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Autore: LadyNorthstar    11/06/2006    1 recensioni
Deatheaters e Auror, Luce e Tenebre... ma non è forse vero che nelle tenebre c'è sempre un po' di luce? Che succederebbe se un Auror scoprisse il lato umano di coloro che ha sempre creduto incarnazione del male puro? [Personaggi Originali]
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico, Erotico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The Wind’s Whisper Between Violin’s Strings

Autore: LadyNorthstar

Serie: Harry Potter

Raiting: R

Genere: Angst, Oneshot

Personaggi: Originali, Dumbledore, Rosier

Note: la ficci è ambientata durante il primo periodo del Terrore di Voldy, più o meno l’anno dopo l’uscita dei malandrini da Hogwarts

Leonidas non poteva fare a meno di badare ai suoi capelli. Erano la sua unica, vera, incrollabile ossessione.

Sia che avesse fatto la doccia, sia che avesse appena finito di fare sesso, sia che stesse parlando con un superiore, sia che stesse ascoltando il violino di John seduto sul davanzale della squallida stanza dove s’incontravano, persino se avesse appena finito di battersi con un Ungano Spinato (John n’era certo), in qualsiasi situazione si trovasse o qualsiasi cosa facesse, la prima cosa a cui Leonidas badava era sistemarsi in un’ordinata coda bassa i lunghi capelli scuri. Ed era inutile dire che John trovava questa sua mania assolutamente adorabile.

“Se devi sempre metterli a posto perché non li tagli?” gli domandò, per provocarlo.

Il giovane, che era come al solito accovacciato sul davanzale, con addosso l’abito della festa, della loro festa, si voltò verso di lui, rimproverandolo con lo sguardo.

“Non domandare se sai già la risposta…”

Leonidas si alzò. Il suo corpo giovane era snello, i muscoli ben definiti, ogni particolare del suo fisico era reso ancora più perfetto dalla luce lunare che entrava dalla finestra, e che rendeva nette e scure le ombre. John gli si avvicinò, col solito impacciato imbarazzo: in confronto a quel ragazzo lui sembrava una specie di Troll biondo… non poteva fare a meno di sentirsi un po’ stupido. E immensamente fortunato, si… anche quello.

Decise che aveva voglia di provocarlo, dopotutto avevano ancora mezz’ora a disposizione, fare innervosire Leonidas poteva essere un ottimo modo per passare il tempo. Adorava quando metteva il broncio.

“E invece continuerò a chiedertelo, e chiedertelo, e chiedertelo e…”

Venne interrotto. Le labbra del ragazzo sulle sue gli impedirono di continuare.

“Vuoi ancora continuare?”

Leonidas lo fissava coi suoi sottili e affilati occhi color argento. Quegli occhi così colmi di rimorso e morte da farlo stare male.

“A fare cosa?”

Un sorriso, un sorriso appena accennato. Una mano sul viso dell’uomo.

Ci fu qualche istante di silenzio, poi John decise che doveva provarci… si, doveva, non poteva fare a meno di desiderare di ricevere una risposta affermativa.

“Leon…”

“Si?”

“Devi mollare….”

Il ragazzo scosse la testa. Un altro no.

“Lo sai che non posso farlo… e poi se mi costituissi finirei ad Azkaban…”

“No! È da più di un anno che mi passi informazioni, capiranno, non ti condanneranno!”

“Quanto sei ingenuo, John… tra i due dovrei essere io il ragazzino, ricordi?”

Leonidas gli carezzò il viso imbrunito da un inizio di barba, poi passò un dito sul suo labbro inferiore, e lo baciò ancora. Un bacio di miele, un bacio d’assenzio.

Le braccia di John si strinsero attorno al busto del ragazzo, i loro corpi nudi e a contatto pulsavano, desiderosi di un contatto che non avrebbero potuto avere. Non in quel momento.

Le loro labbra si separarono a malincuore. Gli occhi grigi come la roccia e quelli bruni come il legno si esplorarono a vicenda, poi anche le braccia mollarono la presa. Era ora di andare.

Non si scambiarono una parola mentre si rivestivano, non un fiato o una sillaba. Solo il violino di John, appoggiato sul letto, produceva di tanto intanto un leggero sussurro, quando il vento ne attraversava le corde.

Solo quando il giovane dai capelli bruni ebbe ripreso possesso della sua bacchetta parlarono.

“Leon, non farti ammazzare… stupido Deatheater”

“Neppure tu, stupido Auror scavezzacollo…”

Un altro sorriso appena percepibile sulle labbra del ragazzo, poi questi si Smaterializzò.

John rimase solo nella stanza, solo a fissare lo spazio vuoto nel quale fino ad un istante prima si trovava la cosa più preziosa della sua vita… un qualcosa che rischiava di vedere morire davanti ai suoi occhi ogni volta che usciva per una retata. Non riusciva a sopportare quella situazione, non ci riusciva più.

L’aveva conosciuto un anno e mezzo prima, quando era in missione in incognito a Cork, in Irlanda, dove si diceva fosse attiva una cellula di Deatheater che stava preparando un attacco contro i Babbani. L’aveva notato subito: un ragazzo introverso e sfuggente che alloggiava nella stanza accanto alla sua nella locanda del Crotalo Rampante e che passava ore alla finestra che dava sulla strada ad osservare i Babbani con uno sguardo strano… aveva capito subito da che parte stava. E aveva deciso di usarlo per carpire informazioni, di farselo amico.

Si erano parlati per la prima volta qualche notte dopo il suo arrivo. Leonidas era al balcone come al solito, a fissare la folla, e si passava distrattamente le dita sull’avambraccio, laddove John sapeva benissimo che si trovava il Marchio. L’Auror si era affacciato anche lui, e lo stava fissando, ma il ragazzo sembrava non essersene accorto… anche se dopo cinque minuti nei quali John non aveva staccato per un istante gli occhi dalla vistosa cicatrice verticale che solcava l’occhio sinistro del Deatheater, quello lo aveva degnato della sua attenzione.

“Che c’è?”

Aveva un tono seccato, diffidente.

“Nulla… mi stupisce solo vedere una cicatrice così vistosa su un viso così giovane…”

“Siamo in guerra, non credi che ci siano tutti i presupposti per procurarsene una?”

“Qua la guerra non c’è…”

“Difatti sono in una locanda perché non sono di qua..”

Risposte seccate, taglienti, intelligenti… il ragazzo lo intrigava, nonostante fosse assurda anche solo l’idea di farsi coinvolgere con un nemico.

“Come ti chiami?”

“Perché lo vuoi sapere?”

“Così, per conversazione! Hai la coda di paglia, eh?”

John sorrise, come faceva di solito. Tutti lo ritenevano un uomo più che gioviale, ed, in effetti, era vero… una persona allegra che amava diventare allegra.

“Leonidas Goat… e tu?”

“Io sono John… John Bonden…”

Aveva mentito sul suo cognome, com’era ovvio che facesse. Non si sapeva come, ma sembrava che i Deatheater conoscessero i cognomi d’ogni Auror in circolazione.

“Come mai sei qui?”

Come una persona dall’apparenza così riservata fa una domanda del genere? Pensò John. Forse sospettava…

“Come ho detto prima, qui la guerra non c’è…”

“Arriverà, stanne certo…”

Era certo di aver visto un riverbero di tristezza nei suoi occhi.

“Come mai ne sei così sicuro?”

Il ragazzo non rispose, si limitò a sorridere sforzatamente. Poi si slegò le chioma scura e si rifece la coda, raccogliendo con cura i capelli.

John fu incuriosito da quel gesto così umano… tutti incappucciati e mascherati i Deatheater gli erano sempre sembrati più mostri che esseri umani come lui.

“Vuoi venire qua da me? Almeno chiacchieriamo senza prenderci una polmonite…”

Fuori il vento gelido soffiava già da qualche minuto, e il ragazzo non ci pensò molto prima di accettare.

“Va bene… ma non starò molto…”

Lo vide sparire dentro alla stanza e pochi istanti dopo sentì bussare alla sua porta, la aprì e lo fece accomodare. Leonidas si attrespolò sullo scrittoio, seduto con le gambe a penzoloni.

“Le sedie non sono di tuo gradimento?”

“Preferisco stare così…”

Avevano parlato di cose più o meno stupide per molto, probabilmente ore. E neanche per un secondo era riuscito a considerarlo uno dei nemici, un seguace di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato… quando riuscì a realizzarlo si sentì quasi spaventato. E Leonidas sembrò accorgersi del cambiamento d’espressione.

“Che succede? Stai male?”

“No, nulla…”

“Sicuro?”

John annuì. Poi si alzò e aprì l’armadio, tirandone fuori un mantello.

“Fa solo freddo…”

Leonidas si era sporto a guardare nell’armadio, forse perché voleva vedere controllare se c’era qualcosa che poteva ricondurlo a capire chi era quel tale, ma vide qualcosa che gli fece sgranare gli occhi.

“Che c’è?” questa volta di John a chiedere.

“Quello è… un violino?”

“Si…”

“Lo sai suonare?”

“Perché dovrei portarmi dietro un violino se non lo sapessi suonare?”

Il ragazzo s’illuminò letteralmente in volto e, per la prima volta nel corso della loro chiacchierata, sorrise davvero.

“Suoneresti qualcosa per me?”

John rimase di sasso: quello era troppo. Quel ragazzo aveva Schiantato la Pietra di Volta delle sue convinzioni sui Deatheater.

“Qualcosa tipo..?”

“Vivaldi... conosci qualcosa di Vivaldi?”

Leonidas era eccitato come un bambino e John stralunato come pochi… dopo aver assorbito il colpo annuì.

“Certo, certo, aspetta solo un secondo che lo accordo…”

Aveva suonato per tutta la notte, con il Deatheater accucciato accanto a lui che lo ascoltava rapito, e dopo quella nottata il ragazzo era venuto tutte le notti per una settimana. Ma poi successe qualcosa.

John stava impeciando le corde del suo strumento quando il ragazzo era irrotto nella sua stanza con la bacchetta in mano e gli occhi lucidi di lacrime.

“Leonidas, che…”

“Taci, bastardo!”

Aveva schiantato una sedia a meno di mezzo metro dalla sua gamba. Ancora prima che tutte le schegge fossero cadute sul terreno John già impugnava la sua.

“Che diavolo hai?”

“Zitto, bastardo di un Auror! Bugiardo! Ingannatore! Che tu sia maledetto!”

Leonidas gridava, e intento cercava di trattenere le lacrime, che però fuggivano veloci lungo le sue guance.

“Ora calmati Leonidas, metti giù la bacchetta…”

“No!” ora la puntava alla testa dell’uomo “No, non la metterò giù: mi hai ingannato, volevi solo spiarmi… e io che ti credevo mio amico…”

“Non è così Leon, io non sono venuto per te, non sapevo neppure che eri un Deatheater… ora calmati!”

John non sapeva che fare. Non si era mai sentito smarrito in una situazione del genere, fino ad una settimana prima l’avrebbe immobilizzato o Schiantato senza tanti problemi. Ma ora non ci riusciva.

“Calmarmi e poi? Poi mi farai sbattere ad Azkaban!”

“No! Non ti ho visto fare nulla di male, non avrei ragione di farlo!”

Ma che sciocchezze stava dicendo? Era un Deatheater, era un assassino senza scrupoli, aveva sicuramente fatto qualcosa di male… anzi, molto di male. Si, era un mostro come tutti gli altri, era solo uno di quei bastardi! Era pure stato uno Slytherin ad Hogwarts (si era fatto mandare delle informazioni dalla Base), non poteva essere una brava persona, nonostante lo sembrasse!

Se n’era quasi convinto, stava per usare la bacchetta, quando Leonidas fece cadere a terra la propria.

Era immobile, al centro della stanza, con lo sguardo basso. John gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla.

“Non voglio morire…”

“Non morirai…”

Si erano abbracciati forte, mentre l’odore di sudore e di paura che trasudavano i lucidi capelli del giovane gli impregnava le narici, poi, non sapevano neppure loro come, si erano ritrovati nel letto, sotto le lenzuola, a scambiarsi baci disperatamente appassionati, carezze, gemiti… e così si erano trovati indissolubilmente legati.

Da quel momento Leonidas era divenuti il suo informatore: gli passava indizi sommari e spesso incompleti di azioni, per metterlo sulla strada giusta, ma non gli aveva mai fatto un nome né detto qualcosa di preciso: non avrebbe mai tradito i suoi amici e i suoi compagni, non fino a quel punto. Si vedevano una volta a settimana, con la scusa delle informazioni, sempre in luoghi diversi, e allora John suonava per il ragazzo, si amavano, parlavano, stavano in silenzio. Quando chiudevano la porta della loro stanza la guerra, i nemici, i morti restavano tutti fuori… il loro giorno insieme era la loro Zona Franca.

Dopo l’ennesimo tentativo di John di convincere Leonidas a costituirsi l’uomo non riuscì più a contattare il ragazzo per quasi tre settimane. E la sua agitazione doveva notarsi alquanto, perché i suoi compagni non facevano altro che chiedergli se andasse tutto bene.

“Si, si, tutto a posto! Ho solo qualche problema con un informatore…”

Ogni volta che arrivavano rapporti sulle vittime degli scontri con i Deatheater John vi si fiondava come un fulmine, sfogliandoli febbrilmente, alla ricerca del suo nome. Ma fortunatamente non lo aveva trovato

Poi lo trovò nel salotto di casa sua, una sera, tornando da una riunione al Quartier Generale.

“Leonidas!”

Gli si era avventato sopra, stringendolo a se con quanta forza era capace. Ma quando si era accorto che il corpo della ragazzo era immobile come una marionetta dai fili tagliati aveva allentato la presa.

“Leon, cosa è…?”

Non riuscì a finire di parlare. Una lama gelida conficcata nel suo fianco glielo impedì.

“Leon…”

Cadde in ginocchio, con gli occhi fissi sul ragazzo, che lo fissava con aria vacua, con un’espressione che conosceva fin troppo bene. Maledizione Imperius.

“Merda….”

L’Auror sfilò il pugnale con uno strattone e si tirò a fatica in piedi, con la mano pronta sulla bacchetta.

“Leonidas, smettila…”

Il ragazzo non rispondeva, bacchetta in mano. Nulla, neppure un segno di reazione. E John sapeva che c’era una sola cosa da fare.

“Expelliarmus!”

La bacchetta del giovane volò via, scaraventata dall’altra parte della stanza, e lui cadde. E l’Auror non trovò nessun’idea migliore per cavarsi dall’impiccio che rifilargli un destro in volto.

Leonidas barcollò e cadde, privo di sensi: se John traeva qualche vantaggio dalla sua costituzione non esattamente magra era di certo in potenza.

L’uomo rimase a fissare per qualche istante il ragazzo, mentre il suo cervello veniva assalito da una quantità di impulsi impossibile da sopportare: scappare, imprigionarlo, restare, farlo fuggire, vendetta, perdono, odio, amore.

Si chinò sul corpo esanime e lo prese in grembo. I lunghi capelli scuri ricadevano spettinati sul viso disteso del ragazzo.

“Sono sicuro che la prima cosa che farai da sveglio sarà metterli a posto, Maledizione Imperius o no…”

Aveva gli occhi lucidi: era conscio del suo dovere, ma non aveva il coraggio di farlo, non a lui. Amava quel ragazzo, non poteva fargli questo.

Lo prese tra le braccia, a peso, e lo portò fuori, adagiandolo in un vicolo… nessuno lo vide, a quell’ora non un’anima osava aggirarsi per le strade. Poi si Smaterializzò.

Si Rimaterializzò alla Base, collassando a terra nel lago del proprio sangue. Sentiva voci intorno a se, distingueva colori, ma nessuna forma, nulla di preciso. Poi tutto svanì.

Quando si svegliò c’era una figura familiare al fondo del suo letto.

“Professor Dumbledore, che piacere vederla…” biascicò l’uomo, accennando appena un saluto con la mano. L’altro sorrise bonario e ricambiò il saluto.

“Sono contento che tu stia meglio John Nicolls... scusa se sono rude, ma vorrei sapere cos’è successo…”

John annuì. Si tirò a sedere e cominciò a parlare.

“Il mio informatore mi ha attaccato sotto effetto della Maledizione Imperius…”

“Il tuo informatore?”

“Si, Le…” non riuscì a finire di pronunciare il suo nome. Una sensazione simile ad una pugnalata lo trafisse mentre il viso sorridente del ragazzo gli tornava in mente, potente e malvagio… che ne era di lui?

“John, il nome dell’Informatore…Le-cosa?”

Dumbledore parlava con tono calmo, accomodante, e riuscì a calmarlo un minimo. Ma non abbastanza da allontanare quel dolore da lui.

“Leonidas, Leonidas Goat… era ad Hogwarts, era un suo allievo…”

“Si, lo ricordo.. occhi di ghiaccio e un talento incredibile in Trasfigurazione…”

Le labbra di John si incresparono verso l’altro: Trasfigurazione… ogni tanto Leonidas si divertiva a tramutare oggetti della stanza in cui soggiornavano in copie del suo violino, e lo sfidava a trovare il vero… e capitava che le copie fossero così perfette da renderle quasi indistinguibili dall’originale.

“Da quanto tempo era tuo informatore?”

“Un anno e mezzo, ormai… devono averlo scoperto…”

Il vecchio mago annuì. Poi fissò l’uomo.

“Se riuscissimo a trovarlo potremo cercare di farlo tornare normale… metterò in moto qualcuno per cercarlo. Mi dispiacerebbe che un così bravo giovane morisse durante uno scontro senza averne colpa”

John non poteva credere alle sue orecchie: l’avrebbe aiutato! Avrebbe aiutato Leonidas! Forse non era tutto perduto, forse…

“Non appena starò bene… non appena starò bene voglio cercarlo…”

Dumbledore asserì col capo .

“Certamente, intanto io avvierò le ricerche… ora pensa solo a riposarti, è un peccato perdere Auror validi come te per lunghi periodi, specialmente ora che c’è tanto fermento”

John non ebbe bisogno di rispondere, e il mago uscì dalla sua stanza. Ma non appena fu solo i ricordi gli crollarono in testa come una cascata di macerie: il volto di Leonidas, le sue labbra, i suoi occhi grigi come lame, i suoi silenzi, i suoi sorrisi appena accennati, la sua risata, le sue dita, i suoi capelli, i suoi gesti, il suo modo di sedersi e di camminare, il suo respiro, il suo odore… tutto, tutto insieme, un doloroso, dolceamaro macigno. E la sua determinazione diventò imperativo: doveva trovarlo, doveva salvarlo.

In meno di tre giorni era di nuovo in piedi e in azione, e si era gettato subito anima e corpo nella ricerca del suo giovane amante, ma neppure un segno: erano passati mesi, e nessuno sembrava sapere dove egli fosse.

Intanto la guerra si era fatta più aspra, le azioni dei Deatheater meno occulte, la propaganda di Voldemort più sentita, e il lavoro aveva tamponato il vuoto lasciato da Leonidas. Ma aveva scoperto di non essere più capace di sfiorare neppure le corde del violino.

“Lo tengo in serbo per quando tornerai…” aveva sussurrato una volta alla luna, malinconico.

E così, tirando avanti sospinto dalle responsabilità e dal dovere più che dal desiderio di lottare, aveva continuato il suo lavoro di Auror, aveva fatto indagini e catturato Deatheater, ne aveva anche uccisi due. E quella sera era una delle tante missioni di routine, in uno di quei tetri posti che sembravano somigliarsi troppo tra di loro.

Una fonte li aveva avvertiti che ci sarebbe stato un piccolo summit di Deatheater di zona in un paesino in provincia di Londra, in un vecchio monastero abbandonato, e che probabilmente ci sarebbe stato qualche pezzo grosso… si vociferava che avrebbero persino potuto mettere le mani su un Malfoy.

I suoi compari erano più che su di giri, alla prospettiva del colpaccio che avrebbero messo a segno, anche John si era fatto trascinare dai festeggiamenti anticipati, ed erano tutti giunti al monastero di umore più che ottimo, senza farsi scoraggiare neppure dall’imponente mole della costruzione, che dava l’impressione di essere più intricata del labirinto del Minotauro. Avevano strisciato contro i muri per parecchi corridoi e Pietrificato tre Deatheater di ronda (ulteriore conferma che stava succedendo qualcosa), e alla fine erano giunti all porta che portava in quello che una volta era stato il salone principale, ma che ora era un covo di leccapiedi di Voldemort. Il morale era alle stesse.

“Al mio tre entriamo e non risparmiate incantesimi, ok? Abbiamo la Licenza di Uccidere per questa missione…” sillabò il loro capo. Tutti annuirono e, mani alle bacchette, si tennero pronti: 10 Auror con l’adrenalina a mille e con l’incantesimo facile… John si sentiva quasi ringiovanito di una decina d’anni.

Il capo sillabò il conto alla rovescia: uno…due…tre!

I primi venti secondi furono solo un saettare di luci e trambusto, non erano riusciti a capire neppure quanti erano i loro avversari, poi le nubi di polvere si erano diradate e la scena si era delineata davanti ai loro occhi: sette Deatheater a terra, nove in piedi.

“All’attacco!” aveva tuonato il loro capo, con fare da condottiero babbano (era un mezzo babbano amante dei film di guerra, e tutti erano a conoscenza della sua passione per le frasi ad effetto) e si erano scagliati contro i loro avversari, ingaggiando subito furiosi duelli, mentre l’ultimo di loro Pietrificava i tramortiti per evitare che dessero problemi. Le bacchette si sfioravano, in piogge di scintille, l’adrenalina saliva, la ragion spariva: c’era solo la furia animale dello scontro, per John quanto per gli altri. Ma poi accadde qualcosa.

La coda dell’occhio dell’Auror carpì qualcosa alla propria destra, qualcosa che mai si sarebbe aspettato di vedere, e quando si voltò verificare se era impazzito o no per un istante smise di respirare: Leonidas!

Il ragazzo stava duellando con il loro capo, la sua maschera da Deatheater giaceva a terra, frantumata, e il sangue gli colava dalla fronte. Però era lui, era il suo Leonidas!

Schiantò il suo avversario, facendolo atterrare dall’altra parte del salone, e si lanciò di corsa vero i duellanti.

“LEONIDAS!” il nome del ragazzo uscì dalle sue labbra simile ad un ruggito, ma il giovane Deatheater sembrava non essersene accorto. E John correva, deciso a fermare il suo capo, deciso ad impedire che lo ferisse ancora.

“Reevs, non ammazzarlo! È sotto Imperius!” gli sbraitò, ma la sua voce non riusciva a superare il frastuono della stanza, e i duelli cominciavano a finire, alcuni non positivamente per loro. Macchie rosse scorrevano agli estremi del suo campo visivo, ma l’unica cosa che gli interessava era Leonidas.

Raggiunse il capo, Reevs, gli afferrò il braccio, mentre quello stava puntando la luce mortale di un Avada contro il ragazzo.

“Che fai?!?”

“Fermo, non lo devi ammazzare!”

Leonidas era indietreggiato di un passo, stranito, ed un suo compagno aveva notato l’eccessiva calca di Auror.

“Avada Kedavra!”

“NO!”

Il lampo era diretto a John, ma non lo raggiunse. E l’uomo trovò Leonidas tra se stesso e il sortilegio mortale.

“Leon…”

Il giovane si voltò un istante, e i suoi occhi sembrarono riprendere vita, quella vita toltagli dall’Imperius. Le sue labbra sillabarono due parole. Poi crollò.

“NOOOOOOOOOOO!”

Il grido di John scosse il cielo, lacerò la sua gola fino a farla sanguinare, lacerò la sua anima. L’uomo cadde in ginocchio accanto al copro del ragazzo, a quel corpo senza vita. Non l’aveva salvato, non l’aveva salvato!

Con le mani tremanti lo afferrò e lo strinse a se, al suo petto, cullandolo, mentre le lacrime trattenute fino a quel momento sgorgavano senza ritegno, mentre tutti intorno a lui continuavano a tentare di uccidersi: non gli interessavano le altre morti, non gli interessava nulla. Leonidas era morto, era morto!

Carezzò i capelli scuri, facendoli scorrere tra le dita, poi sciolse il nastro che teneva la coda del ragazzo e la ricompose, ordinata e perfetta come lui voleva sempre che fosse, mentre intorno a lui le grida e i rumori cominciavano ad attutirsi e gli ultimi Deatheaters cadevano.

Sentiva la presenza dei suoi compagni intorno a se, ma non gli importava.

“Leonidas…”

Il corpo del ragazzo era gelido, rigido, ormai non era che carne… e non aveva potuto salvarlo! Lui glia aveva detto che non voleva morire ed ora era morto per salvarlo!

Come avrebbe fatto a continuare a vivere? Come avrebbe fatto?

Per due giorni John non parlò con nessuno, ne lasciò che nessuno si avvicinasse a lui, neppure la sua amata sorella minore: da quando era tornato si era chiuso nella sua stanza col corpo del ragazzo e non aveva smesso un istante di suonare il violino, neppure per un secondo. Le sue dita grondavano sangue ma lui non smetteva.

Poi all’improvviso la musica cessò, e l’uomo comparve, con il corpo di Leonidas in braccio.

“Voglio seppellirlo come si conviene all’eroe che era, e non mi interessa cosa dite: io lo farò”

Nessuno osò obbiettare: erano troppo sconvolti nel vedere quell’uomo solitamente sempre allegro e festoso in uno stato del genere per muovere obiezioni.

John mandò un gufo ai genitori di Leonidas, per scoprire che essi avevano ripudiato “quel cane di un Deatheater”, quindi si era diligentemente informato su chi erano i suoi amici ai tempi della scuola e li aveva avvisati.

Il giorno del funerale c’erano solo lui, Dumbledore, e tre ragazzi che sembravano avere tutti e tre l’età che aveva Leonidas. John non aveva parlato per il suo amante, non sarebbe stato capace di trovare le parole, l’aveva fatto il professore per lui, poi aveva espresso i suoi sentimenti a modo suo: un Requiem suonato davanti alla tomba di quel giovane da lui tanto amato, graffiando le corde del violino come fossero quelle del suo cuore distrutto. Uno dei tre ragazzi aveva pianto.

Quando tutto fu finito rimase in piedi davanti alla lapide, assolutamente incapace di staccarsene… e il ragazzo che aveva pianto gli si avvicinò.

“Ciao…” cominciò il giovane, senza aspettarsi risposta, che infatti non arrivò “io… io sono Evan Rosier, ero un suo amico…” sopirò “senti… volevo ringraziarti per quello che hai fatto: è difficile che uno di noi venga seppellito come si deve una volta giustiziato...”

John si voltò a guardare il ragazzo che gli stava parlando: era secco e alto, con i capelli disordinati e castani e gli occhi screziati d’oro.

“Il peggio in tutto questo è che è stato uno di noi ad ucciderlo, uno di quelli che erano i suoi compagni…”

“No, non è stato uno di voi”

Rosier fissò l’uomo, con aria stupita.

“La guerra la ucciso, quella stessa guerra che ucciderà anche te, e me, e tanti altri…”

“Già, la guerra… purtroppo non si può ammazzare la guerra…”

“No, non si può…” John sospirò e tirò fuori la bacchetta dalla tasca, quindi la porse a Rosier “Temo di non avere il coraggio di farlo da solo… potresti…?”

Il ragazzo annuì.

“Ci vediamo all’inferno, amico… salutami Leonidas”

“Lo farò… buon proseguimento di guerra, Evan Rosier, ti auguro di vederne la fine”

“Buona fine di guerra, John Nicolls, ti auguro di essere felice almeno di la”

“Lo sono stato felice, di qua, con lui… questo mi basta…”

“Allora, addio…”

Occhi negli occhi, un abbozzo di sorriso, una lacrima, un fascio di luce.

“Avada Kedavra!”

Nulla, più nulla, silenzio, solo i sussurri del vento tra le corde del violino.

  
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