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Autore: Claire Knight    02/10/2011    7 recensioni
Questa Shot è la vincitrice del concorso di Evilangel98.
"Una volta qualcuno gli aveva detto che l’amore era fatto di due solitudini, due mondi diversi, che imparavano a vivere assieme e a volersi bene a vicenda.
O, forse, non glielo aveva mai detto nessuno. Ma sapeva che era così. Ognuno è solo nel mondo, anche se in compagnia. Solo che per lui era diverso. Il suo amore era un amore che non sarebbe mai cresciuto. Aveva imparato ad amare un mondo diverso dal suo che non vedeva da tempo. Con il quale, forse, non sarebbe mai più riuscito ad entrare in contatto."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buona sera! Eccovi la mia one shot. Spero sia venuta carina ^^
Ad ogni modo, non ho molto da dirvi. Questa shot partecipa al concorso di Evilangel98, il primo al quale partecipo.
Buona lettura a tutti!


La pioggia batteva con forza contro la finestre socchiusa della sua camera quella sera, mentre lui stava poggiato sul davanzale con lo sguardo perso nel vuoto. Gli era sempre piaciuto il rumore scrosciante e continuo della pioggia, come aveva sempre amato il suo odore particolare.
Si sentiva solo. Forse era la prima volta nella sua vita. Sentiva un vuoto incolmabile proprio al centro del petto e le lacrime spingere ogni giorno agli angoli dei suoi occhi in modo inevitabile. Le sentiva sempre in gola che volevano salire. Avrebbe pianto volentieri se ciò che rimaneva del suo orgoglio non glielo avesse impedito.
I suoi occhi cremisi osservarono le figure confuse che correvano  su e giù per le strade in cerca di un riparo dalla pioggia incessante e le auto in coda, le stesse da almeno quindici minuti. Il mondo gli sembrava sempre troppo indaffarato per badare alle piccole cose. Ad un sorriso o una lacrima. Correvano tutti quanti dietro ai loro impegni, dietro ai soldi, alle apparenze. Secondo lui era solo per tenere la mente occupata, per non sentirsi soli. Perché gli uomini erano sempre soli. Ognuno era solo, anche in compagnia di altre persone.
Lo sapeva perché era capitato a lui in prima persona. Credeva di avere tanti amici, di aver trovato le persone che sarebbero state al suo fianco tutta la vita. Ma ora? Dov’erano adesso che aveva bisogno di loro, bisogno di un abbraccio e di qualcuno che l’aiutasse a sorridere, per una volta.
Non c’erano, nessuno di loro. Nessuno dei suoi amici si rendeva nemmeno conto di quanto stesse male. Bastava un sorriso falso ad illuderli che stava bene.
Una volta qualcuno gli aveva detto che l’amore era fatto di due solitudini, due mondi diversi, che imparavano a vivere assieme e a volersi bene a vicenda.
O, forse, non glielo aveva mai detto nessuno. Ma sapeva che era così. Ognuno è solo nel mondo, anche se in compagnia. Solo che per lui era diverso. Il suo amore era un amore che non sarebbe mai cresciuto. Aveva imparato ad amare un mondo diverso dal suo che non vedeva da tempo. Con il quale, forse, non sarebbe mai più riuscito ad entrare in contatto.
Il baccano dei clacson lo riportò alla realtà.
Stanco, si voltò verso l’interno della camera. Non voleva pensare al passato, anche se sapeva che era inevitabile. Accese la luce, e l’ambiente si colorò di un colore più caldo ed accogliente di quello grigio esterno. Passeggiando per la stanza, con la coda dell’occhio, vide la sua immagine riflessa nello specchio sopra al comò. Si poggiò con le mani sul mobile di legno e osservò il suo viso chiaro e gli occhi cremisi. I suoi capelli biondi scendevano come una cascata lungo le spalle. Si sembrava un fantasma.
Poi, un’idea folle gli balenò nella mente e gli occhi si illuminarono. Probabilmente era una cosa che non avrebbe mai fatto in condizioni d’animo normali. Ma sentiva il bisogno di farlo.
Corse in cucina senza, facendo rumore, senza ricordarsi che sua madre stava riposando in camera. Tornò indietro e posò sul tavolo un oggetto, poi chiuse a chiave la porta. Non voleva essere disturbato.
Poi si posizionò di fronte allo specchio. Con la mano sinistra afferrò una ciocca di capelli e con l’altra inforcò le grandi forbici. Le avvicinò ai capelli e chiuse gli occhi, aveva paura, in un certo senso. Ma voleva far vedere a tutti che era cambiato, sia dentro che fuori quella volta. Così afferrò il coraggio a due mani.
E tagliò.
 
< Così, davvero hai intenzione di unirti alla Raimon? >.
La voce di Hera gli rimbombò nelle orecchie, amplificata dall’eco e dal silenzio totale dello stadio. Si voltò e lo vide, al lato del campo, che lo guardava con uno sguardo fin troppo serio.
< Sì > rispose riprendendo ad allenarsi.
Hera lo osservò a lungo in silenzio, con le braccia incrociate al petto. Quando sì fermò per reidratarsi alla panchina, lui lo raggiunse.
< Lo sai che così è come se tu ci tradissi, Aphrodi? > aggiunse Hera guardandolo negli occhi. L’altro ricambiò lo sguardo finché poté, poi non riuscì a sopportare il peso della tacita richiesta celata nei suoi.
Si passò una mano nei lunghi capelli chiari, abbassando lo sguardo per terra.

< Non dovete prenderlo come un tradimento, Hera. Lo sapete che non è per questo che voglio giocare con loro >.
< Lo so bene, Aphrodi. Ma io… noi non vogliamo che tu te ne vada >.
Aphrodi tacque e questo fece intuire ad Hera che non c’era nulla da fare per trattenerlo lì. E per quanto non volesse, doveva accettare il fatto che lui passasse alla Raimon.
< Essia > fece guardando negli occhi il compagno, < Vai! Ma non sperare di potermi parlare di nuovo quando sarai tornato >.
< Hera, per favore. Non comportarti da bambino >.
< Tu non andare ed io non mi comporterò da bambino >.
Aveva alzato troppo la voce e l’eco rimbombò per un po’ nello stadio vuoto, raggiungendo gli angoli più lontani e polverosi del cuore di Aphrodi, che guardò l’amico con un rovo di spine al posto dello stomaco.
< Io devo andare, Hera > sussurrò con la voce incrinata.
L’altro lo guardò con gli occhi pieni di rabbia e frustrazione, forse anche qualche lacrima agli angoli.
< E allora dimenticami! >.
Poi se ne andò via correndo.
 
La ciocca di capelli cadde a terra senza il minimo rumore. Gli tremavano le mani. L’aveva fatto, finalmente. Ora, non poteva certo fermarsi. Sentì la voce di suo fratello che lo chiamava dall’altra stanza: voleva fargli vedere i suoi progressi su un gioco che stava facendo al computer.
Ma a lui cosa interessava in quel momento? Con più decisione, afferrò un’altra ciocca di capelli e l’unico rumore che sentì fu un fruscio vicino all’orecchio.
 
La stanza di ospedale era bianca. Bianchi i tavoli, bianche le sedie. Era tutto così luminoso in quel luogo e, forse, lui aveva l’aspetto giusto per completare quel quadro. Solo per l’aspetto, tuttavia, perché dentro di lui imperversava la più nera delle tempeste. Rabbia e tristezza si contendevano il predominio sul suo cuore e sulla sua mente. E lui non sapeva quale delle due preferire.
Non era riuscito nel suo intento a pieno. Aveva aiutato la Raimon, quel ragazzo di nome Fabuki. Persino se stesso, perché si sentiva diverso da quando era entrato nella squadra.
Eppure, il suo tempo era già scaduto. Non era stato completamente all’altezza. Ma ciò che più lo faceva infuriare non era il fatto di dover abbandonare la Raimon. Era una cosa che con Endou e gli altri non c’entrava nulla.
Si trattava di Hera. Tra tutti i suoi amici della Zeus Junior High, lui era stato l’unico a non esser mai andato a trovarlo.

A quel punto entrava in gioco un altro sentimento. Perché non voleva più parlargli? Sperava che dopo un po’ di tempo Hera l’avrebbe capito. Non gli avrebbe portato più rancore. Ma si sbagliava; probabilmente l’aveva ferito davvero troppo a fondo. Quando sarebbe tornato alla Zeus, cosa avrebbe fatto?
Sulla porta apparve la figura alta del dottore.
< Buongiorno, ragazzo! Come stai? >.
< Bene, credo > rispose Aphrodi.
Il dottore si mise a controllare come procedeva la guarigione della caviglia, poi sorrise fra se e appuntò qualcosa su un quaderno.
< Dottore > fece il ragazzo, < Tra quanto potrò uscire? >.
< Una settimana, non di più, tranquillo >.
Poi qualcuno lo chiamò da fuori ed il dottore uscì dalla stanza, senza chiudere bene la porta.
Aphrodi non vedeva l’ora di uscire da quell’ospedale, per quanto accoglienti potessero essere le persone e gli ambienti. Voleva andarsene, quella era l’unica cosa certa.
La soglia bianca della sua stanza, in quel momento socchiusa, sembrava volerlo invitare ad uscire, ma al tempo stesso gli faceva paura.

 
La luce si spense all’improvviso. Un blackout. Sentì il fratello urlare che il pc si era spento proprio nel momento più bello del gioco e sua madre aprire la porta della propria stanza e bussare alla sua.
< Aphrodi! E’ saltata la corrente, vai a riattivarla? >.
Ma lui non diede ascolto alla voce di sua madre che andava preoccupandosi per il silenzio che le arrivava in risposta. Aveva già superato la metà dell’opera, se così poteva chiamarla. Non poteva certo fermarsi. Per una volta, si diceva, il presente avrebbe aspettato.
 
Era una bella giornata alla Zeus Junior High. Il sole splendeva, alto nel cielo.
Le lezioni erano appena terminate e lui già correva per i corridoi, inseguendo Hera su e giù per la scuola. Non era ancora riuscito a scambiarci nemmeno una parola e lui continuava a fuggire al suono della campanella.
Quella volta non gli sarebbe sfuggito, nossignore. Doveva parlargli. Lo vide svoltare dietro un angolo e gli corse dietro. Appena fu possibile, lo afferrò per un braccio e lui si voltò. Si ritrovarono finalmente faccia a faccia, per la prima volta.

< Lasciami andare, Aphrodi > gli ordinò glaciale Hera.
< No. Voglio parlarti >
< Io no. Ti avevo detto di dimenticarmi, ricordi? Io l’ho fatto e continuerò a farlo…>.
Aphrodi rimase in silenzio. Come faceva a dirgli che il giorno dopo sarebbe partito per affrontare il Football Frontiere International? Ancora avrebbe dovuto lasciarlo. Sentiva che non avrebbero mai fatto pace.
< Credi che io non lo sappia? > fece poi Hera interrompendo il filo dei suoi pensieri. < Credi che non sappia che domani partirai e te ne andrai di nuovo? Sapevo che sarebbe successo già da tempo. Ma, ormai, da te non mi aspettavo altro >.
< Perché dici questo? Credi che a te non ci tenga? >.
< E’ ovvio che tu non mi vuoi bene, Aphrodi. Saresti rimasto la prima volta, se a me avessi tenuto davvero. Rimarresti ora, se tu mi volessi bene! >.
Tacque, e Aphrodi vide l’odio animare i suoi occhi di fronte al suo silenzio. Che tace acconsente. Lo dicevano tutti. Ma non era per quello che lui taceva. Avrebbe voluto dirgli che gli voleva bene, più di quanto avrebbe voluto e dovuto, ma lui sarebbe partito. Sapeva che non aveva comunque chance di farsi perdonare. Voleva abbracciarlo, dopo tanto tempo, ma non poteva, si sentiva inchiodato a terra da quelle accuse. Sentiva il cuore rallentare i battiti.
< Lo vedi? > continuò Hera dopo quel lungo silenzio, < Ho ragione >.
Poi se ne andò, ed Aphrodi non poté far altro che rimanere fermo.

< Mi dispiace, davvero > gli urlò appena prima che sparisse. Hera lo sentì, si fermò, ma non si voltò. Dopo un momento di esitazione, riprese a camminare, mentre delle lacrime, seppur poche, di cui Aphrodi non avrebbe mai conosciuto l’esistenza, gli ferivano le guancie come rasoi.
 
Tagliò anche l’ultima ciocca e guardò il risultato allo specchio. Non era niente di che, non era nemmeno abituato a vedersi con i capelli corti. Che li avesse tagliati troppo? Inclinò lo sguardo di lato, poi sorrise. No, si piaceva.
Si infilò una giacca e afferrò al volo un cappello che si mise in testa. Dopo esser tornato a casa, reduce della sconfitta contro la Raimon, pochi giorni prima, non aveva avuto occasione di incontrare i suoi amici. La scuola iniziava circa una settimana dopo. Non voleva più aspettare.
Aprì di colpo la porta. Sua madre lo guardò sconcertata per un secondo, poi urlò di spavento.
Faceva così paura il suo nuovo essere?
< La corrente tornerà fra poco da sé, non preoccuparti. Esco, mamma, a dopo >.
< Ma cosa hai fatto ai capelli?! > esclamò suo fratello.
Aphrodi gli sorrise, poi si precipitò fuori dall’appartamento. Scese le scale rischiando di cadere e farsi male. Uscito in strada, si rese conto di non aver preso l’ombrello. Meglio, così avrebbe fatto prima correndo.
Le strade erano tutte vuote, non c’era anima viva e faticava a vedere dove andava. Ma ricordava la strada a memoria. Quando giunse davanti alla casa di Hera era completamente fradicio, con i vestiti che aderivano al corpo. Aveva il fiato grosso e sentiva il cuore battere così veloce che sarebbe potuto scoppiare. Suonò il campanello davanti e rimase ad attendere davanti alla porta.
Sulla soglia, che si aprì poco dopo, apparve il suo vecchio amico Hera, che lo guardava con una faccia sbalordita e incredula.  Forse, per un primo istante, non l’aveva nemmeno riconosciuto. Rimase in silenzio per un po’, indeciso su cosa dire ad un Aphrodi con i capelli corti che appariva sulla soglia di casa sua alle undici e mezza di sera bagnato da capo a piedi.
< Co-cosa ci fai ancora lì! Entra, idiota >.
La preoccupazione, infine, aveva prevalso su tutti gli altri sentimenti contrastanti che sentiva crescere in petto.
< Sono fradicio, bagnerò il pavimento > disse Aphrodi con voce tremante per il freddo.
< Beh, vuoi morire qua fuori? > fece Hera avvicinandosi a lui. Lo prese per mano e lo tirò dentro con la forza. Lo trascinò al piano superiore e lo spinse dentro al bagno, poi chiuse la porta.
< Fatti una doccia calda, poi usa il mio accappatoio: è quello blu. E chiuditi a chiave. I miei dormono, non fare casino > fece sbrigativo.
< Ma, Hera… io >.
< Io niente. Vado a cercarti dei vestiti. Parleremo dopo >.
Poi il ragazzo uscì dal bagno chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Aphrodi fece tutto ciò che Hera gli aveva ordinato di fare. Chiuse a chiave e poi, spogliatosi, si buttò sotto l’acqua calda. Era un bel cambiamento di temperatura, ma aveva bisogno di scaldarsi. Avrebbe rischiato di andare in ipotermia o di prendersi una febbre. O, forse, era già troppo tardi per la seconda ipotesi: si sentiva scoppiare.
Quando finì, prese l’accappatoio blu di Hera e l’indossò. Prese un asciugamano e se lo passò sui capelli corti. Così era molto più semplice. Ci avrebbe messo poco ad asciugarli da quel momento in poi.
Dopo esser rimasto per un po’ fermo immobile a non pensare a nulla di fronte allo specchio, decise di uscire.
Aprì la porta con cautela e, voltandosi a sinistra, scorse la figura di Hera che guardava fuori della finestra in fondo al corridoio. Appena lo vide il suo sguardo si irrigidì di nuovo.
< Vieni > disse a bassa voce, conducendolo in camera sua. Una volta entrati, Hera chiuse a chiave la porta.
Aphrodi era piuttosto imbarazzato. Poi l’altro gli porse dei vestiti.
< Vestiti > disse, < Tranquillo, non ti guardo >.
E si allontanò andando vicino alla finestra a spiare la pioggia che continuava a scendere. Aphrodi si cambiò immediatamente, con molta fretta. Quando ebbe finito, non seppe cosa fare, cosa dire.
< Dove posso mettere l’accappatoio? > disse titubante.
< Dove ti pare >.
Poi Hera si voltò e fisso il suo sguardo gelido negli occhi rossi di Aphrodi.
< Perché sei venuto? > disse dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio.
< Perché volevo vederti >.
< L’hai fatto, ora puoi andare >.
Aphrodi non aveva parole per comunicare i suoi pensieri e sentimenti. Perché Hera riusciva a trattarlo con distacco e lui no? Lo feriva il suo tono di voce così freddo e piatto. Indifferente.
< Io > balbettò Aphrodi a testa bassa senza sapere cosa dire, < Io… sono venuto perché volevo… chiederti scusa. Perché… non riesco ad essere felice senza di te… perché mi manchi da morire e mi fa male questo tuo distacco >.
Prese un respiro profondo e guardò negli occhi Hera, che sembrava esser ancora più freddo di prima.
< Perché ti voglio bene e ti ho fatto del male… > continuò, rendendosi conto che ciò che stava dicendo riguardava solo se stesso e non ciò che poteva aver provato Hera per causa sua.
< E vorrei trovare un modo per rimediare ai miei errori >.
Rimasero in silenzio. Hera lo guardò negli occhi e per un istante il suo sguardo parve addolcirsi. Un istante solo, poi tornò distante e tagliente come prima.
< Tu non sai > sussurrò Hera avvicinandosi a lui, < Non sai quante lacrime mi hai fatto versare, Aphrodi. Quanto mi sono sentito solo >. La voce piena di frustrazione e tristezza.
< Non puoi cancellare tutto dicendomi un semplice “scusa” >.
Quando fu abbastanza vicino, avvicinò una mano ai capelli corti dell’altro e li accarezzò con un dito, come perso fra i ricordi.
Aphrodi afferrò la sua mano e la portò sulla propria guancia.
< Cosa vuoi che faccia, Hera? Farò tutto quello che vuoi, ma, ti prego, perdonami >.
Una lacrima rigò il viso di Hera che non riusciva più a reggere la tensione. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì un suono.
< Sei… sei bollente, Aphrodi > fece poi con quel poco di aria che aveva per parlare e respirare, < Sta qui, vado a prendere un termometro >.
Era già sulla porta quando sentì la mano di Aphrodi afferrare saldamente il suo braccio destro. Com’era forte, quella stretta.
Hera si voltò con il cuore in gola. I loro sguardi si incrociarono. Poi Aphrodi prese il viso di lui fra le mani e premette le sue labbra su quelle di Hera. E lui non si oppose. Ma tutti i sentimenti che aveva celato in fondo al cuore per tanto tempo sembrarono voler uscire fuori tutti all’improvviso ed esplosero non appena le loro lingue si trovarono.
Intrecciò le dita nei capelli stranamente corti di Aphrodi, il simbolo del suo cambiamento, e si fece stringere da lui.
Aphrodi lo fece stendere dolcemente sul letto senza lasciarlo un momento.
E presto nulla ebbe più un valore oltre loro due.
La realtà non ebbe più una logica.
La logica non ebbe più un senso.
Ed il buio poteva esser scambiato con la luce.
Il rumore della pioggia si confondeva facilmente con i loro respiri.
Il tuonare dei fulmini con ogni bacio.
 
Infine era vero.
L’ l’amore non era fatto d’altro che di due solitudini, due mondi diversi, che imparavano a vivere assieme e a volersi bene a vicenda.


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Salve a tutti! Spero vi sia piaciuta questa fiction.
Non sono una fan della Hera*Aphrodi. Ma ho fatto uno strappo alla regola ;D
A presto,

Claire Knight.
  
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