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Autore: Aleena    28/09/2011    0 recensioni
Dal primo capitolo:
La sirena risuonò, rompendo il silenzio della notte.
Da qualche parte, una frenata brusca, un’imprecazione soffusa, dispersa dalla brezza marina.
Sola, guardavo il soffitto della mia stanza, contando i battiti che, dal cuore, mi rimbombavano nel cervello.
“Una non è nulla. Una non significa niente. Vedrai che smette, vedrai... è l’avviso, una tromba d’aria, un altro terremoto forse. Vedrai che smette, vedrai che smette”
Non ho mai saputo pregare; non c’era un luogo di culto qui in città, quasi nessuno era più devoto. Ormai, la ragione aveva avuto la meglio.
Questa è la nostra punizione, dicevano i Radicali.
Se è così è ingiusto, affermavo io.
“Una non è nulla” mi ripetevo senza convinzione. Pregavo, anche se non lo sapevo.
Genere: Fantasy, Slice of life, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lullabies'
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Quella notte piovve.
Troppo agitati per dormire, gli ospiti della colonia se ne rimasero distesi nei loro letti, consci che la fine era realmente iniziata, ora.
Non c’erano segni evidenti, né la pioggia sembrava diversa da quella che, per secoli, aveva bagnata Gaia; eppure, tutti parevano sapere. Percepire.
Nessuno mi chiese dove stessi andando. Scivolai fuori dal letto chiudendomi la porta alle spalle, ed entrai nella sala comune deserta, dove il rumore della pioggia era più intenso, il silenzio meno gravoso.
«Una parte di me desidera uscire, sentire qual è il tanto decantato odore della pioggia. Infantile ed inappropriato, non trovi?» disse una voce dal lato più scuro della stanza.
Lui era lì. Mi attendeva, come sapevo che avrebbe fatto.
Lasciai scivolare paura e pudore a terra assieme agli abiti, pensando che, se era la morte quella mi aspettava al varco, almeno l’avrei raggiunta senza il rimpianto di non aver mai provato.
Nessuno venne a disturbarci. Sapevamo che riti del genere si perpetravano ovunque ve ne fosse la possibilità, nella colonia. L’odore degli istinti penetrava l’aria, saturandola come un miasma antico, genuino.
Eravamo nel giusto.
 
Il giorno ci sorprese distesi, io nell’incavo delle braccia di Gabriel, stretti l’uno all’altra come se non avessimo niente altro al mondo.
«Non ti conosco che da un giorno» gli sussurrai contro il petto, sperando dormisse.
«È così per entrambi. Ma chi stabilisce quale sia il tempo giusto? Non può esistere alcun parametro logico e coerente che lo quantifichi con certezza. E qui… qui c’è il succo del mondo che ci ribolle intorno, veemente ed antico, più potente di quanto noi stessi possiamo solo tentare di immaginare. C’è Dio, se vuoi. E questa forza ci influenza, nonostante queste pareti, nonostante la scienza e la ragione. Non ne siamo immuni, non lo siamo mai stati»
«E questo cosa vuol dire, Gabriel?»
«Vuol dire che quando il tempo e lo spazio e la ragione stessa perdono di senso, come accade lì fuori, allora anche innamorarsi con uno sguardo è possibile. Allora anche legarsi per sempre, sentirsi parte di uno stesso destino e sapere che sarà così, e volerlo, e viverlo, è possibile. Possibile e giusto e vero. Mi capisci?»
Capivo.
Strinsi più forte a me Gabriel, e questo parve bastargli come risposta.
 
Ci rivestimmo con calma, quindi andai al mo cubicolo, davanti al quale sorpresi mia sorella legata per le labbra al figlio dei Dickens. Sorrisi e passai oltre, muovendomi in punta dei piedi per non svegliare mia madre, mio padre e mio fratello. Presi la borsa e tornai alla sala.
Gabriel se n’era andato, ma non me ne preoccupai più di tanto: sapevo dov’era, avrei potuto perfino dire cosa stesse facendo.
Quel clima apocalittico ampliava le mie percezioni, rendendomi più nitida e palese ogni cosa. Avvertivo il suono di una lite al pianterreno, il disappunto di uno stalliere che si accingeva alla seconda mungitura della mattinata, le vibrazioni di paura ed aspettativa.
Aprii la borsa ed accesi il pc.
Era un vecchio modello, privo del trasformatore necessario per alimentarlo con le batterie chimiche d’ultima generazione. Andava a corrente, ed era lento, di qualità inferiore come confort e schermo, senza parlare dei programmi; eppure, per me aveva un fascino che trascendeva ogni cosa, rendendomi impossibile cambiarlo con qualcosa di più moderno.
Volevo scrivere –tenevo un diario elettronico che aggiornavo di tanto in tanto- ma qualcosa attirò la mia attenzione, un impulso repentino.
Accesi il dispositivo di chat e sorrisi fra me e me della mia ingenuità.
Non c’era segnale di rete, non avrebbe potuto esserci con tutti i ripetitori fiori uso.
Eppure, qualcosa apparve sul mio schermo.
“Salve”
Rimasi a fissarlo come in trance, muovendo il cursore col touchpad verso l’indicatore di linea. Nulla.
Il mio cuore perse un colpo.
“Ci sei?” apparve di nuovo, come a dirmi che si, era reale. Istintivamente, controllai il livello della batteria. Nove ore di autonomia, tipico dei vecchi modelli.
«Ci sono» scrissi in fretta, e quindi «Sei uno della colonia? Come fai a collegarti? Avete ripristinato la rete qui dentro?»
“Colonia?”
«Si. Io sono all’ultimo piano, proprio sotto il tetto. Tu dove sei?»
“Sulla spiaggia”
Aggrottai la fronte, contraendo le sopracciglia.
«Dì sul serio. Non mi va di sprecare batteria. Dimmi da dove trasmetti»
“Dalla spiaggia, te l’ho detto”
«Non è possibile. Nessuno è rimasto fuori, morirebbe. Ed in ogni caso non potresti trasmettere, non qui dentro. Siamo schermati. Dove sei?»
“Sulla spiaggia”
«Se sei davvero sulla spiaggia, allora dimmi com’è la fuori» scrissi, sentendo la rabbia montarmi dentro. Non avevo mai sopportato d’essere presa in giro.
“Piove, ma le gocce sono calde. Sembra un temporale estivo, sai, di quelli che ti bagnano completamente nel giro di qualche istante ma che sono delicati sulla pelle, quasi che ogni goccia sia il tocco di un dito gentile. La sabbia è dura, compatta, ed il mare ruggisce alle mie spalle, arrivando ogni tanto a bagnarmi i piedi. Sono scalza, mi piace la sensazione dell’acqua fredda, è… viva. Come non lo è stata da una vita. C’è un odore meraviglioso, puro e ricco ad un tempo. Non vorrei essere in nessun altro posto, ora”
Lessi quelle parole tutto d’un fiato, chiusi gli occhi e le ripetei nella testa. Potevo vederla, e questo mi spaventò.
«Hai una giacca nera, lunga fino alle caviglie, che lasci slacciata. È rovinata, ma non te ne curi. Ti piace, in realtà, ha l’aria vissuta e ti rende più vecchia di quello che in realtà non sei. Sotto, indossi jeans sporchi di sabbia ed una camicia legata poco sotto il seno. Hai capelli neri e corti e le orecchie… no di quelle non posso parlare, né delle tue mani, né dei tuoi piedi, ma so come sono»
“Lo so”
«Ho indovinato?»
“Potrei dirti qualunque cosa, lo sai. E tu, crederesti comunque a quello che vuoi credere”
«A cosa voglio credere?»
“A quello che sai”
Quasi senza accorgermene, annuì, come se lei potesse vedermi. Poi mi sentii chiamare.
“Ci sentiremo ancora?” mi scrisse. Non risposi. Chiusi schermo e conversazione, voltandomi verso mio fratello, che festoso mi chiedeva cosa facessi.
Risposi che scrivevo, non mentendo in fondo. Omisi a chi, né lui me lo chiese.

Andammo a pranzo, e per un po’ dimenticai.
  
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