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Autore: Beatrix Bonnie    23/09/2011    3 recensioni
1939, Scozia.
Un ricco uomo di finanza è costretto a lasciare il proprio lavoro, la propria casa e la propria famiglia per militare nell'esercito inglese. Non è coraggioso, non è robusto, non ha mai imbracciato un fucile in vita sua. È debole, la guerra gli fa paura e lo rende un bambino. Tutto ciò che ha da offrire è una buona dose di ingegno e una vasta conoscenza in campo geografico e naturalistico. Basteranno a far di lui un eroe?
Nel frattempo la moglie, rimasta sola nell'immensa villa di famiglia, con un bambino di due anni tra le braccia e un altro nel ventre, deve affrontare i maggiori dell'esercito che hanno piantato l'accampamento in casa sua e che la insidiano di continuo. Attenderà speranzosa il ritorno del marito per sei lunghissimi anni, senza mai ricevere sue notizie.
Alla fine della guerra, Ulisse potrà finalmente tornare alla sua amata Itaca?
Storia classificata prima al contest "competition for long-fic published".
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Historia docet'
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Capitolo IX



Marzo 1945


Qualcosa di grosso e rumoroso penetrò nel sogno di Gerald. Era un peccato, perché stava sognando la brughiera con i suoi insetti che ronzavano allegri da un'erica all'altra; e poi c'era Rebecca, bella e radiosa come non era mai stata, con in braccio il piccolo William. È un sogno. gli sussurrò la sua coscienza all'orecchio. Perché Will non ha più due anni da un pezzo.

E, prima che Gerald potesse rendersene conto, una macchia nera piombò nel mezzo della brughiera. Sparava, quella cosa.

«Gerald!» gridò la cosa che sparava. «Gerald, svegliati!»

Il giovane si svegliò di soprassalto. Intorno a lui era tutto buio, ma gli altri sensi si attivarono immediatamente, avvisandolo di una sola cosa: pericolo. C'erano voci che gridavano concitate, spari e lampi di bengala. Li stavano attaccando.

«Gerald, muoviti!» gli urlò Josh, lanciandogli sulla branda il suo elmetto e il fucile. Lo scozzese si ribaltò giù dalla brandina e inciampò sui suoi stivali militari. «Che succede?» boccheggiò, rimettendosi in piedi a stento. Josh gli lanciò un'occhiata esasperata. «Ci stanno attaccando, zucca vuota!»

Gerald non era davvero tagliato per fare il soldato semplice: lui era una mente operativa, geniale quando si trattava di elaborare strategie, sfruttando le sue conoscenze geografiche e naturalistiche; ma quanto a sparare o uccidere, era meglio che lasciasse fare agli altri. In quasi sei anni di guerra, non aveva ancora imparato ad imbracciare un fucile.

I due amici si affrettarono ad uscire dalla caserma e a raggrupparsi con i compagni della sezione agli ordini del maggiore Interim. Le facce stanche e preoccupate dei soldati venivano illuminate ad intervalli regolari dalla luce dei bengala: erano trepidante e in attesa di ordini che non arrivavano. «Josh...» mormorò Gerald, tremante. Anche dopo aver passato tutti quegli anni tra i fischi dei razzi e le bombe dei carroarmati, non ci si abituava mai alla paura di poter davvero morire da un momento all'altro, di sapere che quella poteva essere l'ultima boccata d'aria prima dell'inferno.

Il maggiore Interim apparve sulla scena proprio in quel momento. Cominciò a dare gli ordini, ma il sibilo di un razzo coprì le sue parole. E poi il razzo esplose. Dritto in mezzo al battaglione.

Il maggiore e il gruppo di soldati che gli erano attorno morirono sul colpo, gli altri vennero sbalzati lontano. Gerald fece un breve volo all'indietro ma atterrò sulle ruote di scorta dei camion che attutirono la caduta. Al suo fianco, Josh subì la stessa sorte.

La mente di Gerald, cominciò a macinare velocemente: il loro battaglione era un piccolo distaccamento a est di Forlì, città conquistata dagli Alleati il novembre dell'anno precedente. Pochi soldati in un posto poco interessante. L'unica cosa di un certo valore era l'armeria, che conteneva i rifornimenti destinati ai partigiani. Ma attaccare quella base era un suicidio, perché a meno di un'ora si trovava la sede del generale Alexander con tutta l'Ottava armata britannica. A meno che, ovviamente, l'obiettivo non fosse razziare l'armeria e poi ritirarsi.

Gerald si alzò piano dall'ammasso di cerchioni, tenendo stretto a sé il fucile. «Sant'Iddio...» mormorò vedendo la devastazione provocata dal razzo. C'erano cadaveri sparsi un po' ovunque, uomini feriti che mugugnavano il loro dolore, ammassi di detriti e macerie, polvere e fuliggine che rendevano densa l'aria. Gerald tossì e sputacchiò un po' di sangue a terra. Josh bestemmiò qualche lontana divinità e si alzò a stento: alcune schegge gli erano penetrate nella pancia e all'altezza della milza si stava allargando sulla camicia una grossa macchia rossa. «Josh, sei ferito!» esclamò Gerlad, preoccupato.

«Non è niente, non è niente» mormorò lui, con un gesto veloce della mano, come se volesse scacciare delle mosche moleste.

I pochi uomini sopravvissuti si radunarono attorno a loro, con i volti sciupati e preoccupati. Uno dei soldati più anziani (se anziano di poteva definire uno poco più che quarantenne), guardò Gerlad negli occhi. «Colonnello McBride, attendiamo ordini» gli si rivolse con intensità.

«Io non porto più quel titolo da un anno, ormai» rispose Gerald, scuotendo la testa, ma l'uomo si fece avanti e lo afferrò per un braccio. «Il maggiore Interim è morto, i nazisti ci stanno attaccando e lei è l'unico che è in grado di prendere il comando della situazione» gli disse, con una nota disperata nella voce. Gerald avrebbe voluto fuggire da ogni genere di responsabilità, ma quegli uomini si stavano aggrappando a lui come ad un'ancora di salvezza e non poteva abbandonarli. Il potere gli era stato offerto e lui doveva raccogliere l'invito.

Semplicemente annuì.

«Molto bene» sentenziò prendendo in mano la situazione. «Voi cinque, raggiungete la radio e mandate una richiesta di aiuto al generale Alexander. Gli altri con me all'ingresso dell'armeria» ordinò in tono serio. Nessuno mise in dubbio neanche per un attimo i suoi comandi, sebbene ora non fosse nulla più che un soldato semplice al pari loro.

Una trentina di soldati si radunarono davanti al capannone magazzino. «No!» esclamò Gerlad, quando vide che qualcuno proponeva di entrare per ripararsi dagli spari. «Non è una buona idea: i tedeschi potrebbero decidere di farla saltare in aria, se capissero che non riescono a conquistarla, e per allora noi saremmo grigliata di eroi» spiegò in tono pratico. Josh, sebbene avesse i senti un po' annebbiati per la ferita, riuscì a cogliere il sottile sarcasmo nelle parole del suo amico e si lasciò sfuggire un sorriso. Fantastico, Gerald: dategli qualcosa da comandare e si sente tanto in gamba da permettersi pure di scherzare in momenti come questi.

«Prendete i sacchi di sabbia e costruite una trincea davanti alla porta» comandò poi il giovane scozzese. I soldati si misero subito al lavoro e in pochi minuti avevano creato un rifugio dietro cui posizionarsi. Gerald si accucciò a terra insieme agli altri, con le spalle appoggiate ai sacchi. Scrutò i suoi compagni uno ad uno, poi spiò oltre il riparo e prese un profondo respiro: i tedeschi stavano arrivando.

«Forza, uomini. Resistiamo solo un'ora poi arriverà il generale Alexander a salvarci il culo e a portarci una bella medaglia d'oro al valore» esclamò come incoraggiamento. Lanciò un'ultima occhiata verso i nemici: due carri da guerra e una buona cinquantina di soldati. Gerald si lasciò sfuggire un sospiro. «Se saremo ancora vivi».

Quando cominciarono a piovere proiettili, Gerald chiuse gli occhi per istinto. Lo faceva sempre prima di ogni battaglia, per sognare di essere in un altro posto, quasi sempre nella sua amata brughiera scozzese. Lontano dalla guerra e da tutta quell'aria di morte.

I colpi si susseguirono senza interruzione da ambo le parti; Gerald in realtà sparò ben poco, non per codardia ma semplicemente perché non era davvero in grado di manovrare quell'affare, tanto più se si trovava sotto pressione. I tedeschi, esattamente come Gerald aveva ipotizzato, non spararono con i carri contro il loro piccolo piazzamento, per non rischiare di far saltare per aria tutta l'armeria. Ma anche solo con fucili e mitra, li stavano decimando. La loro unica speranza era l'arrivo del generale Alexander e del resto dell'esercito.

«Signore, i nostri compagni» esclamò un soldato, indicando a Gerald cinque uomini che cercavano di raggiungerli dal fianco destro.

Gerald controllò la situazione, poi ordinò: «Dobbiamo creare un diversivo, svelti»

«Ci penso io» rispose Josh, con decisione, caricando il suo mitragliatore.

Gerald intuì che cosa volesse fare l'amico, quindi lo afferrò per un braccio e cominciò a gridare: «Josh, no! No! Te lo impedisco!»

«Tu non puoi darmi nessun fottutissimo ordine, soldato!» gli urlò Josh in risposta.

Gerald sentì che stava per scoppiare a piangere. «Ma ti farai ammazzare, caprone!» strillò disperato.

Josh gli rivolse un sorriso impietosito. Spostò la mano che teneva appoggiata sulla milza, dove era stato colpito dalle schegge e rivelò una macchia scura di sangue, che non accennava a smettere di fuoriuscire dalla ferita. «Morirei comunque, Ger. Tanto vale fare qualcosa di utile.» sussurrò con un sorriso stanco. Ma i suoi occhi non brillavano quando lo disse. «Fai il bravo, Fitzgerald, e vedi di tornare a casa anche per me» furono le sue ultime parole. E poi si lanciò oltre i sacchi di sabbia.

«Halt! Streck die Waffen!» gli ordinò un nazista.

«Tua sorella, bastardo di un tedesco!» gridò in risposta Josh e poi cominciò a sparare.

«Noooo!» gridò Gerald, cercando di raggiungere l'amico. Per fortuna i suoi uomini lo agguantarono prima che potesse buttarsi fuori dal rifugio e lo inchiodarono a terra. Il giovane assistette inerme alla coraggiosa fine di Josh, trivellato di colpi dalle armi nemiche.

Fu a sufficienza: i tedeschi, impegnati a preoccuparsi di quel pazzo suicida, non si accorsero dei soldati che avevano raggiunto indisturbati il rifugio.

Gerald, nel frattempo, si liberò con uno strattone dalla presa dei suoi compagni e afferrò al volo un sacco di sabbia. «Signore, si fermi!» gridò qualcuno, ma Gerald non diede loro retta.

Doveva assolutamente recuperare il corpo di Josh: non l'avrebbe lasciato in pasto a quei cani nazisti. Usando il sacco per proteggersi dal colpi nemici, raggiunse il cadavere insanguinato del suo amico. «Josh...» mormorò con una fitta al cuore quando vide lo stato in cui era ridotto. Il sapore salato delle lacrime gli pizzicò le labbra screpolate. «Non ti lascio qui» mormorò con determinazione. Josh era una montagna d'uomo in confronto a lui, ma spinto dalla forza della disperazione, Gerald riuscì a caricarsi il busto dell'amico sulle spalle e a trascinarlo verso il rifugio. I suoi uomini, nel frattempo, cercavano di coprire la sua ritirata. Non appena Gerald riuscì a raggiungere la prima linea della provvisoria trincea, qualcosa lo colpì al braccio sinistro. Un dolore lancinante lo investì in pieno e Gerald si accasciò a terra.

«Presto, aiutiamolo!» gridò uno dei soldati e una decina di mani li afferrarono al volo e li trascinarono al riparo. «Signore, è ferito?» chiese solerte uno dei suoi uomini. Gerald mugugnò qualcosa di incomprensibile: il dolore al braccio lo stava tramortendo. I compagni lo adagiarono con le spalle appoggiate al muro dell'armeria. «Resista colonnello, gli aiuti stanno arrivando!» lo incoraggiò qualcuno.

Gerald sbuffò. Restò in uno stato di semi incoscienza finché non vide apparire nel cielo le familiari sagome degli aerei inglesi. Il generale Alexander era lì. Erano salvi.

E poi si abbandonò al rassicurante oblio.


Quando Gerald riaprì gli occhi un caldo raggio di sole mattutino lo avvolse. Era sdraiato su un letto dell'infermeria da campo, proprio di fronte ad una delle finestre che riversava all'interno fiotti di luce. Sentiva uno strano formicolio al braccio sinistro, dove gli avevano sparato: forse erano i postumi dell'operazione. Si voltò lentamente e alzò le coperte per controllare lo stato della ferita. Gli ci volle una manciata di secondi per capire che qualcosa non andava: la manica della camicia bianca dell'infermeria era floscia e vuota. Il suo cervello comandò al braccio di muoversi, ma non successe nulla.

E poi realizzò: glielo avevano amputato.

Riemerse da sotto le coperte con una faccia sconvolta. Gli avevano amputato un braccio poco sotto la spalla, lasciando null'altro che un moncherino.

Ma, in realtà, non era quella la perdita peggiore: la consapevolezza della morte dell'amico, che era stata sapientemente sopita dal suo inconscio, riemerse con violenza, mozzandogli il fiato. E Gerald scoppiò a piangere.

«Ah, McBride, si è svegliato» commentò una voce proprio di fronte a lui. Gerald riconobbe le guance incavate e lo sguardo penetrante del feldmaresciallo Bernard Montgomery, comandante supremo dell'esercito britannico sul fronte occidentale. Doveva esserci in ballo qualcosa di grosso, se avevano scomodato Montgomery.

L'uomo stava placidamente fumando un sigaro, seduto ai piedi del letto di fronte a lui. «Non c'è stato nulla da fare con quello.» spiegò, accennando con il capo al moncherino.

Il cervello di Gerald mandò una serie di impulsi per comandare al braccio sinistro si asciugare le lacrime, per poi ricordarsi che non c'era più un braccio sinistro. Gerald si ripulì il volto con un gesto rabbioso della mano destra. «Josh?» fu l'unica cosa che riuscì a mormorare.

«Il soldato Watson?» domandò Montgomery, sbuffando nuvole di fumo. Gerald annuì stancamente. Montgomery allora indicò vagamente la finestra. «Il suo corpo è stato composto all'obitorio. Anche se è malmesso, gli uomini hanno detto che lei avrebbe voluto essere presente al funerale, così abbiamo aspettato» spiegò poco dopo, in tono tranquillo.

Gerald accennò un segno di gratitudine con il capo, poi distolse gli occhi e prese a vagare lontano con la mente. Josh gli aveva salvato la vita innumerevoli volte, e lui non era stato in grado di aiutarlo quell'unica volta che era rimasto ferito. Ma Josh era fatto così: non gli piaceva rimuginare sui suoi dolori, preferiva spendere le energie per tentare di aiutare gli altri. Se n'era andato così, nell'estremo tentativo di essere utile a qualcuno.

Gerald provò una rabbia immensa per la sua tragica fine. Era ingiusto che fosse lui ad andarsene, lui sempre così pieno di vita, lui sempre pronto ad aiutare il prossimo, lui che era uno dei migliori.

Già, i migliori sono sempre i primi ad andarsene. Mentre lui era ancora lì, l'inerme soldato scozzese incapace di imbracciare un fucile, incapace di essere di qualche utilità per qualcuno, più spesso un intralcio che un aiuto nell'esercito. Perché il destino aveva inchiodato lui a quel letto d'ospedale senza un braccio e si era invece portato via Josh? Aveva forse più meriti Fitzgerald McBride? Era forse più bravo, più utile... migliore?

No, certo che no. Eppure lui era ancora vivo, Josh era morto.

«Giovanotto» lo richiamò la voce tranquilla di Montgomery. Aveva finito di fumare il suo sigaro, le cui ceneri ora si trovavano sparse sul pavimento dell'infermeria. «Un anno fa ti dissi che io di solito non sbaglio a giudicare le persone» cominciò a dirgli, guardandolo dritto negli occhi. «E tu questa notte mi hai dimostrato che avevo ragione. Hai difeso l'armeria dai nazisti, hai guidato quegli uomini con coraggio, hai preso il comando in una situazione critica e te la sei cavata. Hai servito bene il tuo esercito e ti sei riguadagnato la mia fiducia, colonnello McBride»

«Colonnello?» gli fece eco Gerald, confuso.

Montgomery gli regalò uno dei suoi rari sorrisi. «Colonnello. E alle mie dirette dipendenze» confermò. Poi fece per andarsene, ma si bloccò a metà strada. «Ah, e tu e i tuoi uomini vi siete meritati una medaglia d'oro al valore militare» annunciò soddisfatto.

«Anche i morti?» si informò Gerald, cauto.

Montgomery capì che si riferiva al suo amico Josh Watson. Annuì. «Anche i morti».

Magra consolazione, avere indietro un pezzo di freddo metallo invece del figlio, ma almeno Gerald avrebbe potuto raccontare ai suoi genitori che era morto da eroe. Mugugnò qualcosa quando cercò nuovamente di impartire ordini al suo braccio sinistro che non c'era più.

«Grazie, signore» sussurrò rivolto a Montgomery. L'uomo annuì ancora una volta, per far intendere che aveva colto il segnale, e poi lasciò l'infermeria.



Il dramma dei sopravvissuti... mi dispiace un sacco di aver fatto morire Josh, ma era un predestinato. Troppo eroico per essere risparmiato dai colpi nemici. Spero di aver descritto bene il dramma di Gerald, che si trova ad aver perso un braccio e soprattutto un amico.

Perdonate se ho sparso qua e là qualche parolaccia, ma eravamo in una situazione critica e non credo che i soldati si preoccupassero di parlare raffinato.

Il prossimo è l'ultimo capitolo... ragazzi, preparate i fazzoletti perché ci sarà da piangere! Aggiornamento previsto per martedì mattina.

A presto,

Beatrix

   
 
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