggine nera che a fatica riusciva a scorgere.

«Ehi, che stai facendo?», le gridò prendendo coraggio, nonostante sentisse a pelle di essere nei guai.

Il demone non si voltò nemmeno verso di lei, sogghignò e continuò a fare ciò che stava facendo. Allora Evelyn la raggiunse a passo di marcia ed alzò una mano per afferrarle il braccio, ma Lilith fu più veloce di lei: le prese il polso e la bloccò con una risatina. «Lasciami lavorare, ragazzina».

«Mi dispiace, ma non te lo posso permettere». Con la mano libera le afferrò i capelli e glieli tirò con tutta la forza che aveva, mentre con l’altro braccio la tirava verso di sé per impedirle di continuare.

Il demone, che non si aspettava di certo una reazione del genere, fu presa alla sprovvista e dovette interrompersi. Spintonò la ragazzina per qualche metro, guardandola negli occhi coi suoi felini. «Sei proprio una seccatura!», le gridò e la voltò verso le scale di vetro. Evelyn capì che voleva buttarla giù e si aggrappò al corrimano, ma nello stesso momento una luce bianchissima l’accecò e un urlo agghiacciante l’assordò.

Il tutto durò pochi secondi, ma anche quando ormai era tutto finito rimase ancora artigliata al corrimano, mentre tremava dalla testa ai piedi, incapace di fare qualsiasi cosa.

«È tutto finito», le rassicurò una voce soffice, poco distante da lei. La bionda aprì gli occhi e vide chi non si sarebbe mai aspettata di vedere; soprattutto, non si sarebbe mai aspettata che proprio lei la salvasse da quello che agli occhi umani sarebbe risultato un semplice incidente domestico.

«Kim», balbettò.

L’angelo speciale le sorrise, portandosi le mani sui fianchi. «Certo che tu hai proprio un bel fegato a sfidare un demone. Mi chiedo se a furia di stare con Franky tu abbia preso qualcosa da lui».

Evelyn si staccò dal corrimano, ma in compenso si aggrappò alle spalle dell’angelo che l’aveva appena salvata.

 

***

 

Linda ascoltò suo figlio rapita e nel frattempo non poteva smettere di pensare che era tutto merito di Franky, se ora era così felice. Certo, quei vestiti non sarebbero venuti puliti nemmeno con la candeggina, ma il sorriso magnifico e la luce che risplendeva negli occhi di Arthur erano impagabili.

Gettò un’occhiata all’angelo custode che camminava a qualche passo di distanza dietro di loro, con le mani nelle tasche e lo sguardo perso. Chissà a cosa stava pensando.

«Franky», richiamò la sua attenzione e quando la ottenne gli sorrise teneramente, ringraziandolo di cuore. Lui scosse il capo, rifiutando ogni tipo di merito, e le indicò di aprire la porta di casa.

L’angelo si sorprese parecchio quando, entrando in salotto, vide Bill seduto sul divano accanto a Tom. Arthur non vide nulla di strano ed infatti corse dal padre e si gettò fra le sue braccia, iniziando a raccontargli a raffica tutto quello che aveva fatto alla festa: «Sono stato quasi tutto il tempo con Reja! Siamo diventati proprio amici e le ho detto che può venire qui tutte le volte che vuole e che le farò vedere tutta la mia collezione di macchinine! Poi abbiamo mangiato la torta, era buona, anche se non era la mia preferita…». Tom guardò suo figlio capendo poco o niente di tutto ciò che gli stava dicendo: la sua allegria e quello che vedeva dipinto sul suo viso bastava ed avanzava.

«Digli del regalo», gli ricordò sua madre.

«Oh, sì! Papà il mio è stato il regalo più bello! Gli è piaciuto tanto!».

«Sono contento, piccolo», gli accarezzò i capelli e lo strinse forte a sé, ma nemmeno quell’abbraccio riuscì ad arrestare Arthur.

«Ad un certo punto siamo andati tutti in giardino e abbiamo giocato a calcio! Io non ero capace, ma Franky mi ha detto di provare e quindi sono andato e sai che mi sono divertito tantissimo!? Sono caduto un po’ di volte e mi sono anche sbucciato un ginocchio, ma è stato bello! Mi prometti che uno di questi giorni, quando il tempo è bello, andiamo al parco a giocare a calcio?».

Tom, a bocca aperta, guardò l’angelo, che annuì energicamente col capo. Allora il chitarrista rispose: «Certo, come vuoi tu».

«Grazie papà, grazie!», gridò, gettandogli le braccia al collo.

«Arthur… dai, vieni, devi fare proprio un bel bagno», gli disse la madre, invitandolo a seguirla. Il bambino la raggiunse senza fare storie e rimasero solo loro tre in salotto: Tom, Bill e Franky.

«Beh… è andata bene, no?», domandò il cantante, sorridendo.

«Cacchio, io… non pensavo, tu… tu c’entri sicuramente qualcosa». Tom indicò l’angelo, che negò con la testa.

«Tutto merito di Reja. È una bambina davvero…». Abbassò lo sguardo, stringendosi le braccia al petto.

«Davvero?», lo incalzò il chitarrista.

«Adorabile», mormorò.

Uno strano silenzio calò su di loro e durante quei minuti Franky ebbe l’opportunità di concentrarsi e sbirciare fra le menti dei gemelli: non riusciva ancora a vedere oltre il muro creato da Lilith nella testa di Bill, ma si era accorto che il seme nel suo cuore si era un po’ rimpicciolito e aveva perso un po’ della sua oscurità. Quindi aveva intuito che doveva essere successo qualcosa con il demone – dubitava che le sue parole da sole avessero avuto quell’effetto su quell’energia negativa. Lesse nella mente di Tom ed ebbe le risposte a molte sue domande: Bill aveva avuto un battibecco con Lilith, che aveva cercato di allontanarlo ancora dal suo gemello, ma non ci era riuscita. Da quello che il cantante gli aveva raccontato, la sua reazione alla ribellione della sua preda non era stata molto positiva.

All’improvviso un nodo gli serrò la gola e smise di respirare. Anche Bill e Tom se ne accorsero ed uno più preoccupato dell’altro si sporsero verso di lui, chiedendogli che cosa avesse. Franky non badò a loro, cercò affannosamente di collegarsi alla mente di Evelyn, ma per qualche strano motivo non ci riuscì.

Solo allora si girò verso Bill e gli domandò: «Dov’è Evelyn?».

Il cantante lo guardò sollevando il sopracciglio. «Perché me lo chiedi?».

«Sai, non è proprio una genialata lasciarla da sola dopo aver fatto arrabbiare un demone».

«Un che cosa?!».

«Lilith è un demone. Non lo sapevi?», gli domandò Tom, sorpreso.

«Ho cercato di dirglielo, stamattina, ma non mi ha dato modo di aprire bocca», si difese l’angelo, già in panico. Perché non riesco a collegarmi alla sua mente?! Le è successo qualcosa?! No, è impossibile, l’avrei sicuramente sentito…

«Quindi… Evelyn potrebbe essere in pericolo?», chiese Bill, pallido come un lenzuolo. Se le fosse successo qualcosa per causa sua… non se lo sarebbe mai perdonato.

«Vado a cercarla», decretò con fermezza l’angelo e corse alla porta, ma quando l’aprì si ritrovò di fronte Kim e la stessa Evelyn, ancora un po’ scossa. L’angelo speciale gli posò una mano sul braccio e gli bastò un attimo per venire a conoscenza di tutto quello che era successo.

«Allora esisti», sospirò socchiudendo gli occhi rivolti verso l’alto, riferendosi ad un Dio che aveva fatto sì che Kim passasse di lì proprio in quel momento ed avesse salvato Evelyn da una fine più che spiacevole. Quando li posò di nuovo sulla ragazza bionda vide nei suoi altri mille pensieri che già non c’entravano nulla con lo scontro diretto che aveva appena avuto con Lilith e il suo sollievo alla scoperta che stava bene si ritirò in un angolino della sua mente: avevano parecchi problemi da risolvere, loro due, e dovevano farlo il prima possibile.

«Tesoro!», esclamò Bill, scansandolo ed avvolgendo il corpo della figlia con le lunghe braccia. «Come stai, ti è successo qualcosa?».

Anche mentre rispondeva alle domande a raffica del padre, il suo sguardo non si allontanò di un centimetro da quello di Franky: «No, tranquillo, sto bene».

Tom si alzò dal divano e disse: «Non state lì sulla soglia tutti quanti, entrate no?». Bill, d’accordo col fratello, accompagnò dentro Evelyn e la fece sedere sul divano; Franky e Kim entrarono in casa, ma presto si dissociarono dal resto del gruppo, dicendo che avevano bisogno di un minuto per poter parlare in privato. Così trapassarono il soffitto e si rifugiarono nella soffitta buia ed impolverata, nella quale non entrava anima viva da chissà quanto tempo. 
Kim scostò una tenda pesante da uno dei tanti lucernari e guardò Franky, ancora nella penombra, nella sua posa preferita: gambe leggermente divaricate, equilibrio precario sui lati esterni dei piedi, mani nelle tasche e capo chino.

«Perché non sono riuscito a sentire nulla? Nemmeno prima sono riuscito a collegarmi alla sua mente».

Era la domanda che si aspettava e a cui sapeva rispondere: «È a causa del farmaco. Anche a me capitava di non riuscire a collegarmi alla mente di Pete».

«Ma avviene sempre, a volte…?».

«Più vai avanti ad usare il farmaco, più il collegamento fra le vostre menti e le vostre anime svanirà».

Franky fece qualche passo che scricchiolò sul pavimento in legno e prese a calci uno scatolone, frustrato. «Ha rischiato di… E se tu non ci fossi stata…».

«Non ringraziarmi, è mio dovere, come quello di tutti gli angeli – speciali o meno – combattere contro i demoni. Però è stata davvero una fortuna che io passassi di lì proprio in quel momento. Un minuto più tardi e…».

Franky era entrato nel cono di luce che la illuminava e la guardava con i suoi occhi azzurri, strani, diversi. L’abbracciò delicatamente, con quella dolcezza che aveva riservato solo a Zoe e ad Evelyn in tutta la sua vita, e respirò il profumo dei suoi capelli.

«Grazie», le sussurrò.

Kim sorrise e gli massaggiò la schiena. «Non c’è di che».

 

***

 

Il cielo quella notte era chiaro, si vedevano molte stelle e da quando si era appollaiato sul tetto per pensare aveva già visto due “stelle cadenti” del suo mondo – due angeli. Aveva lasciato correre a ruota libera i pensieri, chiedendosi chi fossero, quale fosse il loro ruolo sulla Terra, se anche loro avevano tanti problemi quanti ne aveva lui.

Kim gli aveva raccontato ciò che era successo fra lei e Raphael quella mattina ed era contento che almeno loro fossero riusciti a saltare uno fra i tanti ostacoli che ancora gravavano sulla loro corsa. Nessuno dei due, da quanto aveva capito, aveva intenzione di correre né credeva che sarebbe potuto nascere qualcosa di più dell’amicizia appena riscoperta sotto le ceneri del passato, ma Franky aveva i suoi dubbi: forse li avrebbe visti insieme prima di quanto loro avrebbero mai potuto immaginare.

Posò il mento sulle ginocchia strette al petto e socchiuse gli occhi, cullato dal venticello freddo che si era alzato.

Era stata davvero una giornata densa di fatti, di scoperte e di emozioni, come la maggior parte delle sue giornate, e avrebbe tanto voluto chiudere gli occhi ed abbandonarsi al sonno, ma non poteva con un demone arrabbiato in giro, che poteva decidere di attaccare in qualsiasi momento. E anche volendo, non sarebbe riuscito a dormire più di tanto: aveva troppe cose su cui riflettere. 

Sentì dei rumori e si voltò verso il lucernario da cui aveva avuto accesso al tetto e da cui era spuntata la testa di Tom, che lo guardava con gli occhi grandi, sereni, quasi paterni.

«Che ci fai quassù tutto solo?».

«Tu perché sei venuto a cercarmi?».

Il chitarrista sollevò le spalle e posò le braccia sulle tegole. «Non mi è mai interessato più di tanto il calcio».

«Arthur sta guardando una partita di calcio invece che i cartoni animati?», gli chiese incredulo, ma anche un po’ divertito.

«Già. È stato proprio amore a prima vista il suo, eh? Credi che dovrei sostenerlo? Cioè… che lo dovrei iscrivere da qualche parte?».

«Secondo me sarebbe una cosa positiva in tutti sensi». Si sdraiò con le mani dietro la nuca e le ali a fargli da coperta. «Farebbe qualcosa che gli piace e in più imparerebbe a stare insieme agli altri, a sbloccarsi, a diventare un po’ più estroverso. D’altronde è pur sempre un gioco di squadra».

«Giusto, hai ragione». Guardò l’angelo ed accennò un sorriso: «Adesso mi dici che ci fai quassù tutto solo?».

Franky sospirò, respirando l’aria buona. «Pensavo».

«A che cosa?».

«A quanto alle volte il destino o ciò che contrasta le scelte umane sia crudele».

Il chitarrista pensò che il suo amico stesse entrando nella fase filosofica della vita – l’aveva avuta anche lui, qualche anno prima, – ma cambiò opinione quando ricordò il momento in cui l’aveva visto perso, fuori dalla casa in cui c’era la festa. Che c’entrasse qualcosa?

«È successo qualcosa alla festa che Arthur non mi ha raccontato?», gli chiese con premura.

«Sì, qualcosa che non sa e che non credo che gli farà piacere sapere». Fece un respiro profondo. «Appena ho visto Reja… mi sono accorto che qualcosa non andava in lei: aveva un’aura grigia intorno al cuore, era la prima volta che vedevo una cosa simile ma questa è una delle poche cose che so perché le ho studiate… Quell’aurea è sintomo di malattia e sai che malattia ha Reja?». Una risata amara gli sfuggì dalle labbra, mentre le sue ciglia non trattenevano le lacrime nei suoi occhi quasi tornati verdi naturali. «Ha la leucemia. Ti rendi conto, la leucemia! Vorrà dire che tra un po’ entrerà in un ospedale e vi starà fino alla fine del suoi giorni e Arthur… Arthur, hai la minima idea di quanto soffrirà quando lo scoprirà? Dovrete stargli vicini il triplo, e io…».

Tom, riuscito ad uscire dal lucernario, si avvicinò all’angelo stando attento a non scivolare sulle tegole, si mise sdraiato al suo fianco, aprendogli un ala ed avvolgendocisi dentro, e lo abbracciò.

«Quanto ti fa male stare per molto tempo accanto a noi? Vuoi aiutarci sempre e comunque, fare sempre in modo che noi non soffriamo… Non pensi proprio mai a te».

«Mettiti nei miei panni, Tom», singhiozzò. «Io vi ho lasciati prematuramente, vi ho fatti star male e ora che posso fare qualcosa per voi come posso starmene fermo a guardare mentre le persone che amo hanno problemi e soffrono?».

«Ma tu fai troppo, Franky». L’angelo boccheggiò, alla ricerca delle parole giuste con cui ribattere, ma non ne trovò. «Sai cosa mi diceva sempre mamma? Che io ero l’angelo custode di mio fratello, che lui era il mio e che lei e papà a loro volta erano i nostri angeli custodi. Alla fine… è lo stesso principio con cui agisci tu e poi tutti gli altri angeli custodi… solo che noi siamo tutti senza superpoteri e senza ali. Ciò vuol dire che io, volendoti un bene dell’anima e non volendo altro che la tua felicità, sono il tuo angelo custode».

Franky ridacchiò e si asciugò le lacrime. «Sono in buone mani, allora».

«Sfotti?», gli tirò uno schiaffettino sulla guancia e si lasciò andare ad una risata. «Ma torniamo seri… Mi prometti che ogni tanto ti prenderai una vacanza e lascerai che siamo noi a soffrire direttamente sulla nostra pelle? Quello che non uccide fortifica infondo, no?».

L’angelo annuì, anche se non del tutto sicuro di esserne capace. Si tirò su seduto, guardò un’ultima volta il cielo e poi si alzò in piedi.

«Dove vai ora?», gli domandò Tom, guardandolo dal basso.

«Suvvia, non fare la ragazza gelosa», lo ammonì con un sogghigno sulle labbra. «Devo andare a fare da guardia a tuo fratello: non credo che Lilith si faccia vedere, ma… meglio non adagiarsi sugli allori».

«Stai attento».

«Come sempre». Prese una breve rincorsa, ma proprio un secondo prima di spiccare il volo nel cielo blu, il chitarrista lo chiamò. Franky si girò e ed osservò i suoi occhi spaventati con espressione interrogativa.

«Mi aiuti a tornare in soffitta?», lo pregò Tom, con la voce che tremava leggermente, mentre allungava il collo per vedere giù e allo stesso tempo stringeva gli occhi per vietarselo. «Soffro ancora di vertigini».

L’angelo sorrise, scuotendo il capo.

 

***

 

Evelyn dalla sua terrazza vide subito Franky atterrare nel bel mezzo del giardino. Anche lui si accorse di lei, ma entrambi fecero finta di non essersi notati.
La ragazza scese al piano inferiore e vide l’angelo parlare con suo padre, dicendogli che quella notte sarebbe rimasto lì per proteggere lui ed Evelyn semmai Lilith si fosse fatta viva di nuovo, più arrabbiata di prima.

«C’è qualche problema per te?», gli domandò, con le sopracciglia aggrottate.

«No, è che… non so bene come…», Bill si impappinò e, in imbarazzo, si portò una mano alla nuca. «Credo di doverti delle scuse».

«Non ce n’è bisogno, davvero».

«Mi dispiace così tanto di non averti creduto subito, di essermi fatto stregare da lei… Potrai mai perdonarmi?».

Franky vide il seme nero perdere tutta la sua malvagità e una nuova aura dorata avvolse il cuore di Bill, mentre anche il muro creato da Lilith intorno alla sua mente crollava, permettendo a Franky di vedere tutto di nuovo con chiarezza.

«Ma certo, Bill». Lo abbracciò e gli diede qualche pacca sulla spalla. «Adesso dobbiamo solo capire come liberarci definitivamente di quella piaga», rifletté. Poi si rivolse ad Evelyn: «Da quello che ho capito, tu l’hai vista mentre faceva qualcosa alla porta della sua camera, vero?».

«Esatto. Non so cosa stesse facendo, ma non mi sembrava nulla di buono».

«No, infatti. Deve aver lasciato lì una barriera che io non posso distruggere, in modo tale da avere Bill sotto controllo appena dentro la stanza».

«Beh, basta che io non ci entri», disse il frontman.

Franky annuì. «Okay, per questa notte è la soluzione migliore. Domani vedrò di sistemare le cose, adesso sono troppo stanco». Si lasciò cadere sul divano e gettò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi dalle palpebre pesanti.

«Ti scoccia se ti sto vicino?», gli chiese Bill, prendendo la coperta in plaid abbandonata sullo schienale e sistemandosi sullo stesso divano su cui era seduto Franky.

«No, affatto», ridacchiò. «Basta che tieni lontani i piedi, Big Foot».

«Ehi, come ti permetti?!».

Evelyn li guardò bisticciare ancora per un po’, divertita e rasserenata da quel clima allegro nonostante ci fosse un demone infuriato con loro.

Si avvicinò al divano e si sporse in mezzo a loro: «Non ho molto sonno, posso stare qui con voi a guardare un po’ di tv?».

Bill e Franky si guardarono e scrollarono le spalle, sorridendo. 

 

_____________________________________

 

Salveeee :D
Capitolo un po' lunghetto, lo so xD Spero che non sia stato uno strazio leggerlo tutto in una volta sola, anzi ;) Anche perchè sono successe un sacco di cose interessanti!! Come per esempio il nuovo farmaco che Franky ha deciso di prendere per rendere la sua anima insensibile al dolore, che però ha avuto anche qualche effetto collaterale, in quanto nel momento più opportuno non è riuscito a leggere nella mente di Evelyn. Per fortuna che c'era Kim che l'ha salvata!
Kim e Raphael hanno, come dire, riallacciato i rapporti :) E' presto per dire se tutto tornerà come prima, però si sente già qualcosa nell'aria!
Per quanto riguarda il piccolo Arthur, invece, è stata davvero dura per Tom scoprire il problema del figlio. Ma Franky, o meglio... Reja ha sistemato tutto con la sua allegria e la sua voglia di vivere, anche se malata di leucemia, poverina :'(
Chissà, magari per Arthur è l'inizio di un futuro da calciatore, come ha visto Franky nella sua primissima visione *-*
Poi Bill che torna da Tom e si convince che è Lilith quella che vuole il suo male, beh, è la conclusione migliore, no? :D

Spero che vi sia piaciuto, come è piaciuto a me scriverlo e... boh, basta xD
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e tutti quanti *.*
Alla prossima! Con affetto, vostra,

_Pulse_

   
 
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