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Autore: likeasong    02/10/2011    4 recensioni
Sophie non aveva mai pensato al suo futuro, semplicemente considerava che quello fosse già stato deciso: lei era nata per seguire le orme della madre. Tutti glielo ripetevano, tutti sembravano crederlo sul serio, tanto che lei aveva finito per fidarsi e impegnarsi per riuscirci. Sophie, presa dal lavoro, forse non capisce che si sta dimenticando di qualcosa, o di qualcuno.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I
Camera Numero 16

 
«Devi prenderla.»
«No.»
L'infermiera la guardò severamente nei suoi occhi verdi per alcuni secondi e alla fine si arrese: allungò la mano per prendere tra le dita la piccola pillola bianca che la paziente le stava porgendo. Esitò un attimo davanti al letto, ma poi uscì dalla stanza.
Fuori nel corridoio -come al solito- la aspettava seduta la figlia della direttrice. Quest’ultima, quando sentì la porta aprirsi, alzò lo sguardo e senza scambiare alcuna parola, annuì.
Tirò fuori dalla tasca del camice bianco della mamma –forse ancora troppo lungo per lei- una caramella gommosa e la spacchettò. Come un automa, l'infermiera le porse la pillola e se ne andò lungo il corridoio, per l'ultimo controllo prima del cambio notturno.
La giovane, rimasta sola in quello spazio asettico illuminato della triste luce dei neon, confezionò un semplice inganno, spingendo la pillola all'interno del dolciume e richiudendola nella sua carta di plastica.
Socchiuse lentamente la porta della camera numero 16 e gettò una rapida occhiata alla stanza. Era arredata con il minimo indispensabile per la sopravvivenza: un letto a una piazza, dal materasso troppo duro e dalle lenzuola altrettanto scomode -considerato che l'azienda che le lavava in blocco non era a conoscenza dell'esistenza degli ammorbidenti-, un piccolo comodino di legno con un abajur di un rosa delicato posato sopra e un armadio di un finto legno scuro con due ante, che faceva passare la voglia di comprare nuovi vestiti o anche solo di riporli.
Non aveva mai amato né quelle disposizioni, né la totale impossibilità di poter arredare le stanze con il gusto dei pazienti: in fondo dovevano passare diversi mesi tra quelle mura.
Un leggero colpo di tosse la riportò alla realtà, lontano dai suoi pensieri, e la sua attenzione fu richiamata dall'esile figura che stava seduta sul bordo del letto. Si avvicinò a lei e si sedette accanto: il cigolio soffocato delle reti di ferro risuonò più forte del dovuto nel silenzio che pesava su quella camera.
«La direttrice ti manda questo, perché oggi hai seguito alla lettera tutti i consigli delle infermiere.»
La giovane ragazza la prese senza sbattere ciglio e la poggiò sopra il comodino.
«Ringraziala.» si limitò a dire, fissando un punto indefinito nel vuoto muro color verde acqua di fronte a lei, mentre con una mano si torturava un bottone della camicia da notte a righe.
«Lo farò se la mangerai. Dice che hai bisogno di zuccheri: non esiste niente di più zuccherato di quella caramella.» cercò di sorriderle, sforzatamente.
La paziente alzò le spalle e, finalmente, la portò alla bocca.
«Sono stanca, voglio dormire: oggi ho fatto davvero tanto.» Così dicendo si mise sotto le coperte, portandosi il lenzuolo fin sopra al naso.
La figlia della direttrice si avvicinò e le accarezzò la fronte. Il suo tocco morbido fece socchiudere gli occhi alla giovane ragazza coricata nel letto.
«Sophie,- sussurrò, continuando a tenere gli occhi chiusi; esitò un attimo, ponderando le parole da usare. -che cosa si prova ad essere normali?»
La risposta non arrivò subito.
«Non lo so,Lottie,- sospirò –non lo so.»
Anzi, la risposta non arrivò mai.
 

***

 
Sophie appese il camice bianco sull’appendiabiti nero dello spogliatoio di sua madre. Si lavò con calma le mani nel piccolo lavandino in ceramica, per poi alzare lo sguardo e incontrare il proprio riflesso nello specchio.
Si passò una mano fredda e bagnata sulla guancia e seguì il profilo del proprio viso. Non dimostrava la sua età, ma mai questo era stato possibile: fin da quando era solo una neonata, aveva passato più tempo fra quelle mura che in quelle della sua vera casa. Nello stesso periodo in cui aveva capito la differenza tra l’essere maschio e l’essere femmina, aveva imparato che il dolore affligge più persone di quando sia immaginabile e che esso, quando si presenta, può essere devastante. Come quella signora ricoverata nel loro istituto, che disperata per la morte del figlio, non aveva più toccato cibo e la sua mamma aveva dovuto chiamare una di quelle macchine dell’ospedale che suonano forte in mezzo al traffico quando c’è qualcosa che non va per portarla via: nessuno l’aveva più rivista. E, mentre a scuola imparava concetti filosofici e i maschi le facevano la corte con bigliettini nascosti dentro il suo armadietto, ogni pomeriggio studiava i libri universitari della madre all’ombra del salice piangente nel giardino dell’istituto.
Sospirò.
E se tutto fosse stato vano?
Sophie non aveva mai pensato al suo futuro, semplicemente considerava che quello fosse già stato deciso: lei era nata per seguire le orme della madre. Tutti glielo ripetevano, tutti sembravano crederlo sul serio, tanto che lei aveva finito per fidarsi e impegnarsi per riuscirci.
Prese la borsa e uscì, non prima di aver lasciato alla madre un post-it: “Tutto come al solito. Se puoi, domani ne vorrei parlare con te.”, scrisse con la sua grafia sinuosa e lo lasciò attaccato all’armadietto. Non vedeva la madre da due settimane, perché si era recata ad una serie di conferenze sui disagi psichici nei minori che si tenevano in Svizzera ogni anno. Si erano sentite sporadicamente per telefono o per email e, durante quei lunghi giorni, in maniera tacita ma accettata da tutti, il comando dell’istituto era passato alla figlia. Adesso in Sophie regnavano due sentimenti contrastanti: da un lato, voleva che la madre tornasse per vedere il modo in cui egregiamente aveva portato avanti il suo lavoro, ma dall’altro lato, voleva anche parlare con lei, perché molti dubbi erano nati durante la sua esperienza sul campo: le infermiere non avevano la stessa preparazione della madre e in qualche modo non l’avevano mai soddisfatta con le loro risposte.
Mentre rimuginava e immaginava l’arrivo della madre, si avviò verso il grosso portone in ferro che separava quell’area dal resto del mondo. I suoi passi sul sentiero di ghiaia, che portava fuori dall’edificio, risuonavano intensificati in quella notte senza stelle. La debole luce di un lampione illuminava fiocamente il giardino, disegnando tetri disegni sull’erba umida.
Prima di uscire, si diresse verso la guardiola illuminata, dove sperava di poter trovare già il guardiano notturno. Fu fortunata: la luce era accesa. Bussò. Un alto omone si presentò di fronte alla sua vista.
Non le diede tempo di parlare. «Sì, se la stanza numero 16 della signorina Tomlinson richiedesse aiuto, sei la prima che dovrò chiamare.»
Sophie alzò un sopracciglio, seccata. «Voglio solo assicurarmi che tu te lo ricordi.»
«Come farei a dimenticarlo? Ogni santissima sera me lo ripeti.» sottolineò, sbuffando. Non erano mai andati d’accordo quei due: l’uomo, un certo signor Stan, faceva quel lavoro solo per fare un favore alla madre e per intascarsi dei soldi per un lavoro extra, ma non dormire quasi tutte le notti lo portava ad essere burbero con tutte le persone che incontrava, in particolare con lei.
Si allontanò indispettita e salì in macchina, senza girarsi a guardare il cosiddetto Centro Residenziale Terapeutico scomparire dietro i rami quasi spogli del viale alberato che portava fino ai bordi della città e che nessuno veniva mai a percorrere.

 



dalma's corner

Buonasera! (: Mi chiamo Dalma e sono nuova a pubblicare storie nella sezione "One Direction".
Quei ragazzi mi hanno dato l'ispirazione per ricominciare a scrivere, dopo quasi un annetto che non aprivo più Word. Tuttavia, vi anticipo che questa fan-fiction sarà particolarmente basata su Louis e forse, ogni tanto, faranno la loro comparsa gli altri ragazzi.
Se come primo capitolo vi ha un po' spiazzato e lasciato con dei dubbi, diciamo che è normale. Sono risposte che darò strada facendo.
Vorrei però fare una piccola spiegazione in quest'angolo: un Centro residenziale terapeutico è un luogo in cui si portano le persone che hanno disagi psichici che hanno bisogno di una cura piuttosto lunga ed è una struttura protetta. Quello che dico non è tutto frutto della mia immaginazione, in quanto a scuola abbiamo toccato questi argomenti e io in primis mi sono informata al riguardo. Voglio però precisare che in questo campo potrei fare diversi errori, in quanto non ne ho avuto esperienze in prima persona. Di conseguenza, chiunque leggesse la storia e volesse farmi notare delle discordanze con la realtà, si faccia pure avanti.
Questa storia non è scritta a fini di lucro e Louis, Lottie & Co. non mi appartengono; Sophie, in quanto un personaggio di mia invenzione, mi appartiene. Per quanto riguarda la famiglia Tomlinson, ho avuto seri problemi a trovare in modo specifico (?) com'è organizzata la  famiglia (età, divisione ect), perciò su questo punto ho preso un po' di iniziativa, ma (ripeto) chiunque leggesse, può aiutarmi con le precisazioni.
Ok, direi che dovrei finire questo myspace o diventa più lungo del capitolo.
Sarei molto felice di avere una vostra recensione al riguardo. (:
Un abbraccio,
Dalma.

  
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