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Autore: Bathor Dariusson    06/10/2011    3 recensioni
Una breve storia che accompagna Giovanna d'Arco negli ultimi momenti della sua tragica, incredibile vita, provando a penetrare allo stesso tempo nei recessi del suo spirito tormentato e nelle viscere di una società che non riesce a non produrre violenza ad ogni passo. Se credessi ad una vita dopo la morte, chiederei a Jeanne di perdonarmi per aver tentato di dare un nome al suo dolore con un'ipotesi narrativa decisamente insolente.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
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La notte del 29 maggio 1431 una ragazza si agita sul suo giaciglio, in una cella del castello di Rouen. Le preghiere che recita a mezza bocca non servono a fermare il tremore dei piedi e delle mani. Alla fine non può più stare seduta. Percorre avanti e indietro i pochi metri che le sono concessi, tracciando traiettorie convulse sul pavimento in pietra della cella. «San Michele, Santa Margherita, Santa Caterina…» ripete in un sussurro, con la mascella indolenzita per lo sforzo di tenerla ferma. Si riscuote ad un tratto, quasi grida: «No, Dio! Dio mio, ti chiedo perdono. Se hai deciso… se questa è la tua volontà, allora non può che essere giusta».
La guardia, Pierre, sgrana un occhio solerte dallo spioncino. La vede appoggiarsi al muro, cercare un appiglio che non c’è, scivolare a terra, accovacciata.  Un tremito la scuote in tutto il corpo, i denti prendono a battere senza controllo, sempre più forte. Pierre entra nella cella, una fiaschetta nella mano sinistra.
«Coraggio, fino ad ora sei stata così forte… Ti ricordi cosa dicevi? “Devo trovare un modo di fuggire: è un preciso diritto di chiunque sia prigioniero tentare di scappare”. Già, ma questa è l’ultima sera…Tieni, bevi un po’ di questa roba».
«Che cos’è?».
«Acquavite».
«Non…».
«Bevi, ti farà bene».
Pierre le mette una mano dietro la nuca, le accarezza i capelli; con l’altra le avvicina la bottiglia alla bocca. La ragazza beve meccanicamente. Non sente il sapore, non sente nulla. Solo un gran calore nel petto, che subito diventa languore che scende giù per le gambe, le sopisce. Pierre la solleva, delicatamente. Quando la depone sul pagliericcio, la ragazza ha già chiuso gli occhi.
Il primo ad apparire è l’Arcangelo Michele. Le sorride: «Ricorda, Jeanne, la  missione che devi compiere». Lei si agita, vorrebbe rispondere ma qualcosa di più forte, un peso sul petto, le impedisce di parlare. Poi l’Arcangelo svanisce. Le scorrono davanti immagini di se stessa sui campi di battaglia a Orléans, Parigi, Compiègne; si vede ferita alla gamba, al petto, al collo; vede i soldati Borgognoni che la buttano giù da cavallo, la catturano. Mentre la issano a forza su un carro si sente in lontananza la fanfara degli Armagnacchi. E’ Carlo, l’amato re, che viene a salvarla.
Subito dopo è a Reims, nella sala grande del palazzo, dove il re la aspetta seduto sul trono. Jeanne va incontro al suo sovrano a capo chino, stringendo tra le mani giunte lo stendardo che lei stessa ha disegnato, con Dio che benedice il Giglio di Francia. A pochi metri da Carlo, mentre solleva la testa verso di lui ed egli, sorridendo, alza la mano e le fa cenno di avvicinarsi ancora, un’enorme serpe nera sguscia sibilando da sotto il trono. Jeanne arretra, porta la mano alla spada ma in un baleno la bestia la assale, si getta tra le sue gambe, entra in lei. Un dolore animale le brucia il ventre; vorrebbe gridare, ma il re le chiude la bocca. «Mordimi la mano», le dice, «così potrai sopportare il dolore». Jeanne morde, morde più forte che può. Poi riempie i polmoni, deglutisce e grida con tutta la forza che riesce a trovare, squarciando l’aria stagnante e plumbea della cella. Seduta sul letto, gli occhi torbidi e annacquati dal sudore, le sembra di scorgere nell’oscurità la serpe che fugge, si infila nello spioncino, esce dalla cella.
Le pareti intorno girano senza sosta. Jeanne vorrebbe alzarsi, si sporge in avanti per cercare un appoggio. Le mani toccano qualcosa di bagnato. Sollevando due dita tremanti, lo assaggia. E’ sangue.
 
La mattina dopo, quando Pierre entra nella cella, la ragazza è nella stessa, esatta posizione di quattro ore prima: seduta sul letto, le gambe aperte, fissa la parete con grandi occhi vuoti.
«Stanno per arrivare, Jeanne, tirati su».
Jeanne non lo guarda; non lo vede. Pierre sospira, tira fuori nuovamente la fiaschetta: «Povera Jeanne, diciannove anni non è una bella età per morire… Bevine un po’ di più stavolta; ti aiuterà a non pensarci». Gli occhi di Jeanne restano inchiodati al muro di fronte a lei. «Il mio voto… è tutto perduto, adesso, è tutto perduto…» sussurra con un filo di voce. Pierre le si fa più vicino: «Il voto? Cosa intendi di…». Poi l’uomo abbassa lo sguardo, rimane a fissare il pavimento. Finalmente, dalla porta avanza un rumore di passi. E’ arrivata la delegazione. I soldati entrano nella cella, sollevano Jeanne di peso, la poggiano a terra. Con passo malfermo la ragazza si incammina verso l’uscita, un soldato per fianco.
Quando il corteo con Jeanne e i soldati appare in Place du Vieux Marché, un mormorio si leva tra le mille e più persone che affollano la piazza, intorno all’enorme catasta di legna. In prima fila, i giudici che Jeanne ha imparato a conoscere in quegli ultimi, lunghissimi mesi: Gilles, Abate di Fecamp; i Dottori in Teologia Jean Beaupere, Jacques de Touraine, Nicolas Midi, Pierre Maurice e Gerard Feuillet. Poi tanti altri ancora, facce senza nome ma con un posto intagliato nella carne viva della memoria.
In prima fila, naturalmente, siede il vescovo di Rouen, Pierre Cauchon. Il canonico Maurice gli accosta la bocca all’orecchio: «Però, che coraggio la ragazza… di solito bisogna portarli di peso perché non riescono a camminare e se la fanno addosso». Cauchon lo guarda severo: «E’ Satana che le infonde questo coraggio, non è naturale! Anche questo dimostra che abbiamo fatto il giusto».  
Scortata dai soldati e preceduta dal boia, Jeanne si dirige verso il centro della piazza. Qualcuno tra la folla grida “strega!”, altri piangono, la maggior parte tiene la testa china. Jeanne non li vede. Gli occhi sgranati rivolti al cielo, mormora una sua infinita litania. Il piccolo corteo giunge davanti alla pira, si ferma. Jeanne sente in lontananza la voce secca dell’inquisitore d’Estivet: «Vuoi dire un’ultima parola su questa terra, prima di essere giudicata da Nostro Signore?». «Sì», risponde a voce appena più alta del mormorio a stento interrotto, con lo sguardo che scruta oltre la figura dell’uomo. D’Estivet attende qualche secondo, finché gli pare che basti. «Ebbene?», sibila. La ragazza parla con voce ferma, questa volta: «Chiedo perdono a Dio per averlo tradito». Il vescovo Cauchon si volta verso l’abate Beauregard, l’ombra di un sorriso sul volto.
Gli istanti successivi, mentre Jeanne è bendata e legata al palo, sono un silenzio cigolante di legno e corda; umido di fiati e sudore quando il fuoco viene appiccato, crepita, si avvicina veloce al suo corpo arreso. Mentre le prime fiamme lambiscono la veste lacera, la consumano, scoprono le pallide membra della fanciulla, alcuni tra gli uomini allungano il collo, senza accorgersene. Ad un tratto il vento gira, proiettando una nube di fumo acre sui presenti. Dalla pira si leva alta la voce della ragazza: «Gesù! Gesù! Gesù!».
Mezz’ora dopo, la folla sciama lenta per le vie d’uscita dalla piazza. Nessuno parla con chi gli sta accanto. Qualcuno, scuotendo la testa, mormora sottovoce: «Era una santa, era una santa…».
  
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