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Autore: berlinene    09/10/2011    5 recensioni
Un piccolo spin off di "Non come vorresti" per raccontare il punto di vista di Munemasa Katagiri sulla vicenda...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Genzo Wakabayashi/Benji, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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In realtà questa ff l’avevo finita e fatta betare da un po’ ma poi mi era scivolata nel dimenticatoio^^ Bon, ecco il saldo di un piccolo debito (poiché ogni promessa lo è) verso quanti (Mela e Kara XD) si lamentavano del fatto che in Non come vorresti avevo fatto zerbinare un po’ il Kata... ebbene questa è la storia vista dai suoi occhi...

Chi non ha letto Non come vorresti potrebbe non capire qualche passaggio...


Try walkin’ in his shoes 

I would tell you about the things

They put me through
The pain I've been subjected to

Walkin' in my shoes - Depeche mode



Munemasa Katagiri quasi non aveva mangiato quella sera e si era congedato molto presto dai colleghi e dall’allegra brigata dei ragazzi della Nazionale, accampando la scusa di un forte mal di testa. Si ritirò nella sua stanza e si distese sul letto, incapace di dormire. Chiuse gli occhi e ripensò a Parigi. Voleva Yasu lì con lui, voleva le sue mani sul proprio corpo, voleva stringerla a sé e sentire il calore e il profumo della sua pelle.

Pensarla con Wakashimazu lo faceva impazzire di gelosia, non riusciva a non temere che lui tornasse sui propri passi e si rimettesse con lei. Lo sapeva, che, nel cuore della ragazza, Ken aveva un posto speciale. Non si illudeva di poter prendere quel posto… e non voleva.
Come le aveva detto una volta, ne voleva uno tutto suo.
Ma ora aveva paura, paura che non ne avrebbe più avuto la possibilità. Come poteva Yasu scegliere lui? Ken era giovane, bello e la conosceva come nessun altro. E sapeva come... prenderla. Mentre lui, da quando erano arrivati in Giappone, quasi non l’aveva più sfiorata, si erano scambiati giusto un paio di baci clandestini e basta.
“Avrei dovuto abbracciarti di più… torna da me Yasu, ti prego” mormorò, ricacciando indietro le lacrime.
Il trillo del telefono lo fece sussultare. Quando vide il nome sullo schermo, il suo cuore accelerò e le dita incespicarono nella fretta di rispondere.
“Mune”
Si accorse subito che stava piangendo e ai ricompose: “Cos’è successo, Yasu, stai bene?” chiese, cercando di dominare le emozioni.
“Io sì ma… Ken ha… avuto un incidente” Lo disse come se non credesse alle sue stesse parole. Poi gli spiegò brevemente l’accaduto.
“Dimmi dove sei, vengo da te…”
“No –“ L’uomo ebbe un brivido di fronte a quella risposta poi, però, Yasu gli disse che c’era Genzo da recuperare all’aeroporto.
“Cerca di stare calma” si raccomandò allora, controllando a fatica la voce. “Io vado a prendere tuo fratello e poi ti raggiungiamo in ospedale. Tu va’ da Ken” soggiunse infine, mentre una fitta gli trapassava il petto.


Genzo aspettava stufo fuori dall’aeroporto. Appoggiato a una colonna, scorreva stancamente i nomi della rubrica del suo telefono, alla ricerca delle candidate giuste cui mandare un laconico: “Arrivato in Giappone. Mi manchi”.
“Che palle” sospirò. “Avrei potuto chiedere semplicemente l’indirizzo e andare in taxi, a quest’ora ero già arrivato…”
Di lì a poco, proprio un taxi gli si fermò davanti e ne scese una figura che gli fece cenno. Genzo si caricò tutti i bagagli addosso e si avvicinò al veicolo. Sbuffò, rendendosi conto che si trattava di Munemasa Katagiri e che era da solo. Non aveva nessuna voglia di approfondire quello che era successo fra sua sorella e il dirigente durante il soggiorno a Parigi, e ancora meno di fare finta di niente e passare il tragitto verso il J-Village a parlare di banalità. Odiava parlare di niente, preferiva di gran lunga tacere.
E poi, dov’era sua sorella? Un brivido lo scosse, uno di quei maledetti presentimenti da gemello che avevano la brutta abitudine di essere maledettamente attendibili. Dunque dimenticò le buone abitudini e, saltando a piè pari i convenevoli, chiese a Munemasa dove fosse Yasu.
“Andiamo subito da lei” rispose il dirigente, senza nemmeno voltarsi. E comunque i suoi occhi erano al solito coperti dagli occhiali scuri.
“Dov’è? Come mai non è con lei?” chiese Genzo, cercando di non tradire la crescente preoccupazione che l’agitava.
Il taxi era ormai partito e i due sedevano accanto. Katagiri fece un respiro profondo, poi gli mise una mano sulla spalla. “Questa sera Yasu aveva un appuntamento con Wakashimazu-”
“CHE COSA?” gridò Genzo. “E tu l’hai lasciata andare?” Era passato al tu senza accorgersene.
 “E c’è stato un incidente d’auto…”
“Un INCIDENTE? E me lo dice così?” Chiese allarmato, recuperando, però, quantomeno, la forma di cortesia.
“Stai calmo, lei sta bene…”
“Per vostra fortuna… se le succedeva qualcosa, lei e Wakashimazu ne avreste subito le conseguenze, garantito!” Ma la rabbia stava sbollendo e Genzo iniziò a riflettere. “Qualcuno si è fatto male?”
“Wakashimazu è stato portato in ospedale e Yasu è andata con lui”.
L’SGGK voleva dire qualcosa, ma gli mancarono le parole. Sapeva quanto, a dispetto di tutti i casini, Ken e Yasu fossero legati. Ma sapeva anche troppo bene il male che erano capaci di farsi l’ un l’altra. Sperava solo che Yasu fosse capace di far fronte a tutte quelle emozioni.
Per la prima volta da quando la sorella gli aveva parlato di lei e Katagiri, Genzo pregò che la loro relazione fosse abbastanza importante da darle l’equilibrio di cui aveva bisogno. E, ovviamente, sperava che Wakashimazu stesse bene.


Neppure Katagiri aveva niente da dire, durante quella strana corsa in taxi. Da dirigente della nazionale era ansioso di sapere quanto gravi fossero le condizioni del portiere. Desiderava che stesse bene, ma non solo per lui e per il bene della squadra, ma anche per Yasu che, per prima e da sola, avrebbe dovuto fare i conti con la diagnosi, qualunque essa fosse.
Voleva correre da lei e stringerla fra le braccia. Ma, forse, era troppo tardi. Da quando erano arrivati in Giappone, aveva lasciato che le sue remore prendessero il sopravvento su quello che provava per nei suoi confronti, trattenendosi dal dimostrare a lei e al mondo quanto l’amasse e che quello che era successo a Parigi non era stata una parentesi, ormai lontana nello spazio e nel tempo, ma l’inizio di qualcosa che sperava durasse e diventasse importante, anzi, che già lo era. Abituato com’era a trattenere le sue emozioni, non aveva considerato che per una ragazza così giovane la fisicità non è una cosa da cui è facile prescindere, che ne aveva davvero bisogno, che quel suo trattenersi l’aveva fatta sentire sola, soprattutto nel ritrovarsi catapultata in mezzo ai suoi ricordi più dolorosi. Se a Parigi dimenticare era stato facile, in Giappone, invece, nei luoghi e in mezzo alla gente che erano appartenuti alla sua storia con Ken, sicuramente non era semplice. E ritrovarsi con Ken in persona, ancora peggio. E in mezzo a tanti dolori, lui, che aveva promesso di aiutarla, l’aveva lasciata sola.
Eppure, quando arrivarono all’ospedale, si sentì ancora bloccato. Vide Genzo entrare senza porre tempo in mezzo e anche i genitori di Wakashimazu che venivano ammessi nel reparto, mentre a lui non rimase che sedersi nella saletta d’aspetto. Solo dopo un po’ si accorse che, accoccolato in un angolo, dormiva Takeshi Sawada. Ma non ebbe la forza e la voglia di svegliarlo, voleva restare ancora solo coi suoi pensieri. Si riscosse solo dopo un po’, quando Wakabayashi lo chiamò e gli dette le chiavi della spider, chiedendogli di andare a recuperarla.
Ne fu lieto: agire, fare qualcosa, da sempre lo aiutava a chiarirsi le idee. Organizzare era il suo lavoro e lo sapeva fare bene. Andò a recuperare la spider e la riportò al J-Village, quindi, di lì a poco, tornò con un’auto messa a disposizione dalla Federazione per accompagnare i gemelli Wakabayashi a Nankatsu: Genzo aveva chiesto e ottenuto il permesso di portare la sorella lì qualche giorno, per riposarsi.
Come previsto, mettendosi in azione, Munemasa aveva anche capito cosa avrebbe fatto: sarebbe partito al più presto, forse l’indomani stesso, e avrebbe raggiunto la sua ragazza a Villa Wakabayashi e lì avrebbero avuto il tempo di parlare e… fare tutto quello che andava fatto. Compreso un discorso a quattr’occhi con Genzo. Forte di queste decisioni, chiese di poter vedere Yasu e l’infermiera lo fece entrare.
Quando arrivò nella stanza, la trovò in compagnia di Genzo, intenta a raccogliere le proprie cose in una busta. Era pallida e provata, ma aveva uno sguardo risoluto.
Munemasa informò i fratelli circa la macchina.
“La ringrazio signor Katagiri” disse Genzo, formale, accennando un inchino. “Potevamo prendere un taxi, non vorremmo creare alcun disturbo…”.
“Nessun disturbo… Genzo” gli rispose, dandogli una pacca sulla spalla. “E poi dovreste ringraziare la Federazione, che vi ha messo a disposizione la macchina!” lo informò, mentre lo sguardo correva verso Yasu. Le si avvicinò  per prenderle la busta dalle mani. Vedere quel visetto sempre allegro segnato dalle lacrime e dalla stanchezza lo vinse e, ignorando il rossore che gli saliva alle guance, la abbracciò. Si stupì della forza con cui lei lo strinse a sua volta.
“Vedrai che si concluderà tutto per il meglio…” le sussurrò, “adesso devi solo pensare a riposarti. Fra qualche giorno, se vuoi, ti vengo a trovare a Nankatsu, ok?”
Il cuore di Munemasa batteva forte e di sicuro lei lo sentiva. Yasu sollevò la testa come per dire qualcosa, ma dei passi nel corridoio la distrassero. Si liberò dall’abbraccio e fronteggiò Takeshi Sawada.
“Ya-chan” la chiamò, poi si morse le labbra e si corresse, mentre l’espressione seria cancellava quell’abitudine, quel nomignolo vecchio di anni. “Ha chiesto di te, Yasuko” disse atono.
Yasu guardò per una frazione di secondo suo fratello, Munemasa e Takeshi. Poi si proiettò verso la porta e il corridoio, con uno slancio di cui, provata com’era, nessuno l’avrebbe creduta in grado.
Genzo volse rabbiosamente lo sguardo verso la finestra, accigliato. Aveva la faccia di chi avrebbe volentieri spaccato qualcosa. Sawada serrò i pugni, gli occhi fissi sul pavimento, stringendoli nell’evidente e inutile tentativo di non piangere. Munemasa sentiva il petto dolergli e un sapore amaro invadergli la bocca. Ma stavolta non la lasciava andare. Con tre lunghi passi fu nel corridoio, lungo il quale si affrettò, cauto, per non farsi sentire da Yasu. Fece appena in tempo a vederla scomparire nella stanza di Ken. Si fermò. Non doveva lasciarla scappare, certo, ma era stato lui stesso a chiederle di chiarire con Wakashimazu. Doveva mordere il freno. Decise che le avrebbe concesso qualche minuto.
Di lì a poco lo raggiunsero Genzo e Takeshi, ma si fermarono a loro volta, quasi fossero giunti alla stessa conclusione.
Il tempo passava lentissimo.
Un’infermiera arrivò di corsa, richiamata dal pigolare di una macchina. Ma il rumore si interruppe quasi subito, lei dette un’occhiata all’interno e, facendo spallucce, tornò da dove era venuta.
I minuti passarono ancora, lenti come anni, finché Sawada non si risolse ad avvicinarsi al vetro. Si era mosso con passo deciso, le braccia lungo i fianchi e le mani ancora strette a pugno. Sembrava determinato a entrare, ma a circa un metro dalla vetrata si fermò, spalancò gli occhi e scosse la testa, quindi arretrò. Munemasa si era avvicinato a sua volta e la morsa che gli stringeva il cuore dette un altro giro di ruota.
Ken era seduto ben eretto, pallido ma sereno. Stringeva la mano di Yasu e parlottavano fitto fitto, ridendo e scherzando come due scolaretti. Yasu era seduta sul letto e dava le spalle agli osservatori, ma gli occhi di Ken erano trapunti in quelli di lei. Solo per un attimo il ragazzo guardò nella loro direzione, con espressione sorpresa, poi tornò a parlottare e a ridere ancora più apertamente.
Katagiri si allontanò, seguito a breve distanza da Sawada. Si sedette su una sedia nel corridoio, allungando le gambe e lasciando ciondolare la testa all’indietro. Doveva aver fiducia nella sua ragazza. Il fatto che fossero sereni non era per forza un butto segno, giusto?
Perso nei suoi pensieri, notò appena l’infermiera prima e il dottore poi che entrarono e uscirono dalla stanza del portiere. Non si era nemmeno accorto che, assieme al dottore era uscita anche Yasu. Si riscosse solo quando lei gli sfiorò la spalla con una mano. Quando alzò la testa, per un attimo, tutti i pensieri divennero niente: era solo irrazionalmente felice di vederla sorridere, di notare che persino le guance avevano ripreso colore e le occhiaie sembravano meno evidenti. E pazienza se il merito andava a Ken.
“Non indovinerai mai cosa mi hanno proposto” disse fingendosi scocciata. In realtà gli occhi le brillavano per l’emozione.
Il giovane dottore si schiarì la voce.
“Uh sì che sbadata!” ridacchiò Yasu. “Munemasa, questo è il dottor Shibata Kirou, ha seguito il caso di Ken… ed eravamo compagni di università, Kirou, questo è il signor Munemasa Katagiri, uno dei selezionatori della Nazionale”.
Munemasa accennò un inchino e strinse la mano che il dottore gli porgeva. Chiese delucidazioni sullo stato di salute del portiere e il medico spiegò che aveva riportato una ferita che aveva provocato una forte perdita di sangue e si era dovuti ricorrere a una trasfusione, ma che ora le condizioni erano perfettamente stabili e c’era bisogno solo di riposo e di qualche medicazione…
“…ed è qui che entra in campo la signorina Wakabayashi” continuò Kirou. “credo che il signor Wakashimazu starebbe molto più tranquillo nell’infermeria del J-Villagge che non qui e… credo che Yasuko sarebbe perfettamente in grado di seguire le medicazioni… ovviamente supervisionata dal medico ufficiale…”
Il dirigente ristette qualche momento. Guardò Yasu e lesse nei suoi occhi un po’ di incertezza, ma anche tanta voglia di fare.
“Io…” mormorò, “non credo ci siano problemi, in fondo non è la prima volta che la signorina si occupa, seppur in maniera ufficiosa, della salute dei nostri giocatori”.
“E chissà che non le torni la voglia di fare il dottore” chiosò Kirou.

Quando Wakashimazu fu dimesso, era ormai quasi mattina. Un’ambulanza lo accompagnò al J-Village. Sawada andò con lui, mentre i gemelli Wakabayashi e il signor Katagiri seguirono il mezzo con l’auto messa a disposizione della federazione.
I due uomini a bordo dell’auto erano molto pensierosi e guardavano Yasu, beatamente addormentata. Nessuno dei due era molto felice della piega che avevano preso gli eventi, ma vedere la ragazza così serena lasciava loro sperare che, forse, c’era del buono nell’idea del dottor Shibata.

Arrivati al J-Village, Ken fu sistemato nell’infermeria, dove avrebbe riposato per alcune ore. Dopo una breve discussione, si decise che Sawada sarebbe rimasto con lui, nel caso avesse avuto bisogno di qualcosa.
“Devi riposare anche tu” raccomandò Ken a Yasu, facendo eco alle proteste di Genzo e Katagiri. “Verrai a trovarmi quando ti svegli, tanto non scappo” le sorrise, guardandola negli occhi e carezzandole le dita.
Yasu annuì e liberò la mano, esitò un attimo poi si chinò per baciarlo, rapida, sulla fronte. “Andiamo?” disse poi, togliendo tutti gli astanti dall’impasse in cui quel piccolo bacio li aveva gettati. La ragazza ignorò gli sguardi infuocati di Genzo e Takeshi e cercò quello triste di Munemasa, per tranquillizzarlo con un sorriso.
Tempo prima, quando la Nazionale usava un’altra struttura che aveva solo camere doppie, i due gemelli ne avevano spesso condivisa una: sebbene adesso ognuno avesse la propria stanza, Genzo chiese alla sorella se voleva dormire con lui.
“Ti ringrazio, Gen, ma ho la mia camera. Anche tu devi riposarti… scusa per il trambusto e…” Il fratello le mise una mano sulla bocca e le passò l’altra attorno alla vita.
“Come farei io senza i tuoi casini?” le disse dolcemente.
“Ti annoieresti un sacco” rispose lei, sorniona.
La stanza di Yasu era ora al piano superiore, con quelle dello staff. Vicino dunque, anche a quella di Munemasa.
“Non dobbiamo avvertire gli allenatori?” sussurrò stancamente Yasu, trascinandosi lungo gli ultimi metri di corridoio.
“Li ho aggiornati via sms” la rassicurò lui. “Domani, con calma, faremo una riunione e racconteremo tutto. Adesso andiamo a letto”.
Arrivarono alla stanza della ragazza e l’uomo la accompagnò fin dentro.
“Sono esausta, ma prima di andare a letto mi serve una doccia” dichiarò lei, sparendo nel bagno.
Munemasa esitò, poi, risoluto, si sedette sul letto, si tolse gli occhiali per massaggiarsi gli occhi e aspettò.
Yasu uscì dopo pochi minuti, un telo da bagno annodato poco sopra il seno. Sussultò nel vederlo seduto sul suo letto.
Lui rimase qualche minuto a osservare le spalle e le gambe, le uniche parti scoperte, ne immaginò la pelle: morbida, fresca, profumata…
Appoggiò gli occhiali sul comodino e le si avvicinò. Tremando appena, allungò la mano per sciogliere il nodo che tratteneva il telo. Poi si bloccò.
“Se non te la senti, se sei stanca o non ti senti bene…” balbettò, fissandola negli occhi.
“Tranquillo”, rispose lei in un soffio. “Starò benissimo”.
Il nodo si sciolse con un tocco e l’asciugamano scivolò a terra, lasciando la ragazza completamente nuda. Le mani dell’uomo rimasero un attimo a mezz’aria, poi andarono ad accarezzare i seni piccoli e sodi, quindi si avvicinò e la strinse, baciandole piano il collo e le spalle e assaporando lentamente la pelle profumata e appena umida.
Convulsamente si tolse la giacca, la cravatta e la camicia, anelando a sentire quella pelle fresca sulla propria, mentre, dai capelli bagnati di lei, stillavano gocciole minuscole che gli percorrevano il petto e la schiena, facendolo rabbrividire.
La condusse verso il letto, e fu lei a slacciargli i pantaloni che, poi, lui si sfilò rapidamente. Le mani di Munemasa scivolarono fino a carezzarla nell’intimità, facendola fremere. La trasse a sé, godendo del contatto dei due corpi nudi. I boxer diventarono quasi subito un noioso ostacolo e finirono presto vicino ai pantaloni.
La sospinse piano per farla sdraiare, quindi si portò sopra di lei e la fece sua, con tutta la dolcezza possibile, baciandola e accarezzandola dappertutto, in modo quasi frenetico, come ad assicurarsi che fosse vera e sua, lasciandosi alle spalle tutti i dubbi e le paure che lo avevano tormentato durante quella lunga notte.
Una notte che, si rese conto un attimo prima di liberarsi dentro di lei, scorgendo un raggio di sole filtrare dalla finestra, era appena finita.
La tenne a lungo fra le braccia, finché Yasu, infine, non si addormentò. Le sistemò addosso la coperta, quindi si rivestì e sgattaiolò in camera sua dove si godette finalmente, anche lui, un lungo sonno sereno e ristoratore.

“No, adesso TU” gli intimò Minato Gamo, chiudendo la porta dell’ufficio di Katagiri dietro di sé, “mi spieghi TUTTO. Dall’INIZIO”.
Erano appena usciti da una riunione di fine ritiro decisamente sopra le righe e piena di importanti novità.
Punto primo, all’ordine del giorno, Ken Wakashimazu aveva recuperato appieno, giocando persino alcuni minuti della classica partitella di fine ritiro.
Yasu aveva fatto un rapporto dettagliato ed esaustivo di tutta la convalescenza, spiegando tutto quello che aveva fatto e come Ken aveva reagito alle cure. Kira aveva avuto parole di profondo elogio per la ragazza, che Mikami aveva approvato con un largo sorriso soddisfatto e Gamo con una specie di mugugno che, però, valeva mille applausi.
Naturalmente la guarigione descritta durante il meeting era solo una parte del percorso doloroso ma, diciamo così, salvifico che Yasu e Ken avevano percorso insieme, ma il resto era sconosciuto ai suoi colleghi. Oddio, quanto a Mikami e Kira non ci avrebbe messo la mano sul fuoco: entrambi avevano modi diversi, ma comunque sottili ed efficaci per tener d’occhio i propri pupilli. Gamo, di contro, non aveva la più pallida idea di tutta la storia. E infatti era lì per avere spiegazioni.
Ma c’erano cose che Munemasa Katagiri non gli avrebbe raccontato. Gli avrebbe detto dell’incontro con Yasu a Londra e dei giorni trascorsi a Parigi (magari entrando un po’ in dettagli che, lo sapeva, il suo vecchio amico aveva particolarmente a cuore) e di come fosse arrivato alla plateale conclusione che aveva resa nota a tutti durante la famosa riunione.
Tuttavia, non gli avrebbe detto con quanto dolore aveva guardato Yasu che, concluse le faccende a cui lavoravano assieme, lasciava l’ufficio canticchiando, si spogliava degli abiti formali, metteva una vecchia tuta, legava i capelli e raggiungeva Ken in infermeria. Non gli avrebbe confessato di aver spiato i regali che lei portava a Ken (dolcetti, riviste e altro) e di aver persino cercato di origliare alla porta i loro discorsi sussurrati. Neppure Takeshi Sawada, che, infondo, era solo un ragazzino si era spinto a tanto. Anche se, più di una volta, si erano trovati a vagare nei pressi dell’infermeria: se non fosse stato tanto doloroso per entrambi, sarebbe stata una bella scenetta comica.
Proprio nel bel mezzo di uno di quegli incontri fortuiti, silenziosi e imbarazzanti, il rumore di una porta che si apriva e chiudeva e di passi nel corridoio li aveva fatti sussultare. Yasu era comparsa, con un sorriso ironico stampato in faccia, che presto si era sciolto in uno più affabile. “Abbiamo finito con la medicazione e gli esercizi… perché non venite anche voi?”
I due si scambiarono uno sguardo insondabile, poi annuirono.
Da allora i giorni erano trascorsi così: Yasu lasciava l’ufficio, Munemasa finiva di sistemare, si faceva una doccia e indossava qualcosa di casual, quindi prendeva un caffè e si avviava verso l’infermeria, dove trascorreva allegramente il tempo che li separava dalla cena chiacchierando con Yasu, Ken e Takeshi.
Qualche volta si univa a loro anche Genzo. Erano una ben strana compagnia, ma anche la prova che, quando un amore finisce, può comunque restare del buono.

Yasu, verrebbe da dire, era tornata quella di un tempo, ma non sarebbe del tutto vero. Certo, non era più la fanciulla un po’ malinconica che aveva incontrato a Londra, ma nemmeno la ragazzina arrogante e maschiaccio di qualche anno prima, eppure, allo stesso tempo, era entrambe le cose. Era come se le due nature si fossero fuse, restituendo una giovane donna brillante ed entusiasta, anche se la sua esuberanza era adesso tenuta a freno da quella riflessività tipica di chi ha conosciuto esperienze e dolori forti. Diceva ancora troppe parolacce, per come la vedeva Munemasa, ma aveva finalmente ripreso in mano la sua vita e si era decisa a tornare agli studi di medicina.
Katagiri aveva accolto con gioia questa notizia, anche se significava che si sarebbero visti molto meno e ci sarebbero state meno occasioni di lavorare insieme.
Ken e il dottor Shibata si scambiarono un eloquente sguardo d’ intesa quando seppero la notizia. A Munemasa non sfuggì nemmeno lo sguardo orgoglioso che il karate keeper rivolse invece a Yasu, ma fu lieto di non sentire il pungolo sottile della gelosia bensì una piacevole sensazione di sollievo, al pensiero che la sua ragazza avesse tante persone che le volevano bene.  
Ivi compresi i colleghi allenatori, che accolsero l’annuncio di Yasu con gioia e si congratularono calorosamente con lei.
Dopo le disquisizioni tecniche, l’aggiornamento sulle condizioni di Wakashimazu e l’annuncio che Yasu riprendeva gli studi, sembrava che la riunione fosse giunta al termine e Kira chiese, come di routine, se qualcuno avesse altro da aggiungere.
“In effetti io” rispose Katagiri, schiarendosi la voce. “C’è qualcosa che probabilmente non sapete ma che dal momento che siamo colleghi ma, soprattutto…” esitò, “credo, siamo amici, ritengo opportuno comunicarvi”.
Si interruppe un attimo, prese fiato e osservò i suoi ascoltatori. Gli occhi spalancati di Yasu, che probabilmente aveva capito di cosa intendesse parlare e gli sguardi curiosi dei tre allenatori. “Io e la signorina Wakabayashi, io e Yasu, abbiamo una relazione e io credo…” esitò ancora, emozionato, cercando conferma negli occhi di lei. La ragazza dal canto suo, era diventata rossa, e, per una volta, era rimasta senza parole. Ma gli occhi le splendevano di gioia e orgoglio e allora Munemasa prese coraggio e ricominciò a parlare. “Credo che sia una cosa seria e, se lei lo vorrà, un giorno… temo proprio che me la sposerò”.
Concluse in fretta, tornando a sedersi e lasciando tutti piacevolmente sorpresi. Almeno così gli era sembrato.

Invece ora Gamo sembrava quasi contrariato. Ma Munemasa lo conosceva bene: era solo che non gli piaceva essere l’ultimo a sapere le cose. Specie dopo la testa che per anni gli aveva fatto affinché si trovasse una ragazza. Come facendo eco ai suoi pensieri, il massiccio ex capitano della Nazionale lo rimproverò. “Cioè, ti fai la ragazza e non mi dici nulla? Anzi, me lo tieni nascosto? E me lo dici di fronte a Kozo e Tatsuo? Credevo fossimo amici!”
“Posso rimediare?” sospirò Munemasa sorridendo appena, ma senza farsi vedere, intento com’era, o almeno così sembrava, a riordinare delle carte.
“Umf” grugnì Gamo, incrociando le braccia al petto e guardandolo di sottecchi. “Credo che un pranzo e una lunga descrizione dettagliata possano bastare”.
“Perfetto” disse Katagiri, appoggiando di schianto una pila di documenti sulla scrivania. “Muoio di fame anche io”. Si sistemò la giacca e precedette l’amico nel corridoio. Fu dunque colto di sorpresa quando questi gli fece cadere una delle sue manone fra le scapole, in quella che era, secondo Gamo, un’amichevole pacca sulla schiena.
“E così il nostro pettirosso ha trovato il suo nido” lo canzonò.
“Sì, Gamo, se non mi uccidi prima” rispose l’altro, riprendendo fiato.
L’ex capitano scoppiò in una delle sue risate grasse e potenti, che rimbombò per tutto il corridoio: se qualcuno si meritava un’altra possibilità di essere felice, pensava celando dietro quella risata un velo di commozione, quello era proprio Munemasa Katagiri.


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Note:
A proposito del titolo:
Walking in my shoes è una canzone dei Depeche Mode e nel ritornello dice appunto “Try walkin’ in my shoes” ovvero “Prova a metterti nei miei panni”.


Grazie: alla betina rel e a chiunque si sia trascinato fino a qui.
   
 
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