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Autore: Donnie    24/09/2011    1 recensioni
A diciotto anni compiuti, Cloe non sa ancora cosa sia l'amore. Non conosce il sapore dei baci, né l'illecito rumore dei sospiri.
Cloe vuole essere una piccola Carrie Bradshaw, ma la sua vita non le dà alcuno spunto. Finché non ritorna suo padre. Finché non tradisce la sua migliore amica. Finché non comincia una relazione clandestina. Finché non si innamora di un altro. Finché non ci capisce più nulla.
Ne fa di guai, Cloe. Ma poi apre l'armadio, si mette un bel vestito, e cerca di aggiustare le cose... come sempre.
(I look sono realizzati su Polyvore)
Dal testo:
«Non hai risposto alla mia domanda: lo ami?».
E fu lì ed allora, seduta al centro della mia cucina, accoccolata su quella luminescente e surreale isola che non c’è, che di domande me ne posi un bel po’. Molte di più e molto più difficili di quella di Chris. Tutte quelle che avevo meticolosamente evitato, negli ultimi tempi.
Chi ero davvero?
Cosa volevo?
Ero in grado di amare con costanza?
Avrei saputo essere fedele ora e sempre alla persona che mi stava accanto?
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Capitolo 6 -
Silenzi


 

 
Erano passati i giorni, le settimane. Ma la situazione era sempre la stessa.
Non avevo più voglia di parlare e, per fortuna, l’aumento improvviso dei compiti- con il conseguente inizio delle interrogazioni –aveva ridotto al minimo indispensabile i miei contatti con l’esterno.
Le ragazze capivano. Immaginavano, almeno. Perché io, a dir la verità, non davo loro nemmeno il tempo di capire: evitavo le domande, evitavo gli sguardi.
Angie aveva detto che avevo solo bisogno di tempo, ma quel tempo sembrava non passare mai. Era giunta quasi la fine di ottobre e, fatta eccezione per i miei “viaggi” obbligatori verso la cattedra e la lavagna, in classe parlavo solo per far sapere al prof di turno che ero presente.
Il mio rendimento era leggermente migliorato; non che ce ne fosse bisogno ma, ultimamente, avevo a che fare solo con libri e quaderni. Il mio portatile, invece, se ne stava abbandonato sulla scrivania, in attesa che mi tornasse almeno la voglia di scrivere.
Quella che ci stava davvero male era senza dubbio Alice.
Non eravamo abituate a scambiarci tenerezze o parole dolci, semplicemente perché non ce n’era bisogno. Perché sapevamo già quanto una fosse inevitabilmente parte dell’altra, senza la necessità di dimostrare nulla.
E se mi sentivo giù io,- anche se “sentirsi giù” era un eufemismo –stava giù anche lei, perché non poteva starsene con le mani in mano mentre io autodistruggevo il mio sorriso e la mia vitalità.
Eppure, non sapeva che fare, che dire... lei, Alice, che con le parole non era mai stata molto brava, per via della sua timidezza. Lei, che di parlare nemmeno ne aveva bisogno... perché quando iniziava una frase, c’ero sempre io che l’aiutavo a concluderla.
Glielo leggevo negli occhi quanto stava male, era semplicemente l’amplificazione del mio dolore. Anzi no, non era dolore, era un’altra cosa. Me ne accorsi un giorno, uno di quei giorni passati a fissare la parete bianca della mia stanza, senza nessun’idea per riempirla.
Ecco, era proprio così che mi sentivo. Vuota e bianca. Senza mensole dove appoggiare qualche peluche, senza scaffali da sommergere con mille ricordi. Senza un quadro in cui ritrovarsi, o uno specchio in cui riconoscersi.
Niente di niente.
«Ehi, Clo... lo sai che oggi è...» sussurrò timida Alice, facendo breccia tra i miei pensieri. Era la sua frase quella, la frase che lei aveva iniziato e che io dovevo concludere. Non potevo deluderla.
Il tempo di fare mente locale e di sfogliare velocemente le pagine del mio diario scolastico e...
«...il 29 ottobre! Quindi domani... oddio!!!!» realizzai, in men che non si dica.
Alice mi diede un bacio sulla guancia, lasciandomi di stucco. Ogni tanto, forse, anche lei aveva bisogno di una dimostrazione concreta.
I suoi occhi erano un po’ lucidi, ancora una volta il riflesso dei miei.
«Ragazze... domani si salta la scuola!» disse, con aria trionfante, voltandosi verso il banco di Angelica e Isabella.
Meccanicamente, mi voltai anch’io. Quanto mi era mancato quel movimento? Quanto ero riuscita a fare a meno delle nostre vivaci chiacchierate della ricreazione?
Con mio grande piacere, i loro sguardi erano dolci, le loro labbra curvate verso l’alto.
I sottotitoli di quel silenzio così carico e denso erano piuttosto chiari.
Ora sì che ti riconosco!, stava sicuramente pensando Isa.
Reagisci, piccola!, parole sante, Angie!
Bentornata, Cloe.
Ti voglio bene, Alice.
 
La mattina seguente, la sveglia era programmata allo stesso orario. Era anche vero che dovevamo saltare la scuola, ma il programma del giorno richiedeva la massima puntualità, persino da parte mia.
La canzone che mi svegliò non era molto recente; degli Articolo 31, se ricordavo bene.
 
Questa vita è mia e voglio volume,
voglio ballare fino all’ultima canzone.
 
La conoscevo tutta a memoria... piccola reminescenza del “periodo-Articolo” di Angelica. Alzai il volume, trascinata da quelle note familiari e dalla voglia di cantare.
Pensai inevitabilmente a Jacopo, ma non come accadeva nell’ultimo periodo: lo pensai in maniera... dispregiativa, per la prima volta. La prima in assoluto, davvero.
Il ritornello mi avvolse ancora una volta.
Questa vita è mia...
Esatto, mia. Non di Jacopo e nemmeno di qualcun altro.
Soltanto mia.
Voglio ballare fino all’ultima canzone.
Volevo davvero ballare, ma ballare da sola, senza accompagnatore. Con le mie amiche, con me stessa.
Voglio volume.
Perché il tono della mia esistenza dovevo deciderlo solamente io, senza interferenze dal mondo esterno.
Mi alzai e mi guardai allo specchio, forse un po’ sciupata, ma non del tutto spenta. Una scintilla nei miei occhi mi ricordò che dentro di me c’era ancora qualcosa su cui lavorare. Quel pizzico di me che si era nascosto bene, sì, ma che non ce l’aveva proprio fatta ad abbandonarmi.
Sorrisi alla mia immagine riflessa in quella lastra irregolare e me lo dissi da sola, ad alta voce, in modo tale che le orecchie potessero sentire e trasmettere il messaggio a tutto il resto del corpo.
«Bentornata, Cloe!».
Continuai a sorridere e scelsi con cura gli abiti da indossare. Non perché ce ne fosse realmente bisogno, ma perché io ne avevo bisogno.
Per la prima volta dopo tanto tempo, guardando fuori dalla finestra, mi resi conto che eravamo davvero in pieno autunno. Anzi, stranamente, sembravamo molto più vicini all’inverno. Le nuvole grigie preannunciavano pioggia.
Addio, occhiali da sole!
Aprii l’armadio e trovai un pacchetto. La calligrafia di mia madre era inconfondibile e risaltava persino su quell’anonimo pezzetto di carta.
 
Per quando avrai bisogno di sentirti speciale.
Perché, come al solito, sarò dannatamente impegnata
e non potrò stare lì a darti la forza che meriti.
Con amore, la tua pessima mamma.

 
Scartai il regalo e trovai un paio di jeans skinny, acquistati secondo la carta in un negozio francese- ahimé, mi ero persa l'ennesimo viaggio a Parigi di mia madre.
Non era lei ad essere una pessima madre; ero io che, ultimamente, ero diventata una pessima figlia. Mia madre aveva sempre lavorato tanto... per me, per noi, per poterci permettere quello stile di vita che lei aveva sempre sognato. E che aveva raggiunto, nell’incredulità generale, pur essendo una ragazza... beh, una mamma single.
Una mamma perfetta, aggiungevo sempre io.
Una mamma in carriera che, nonostante tutti i suoi impegni, trovava sempre il tempo per parlare con me. Con la webcam o sul divano, davanti al caminetto o divise da un monitor a cristalli liquidi... non faceva differenza.
Non era di certo colpa sua se, nell’ultimo periodo, mi ero letteralmente chiusa a riccio.
Però aveva capito, aveva capito persino il mio silenzio, rendendosi conto che avevo bisogno solo di un po’ di calore.
 
Esaminai con cura i jeans grigi, odorava di buono.
Appena lessi la marca sull’etichetta, mi si annebbiò quasi la vista.
I casi erano due: o mamma mi credeva davvero depressa, o aveva qualcosa da farsi perdonare. E qualcosa di grosso anche.
A dirla tutta, optavo più per la seconda opzione.
È vero che mi viziava e mi coccolava... ma per la depressione, non era meglio regalare dei cioccolatini?
Risultato: mamma mi nascondeva qualcosa. Come avevo fatto a non accorgermene?
Riposi il regalo nell’armadio- un paio di skinny jeans di Victoria Beckham, cavolo! -e presi degli abiti da indossare, felice che il freddo del mio cuore se ne fosse appena andato. 
Shorts neri, maglioncino grigio con un adorabile fiocco sulla spalla sinistra, parigine e boots da vera motociclista. Qualche accessorio, lucidalabbra fucsia, portafogli, borsa nera della Juicy... casco e chiavi dello scooter... chiavi di casa e... sorriso. Il mio solito, adorabile sorriso.
Sì, adesso avevo preso davvero tutto.
 
Passai fuori scuola, sicura che, a quell’ora, nessun prof potesse vedermi. Ma giusto in tempo per notare, con i miei dieci decimi di vista perfetta, le mani di Sissi e Jacopo che si sfioravano in maniera impercettibile, timide e nascoste, in quella folla di studenti che migrava verso le aule, seguendo come ipnotizzata il suono della campanella.
Una nuova luce mi mostrò Jacopo nella sua vera essenza.
Un ragazzo normale. Con i suoi pregi, ma anche e soprattutto con i suoi difetti.
Piccolezze che io stessa avevo fatto diventare tali ma che ora, senza l’ovatta a tamponare il tutto, riuscivo a vedere nelle loro reali dimensioni.
Ad ogni modo il centro commerciale dove avrei incontrato le ragazze era davvero enorme e distava da scuola una ventina di minuti. Io ce ne misi appena dodici. Avevo voglia di correre, quella mattina, di correre e di mostrare a tutti quanto ero e quanto mi sentivo libera, rossa e selvaggia.
Beh, quasi quasi quell’etichetta cominciava a piacermi sul serio.
Dal parcheggio intravidi Alice, che si reggeva sulle stampelle, e Angelica, l’unica delle quattro ad avere già la macchina e quindi l’unica delle quattro che poteva fare da autista alla nostra povera infortunata.
Poco dopo, arrivò anche Isabella, con le sue converse nere, in tinta con la maglia aderente, a dolcevita, e la gonna scozzese che tanto le era mancata durante tutta l’estate.
«Quella gonna ti sta benissimo!» la salutò Angie, che indossava invece lungo maglioncino rosa scuro, a mo’ di vestito. Senza parlare, ovviamente, della sua cospicua collezione di accessori fucsia. Della serie, think pink. Inutile dire che il rosa era, appunto, il suo colore preferito.
«Eh già! Ti fa sembrare più alta...» scherzai io, strozzando un suo inchino.
Di tutta risposta, Isa si alzò sulle punte e mi fece una linguaccia.
«Ti preferivo depressa, lo sai?» disse.
Le feci una smorfia, ma Ali mi rimproverò: «Ehi, Clo... Isabella ha ragione... te la sei cercata!».
Risi. Mea culpa, me l’ero cercata.
«Ali, come mi piace la tua mise, oggi!» la lodai, non solo per scusarmi, ma anche perché lo credevo davvero. Aveva addosso un jeans bianco ed una giacca nera ed avvitata, con un paio di splendidi bottoni.
Una accanto all’altra, ridendo- forse senza un vero motivo –come non facevamo da un po’, ci avviavamo verso la nostra meta. E, nonostante stessimo andando semplicemente a comprare un libro, sembravamo uscite da una rivista di moda; oppure da un episodio di Sex and the City, visto che ad Angelica- e soprattutto a me –quel paragone non dispiaceva per niente.
Ci avviammo subito verso il bar, in attesa dell’apertura del centro commerciale. L’orologio segnava appena le nove, mentre le porte del nostro piccolo grande paradiso si sarebbero aperte alle dieci in punto.
Il bar, invece, essendo esterno all’intero complesso, era in attività già dalle sette del mattino. Era un locale molto grazioso e moderno, capace di unire stile ed efficienza. Ci avrei giurato che dietro tutto ciò ci fosse lo zampino di una donna.
Il nostro bar... pensai.
Pur non essendo lunedì, infatti, quella era davvero la nostra solita riunione. Nonostante la gamba rotta di Alice...
«Ehilà, ragazze! È un po’ che non vi si vede da queste parti!». Il vecchio Joe, il cameriere più anziano, era nato in America, ma le sue origini italiane l’avevano riportato qui... a preparare frullati invece che milk shake. E forse era questo che me lo rendeva così simpatico, spirito patriottico.
Ali indicò disinvolta la sua ingessatura: «Colpa mia... lasciamo perdere!».
Joe scosse la testa, ridendo. Non ci fu nemmeno bisogno di ordinare, perché il nostro cameriere di fiducia sapeva già cosa portarci.
Ed eccoci lì, pochi minuti dopo, a chiacchierare come ai vecchi tempi, come se niente fosse successo, come se io non avessi saltato tutte le riunioni dell’ultimo periodo.
Eccoci lì a ridere e a prenderci in giro, a raccontarci i nostri segreti, ad essere semplicemente noi stesse.
Isabella, per tutti Isa, con la sua lattina di Coca-Cola che, pur essendo analcolica, riusciva a riempirle la testa di bollicine.
Angelica, per tutti Angie, con il suo cappuccino dolce e schiumoso che aveva il compito di svegliarla per bene e zuccherarle la giornata.
Alice, per tutti Ali, con il suo frullato al cioccolato che invece lei si ostinava a chiamare milk-shake, sognando gli States.
Ed io, Cloe, per tutti Clo, con la mia spremuta d’arancia che ricordava tanto il colore dei miei capelli.
Le solite matte che mi facevano sentire bene.
Eccoli lì i miei veri tesori. A cosa serviva passare del tempo a deprimersi quando avevo delle amiche così speciali?
«Sto bene. Davvero.» dissi, all’improvviso.
Angelica lasciò quasi cadere la sua tazza, mentre Isa e Alice mi guardarono con gli occhi sgranati.
«Stamattina- continuai –stamattina li ho visti. Si sfioravano la mano. In tutto questo tempo, mi sono solo chiesta “perché lei e non io?”... ma la domanda era un’altra. Perché lui? Ragazze... è basso. E non è nemmeno un granché... un mostro, quasi!» conclusi, citando divertita il soprannome che loro stesse gli avevano affibbiato.
Secondo me, si aspettavano una crisi di nervi. Una di quelle scenate isteriche che si vedono nelle soap-opera. Sorrisi, sinceramente rilassata e leggera.
Uno, due, tre... le sentii sospirare di sollievo. Un attimo di silenzio e poi mille commenti, da quelli più allegri a quelli più maliziosi.
«Alleluia!» gioì Isabella.
«Finalmente stai iniziando ad affinare i gusti... inizia a seguire le mie orme, piccola!» mi incitò, invece, Angelica.
«Ehi, Clo, lascia perdere... questa qui ti porta sulla cattiva strada! Però... però ha ragione! Che gusti che hai!» sentenziò Alice.
«Avevo!- precisai io, maliziosa e poi aggiunsi –Mmm... quello lì deve essere il nuovo cameriere... sembra molto, molto carino...». E più che come cameriere, l’avrei visto come bagnino o fotomodello.
Angelica si voltò, furtiva. Una rapida occhiata e si rigirò verso di me, con un segno di assenso parecchio eloquente. Poi mi fece l’occhiolino, sussurrando: «Guarda e impara!».
Lo chiamò con un gesto della mano, un gesto che avrei definito piuttosto... felino.
«Non è che mi porteresti un cornetto da inzuppare nel mio cappuccino?». Alice ed Isabella scossero la testa, ed io non riuscivo a capire se fossero più disgustate o imbarazzate.
«Abbastanza grande,- aggiunsi io –così lo dividiamo...». La gamba sana di Alice non tardò a scalciare contro la mia. 
«Siete proprio squallide!» rise Isabella, mentre Ali non la smetteva di torturarmi.
«E dai! Si scherza!» mi scusai io, seriamente divertita.
Continuammo ancora a punzecchiarci per una manciata di minuti, finché le lancette dell’orologio non si avvicinarono all’ora x.
«Pronte?» mormorai poco dopo, davanti l’entrata della libreria. Un passo in avanti, e le porte scorrevoli si aprirono.
«Siamo nate pronte...» fu il loro coro di risposta. E certo che eravamo pronte. Aspettavamo quel giorno dal novembre dell’anno precedente, dall’ultima pagina del terzo libro della nostra saga preferita. Avevamo progettato mesi e mesi prima di saltare la scuola, per essere le prime ad avere il quarto ed ultimo capitolo tra le mani e per averlo insieme.
Ed eccole lì, pochi istanti dopo, le nostre quattro copie. Le guardavamo in silenzio, con gli occhi scintillanti, senza nemmeno la forza di parlare, con il desiderio di urlare di gioia.
Desiderio che fu esaudito, nel parcheggio semivuoto. 
 
Una volta a casa, prima di immergermi nella lettura, accesi il portatile per dare il “bentornato” anche alla mia voglia di scrivere. E mi misi a riflettere proprio sui silenzi. Il silenzio che mi aveva estraniata dal mondo, il silenzio che mamma e le ragazze avevano saputo interpretare ed accettare. Il silenzio a cui Alice era riuscita a mettere fine.
E pensai anche agli altri tipi di silenzi, compresi quelli che ancora non conoscevo. I silenzi che nei film d’amore precedono un bacio o seguono il sesso. Quei silenzi che ero così impaziente di scoprire.
 
Dicono che il silenzio sia d’oro. Ma cosa si nasconde, davvero, dietro delle labbra che non vogliono o che non riescono ad aprirsi?
Delusione, paura, ansia, desiderio. Oppure un fiume in piena, un discorso pieno di parole, una storia da raccontare  alla quale, però, non si riesce a trovare un punto di partenza.
Emozioni, attimi. Momenti che vanno vissuti con l’anima e con la pelle, piuttosto che raccontati verbalmente.

 
Ripensai all’urlo nel parcheggio del centro commerciale. Per me non era stata solo gioia, per me era stata liberazione. Definitiva e totale liberazione.
 
È vero, il silenzio può anche essere d’oro. Ma, talvolta, la parola- se detta dalla persona giusta -sa essere di platino.
Le urla, poi, che ti liberano e ti rilassano... beh, quelle sono addirittura tempestate di diamanti.
E si sa, i diamanti sono i migliori amici delle donne. 


**


Donnie loves you. Do you love Donnie? 
Hola bitches, eccomi qui, in ritardissimo con gli aggiornamenti come mio solito. Prometto che il sabato ed il martedì saranno dedicati all'aggiornamento di questa storia. Voi restate sintonizzati, vero? 
Ad ogni modo, il libro di cui si parla in questo capitolo è Breaking Dawn, un tributo a Stephenie Mayer ed al fatto che, all'epoca, pubblicai questa fanfiction proprio sul forum di Edward e Bella. 
xoxo 

 

  
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