Fumetti/Cartoni europei > Altri
Ricorda la storia  |      
Autore: crimsontriforce    10/10/2011    1 recensioni
[Le Città Oscure] Esiste un'Europa parallela trascurata dalla luce della ragione che illumina il nostro mondo. Noi abbiamo l'austera Trieste spazzata dalla Bora; la sua controparte oscura è... [OC nel senso di Original City e sostanzialmente un racconto original]
Genere: Malinconico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prima classificata al concorso “Windy Town” indetto da RubyTuesday, che mi ha dato la spinta per mettere su carta un'idea vaga che mi portavo dietro da mesi, forse anni. Adoro il surreale, adoro Le Città Oscure e, per quanto apprezzi la 'Venezia Oscura' Alaxis, mi pare che il nostro stivale dia spunti per arricchire a oltranza il continente creato da Schuiten e Peeters. Case in point: Trieste. Trieste che certe sere sembra fatta apposta per un racconto surreale e non sono certo la prima a pensarci ma... questo è il mio piccolo contributo, piccolo piccolo semplice semplice. Alla mia città universitaria.

Oh, il racconto nasce per via de Le Città Oscure e cerca di funzionare come una (piccolissima) storia de Le Città Oscure, con l'atmosfera de Le Città Oscure, ma è in tutto e per tutto un'original. La pubblico come fanfiction per correttezza e perché vorrei immaginarla in quel mondo, ma... original>surreale, niente di più niente di meno. Personaggi miei, luoghi miei, vento mio.










Le vedute dal molo dei venti




“Signor Latàr, la vedo sciupato.”
“È la stagione. Nient'altro che la stagione. Venga, amico mio, si sieda.” Sergej Latàr fece leva sul bastone da passeggio e si scostò dal centro della panchina. Un'onda si infranse sulla pietra del molo, poco più in là; il vento ne prese gli spruzzi e li riconsegnò al mare.
“Volentieri, ma avrei fretta.” Il signor Hinwjzst, collega di una vita e ora di pensione, borbottava tutto attraverso un folto strato di baffi come fosse una scusa poco sentita. Difficile giudicare quando lo intendesse davvero.
“Dice bene: l'avrebbe, non l'ha. Non si può avere fretta, con la Firia.” Nel dubbio, il signor Latàr aveva imparato a prenderlo giocosamente sul serio. “O pensava di batterla in corsa prima che monti? Si sente già una bella brezza.”
“Quella era l'idea.”
“Mio buon Johann! E restarsene in casa a farsi martoriare le orecchie senza un minimo di eccitazione?”
“Se lei chiama eccitazione vedersi strappare qualunque giacca sia rimasta sventuratamente sbottonata...” Si sedette al suo fianco, sistemandosi in grembo il cartoccio con la poca spesa che l'aveva costretto a uscire. “Resto, ma solo per assicurarmi che quel maledetto vento non la porti via.”
Latàr rise. “Arduo. Tutta Tervenni è ben inchiodata alle sue rive. Penso che ormai l'abbia capito anche la Firia, testarda com'è.”
“Sarà.” Alzò il mento e chiuse gli ultimi bottoni del cappotto. “Ma si riguardi. Le dico, ha il volto sciupato.”
“Via, è solo insonnia. Troppo chiasso per dormire, finché è stagione, ma mi rifaccio leggendo.”
“Ha mai pensato di trasferirsi? Le vie orientate latitudinalmente soffrono meno dello spostamento d'aria, dicono.”
“Alla mia età? E chi vende, chi compra? Non... guardi, il mare si è fatto scuro.”
“Si fa sera, vecchio mio.”
“Questo al mare non importa.” Il giorno prima a quell'ora era bianco come le nuvole all'orizzonte e si confondeva con la bruma.
Hinwjzst alzò le spalle. Vero, il sole non era ancora tramontato, ma il mare era il mare e nessuno a Tervenni si stupiva, durante la stagione, di trovarlo grigio un giorno e il seguente del blu più profondo, come se tutte le acque del mondo si dessero turno per mettersi in mostra davanti al litorale. La Firia dava e la Firia prendeva e il suo umore si rifletteva sulle onde più di quanto facesse sui concittadini.
“Se voleva cambiare discorso, poteva avvisare. Lungi da me voler intrudere.”
“Che incredibile schiarita”, disse Latàr con gli occhi azzurri fissi all'orizzonte. “Si vede una torre.”
Hinwjzst sospirò e sostituì gli occhiali con quelli da lontano che portava nel taschino. “Una torre, già. Ma non la vetta della settimana scorsa.”
“C'era una vetta, settimana scorsa?”
“Ebbene. La notai aspettando il bus presso la vecchia stazione.”
“Curioso.”
“Invero.”
“Dev'essere ben alta, per essere visibile fin da qui.”
“La vetta?”
“La torre. Non vedo nessuna vetta.”
“Già.”

“Andiamo al primo calar di Firia!”, urlò Latàr.
“Come?”
“Appena cala!”
“Ne ha avuto abbastanza?”
“Lei sì!”, rise.
Sottinteso che il vento non sarebbe calato prima di mezz'ora. Restarono aggrappati alla loro panchina sul lungomare deserto, mentre i lampioni si accendevano e ondeggiavano scossi dal vento e la fitta foschia notturna ricopriva l'orizzonte – la coperta di Tervenni, la chiamavano. La Firia spazzava la sua città, le dava aria nuova, erodeva le ampie piazze bianche e vi scavava vicoli in cui si gettava urlando. Prendeva i pensieri e li riempiva di vento. Alle spalle dei due vecchi le case si chiudevano, austere, a proteggere i loro abitanti rinsecchiti e intirizziti. Alcune avevano smesso di accorgersi del passaggio della stagione e da anni restavano curve attorno al loro atrio.

“Non è il rumore del vento”, disse piano Latàr rivolto al mare. “Sono nato in questo posto come tutti, conosco i suoi suoni. La Firia non toglie il sonno. Sono gli altri rumori, quelli al di sotto – metalli che sfregano, sabbia, giunture, assi, valvole. Perdo il riposo per l'immaginazione? Non so se sento troppo o troppo poco.”





Agli sgoccioli della stagione, il signor Hinwjzst trovò il suo amico signor Latàr ai piedi del Molo dei Venti, appoggiato al suo bastone.
“La ringrazio per essere venuto”, disse Latàr.
“Non mi ha chiamato.”
“Ugualmente, grazie. Mi accompagni, la prego, fino alla Lotta dei Venti.”
“Lei e i suoi venti. Finirà per prendere una polmonite.” Ma si avviò di buon grado, senza mezze scuse appostate sotto i baffi.
La Lotta dei Nove Venti – lotta impari, in verità – era la scultura che dall'estremità del molo maggiore di Tervenni dominava il piatto lungomare. Non era chiaro perché la Firia, carica e salmastra e spumeggiante, non l'avesse ancora abbattuta: gli estimatori ipotizzavano che in fondo anche il vento l'apprezzasse. Tutti gli altri – “che sciocchezze, un vento che vuole intendersi d'arte” – che la divertisse lasciare un angolino di fama alla concorrenza. Di fatto si limitava a gettarci sopra i suoi cavalloni, che a dicembre gelavano in ghiaccioli storti, e a infradiciarla con tanta lena che una volta dei mocciosi in vena di scalate avevano trovato delle cozze a tre metri d'altezza. Ma a marzo inoltrato il molo godeva perlopiù della sua pace: ai due giungeva solo lo sciabordio delle onde e i radi scoppi di risa di qualche coppietta vicino a riva.
“Dunque?”
Latàr gli porse una scatoletta metallica rigida che aveva tenuto stretta al petto per tutta la mattina. Hinwjzst ne estrasse un binocolo argenteo, pesante e ben tenuto. Alternò uno sguardo perplesso fra l'attrezzo e l'amico.
“Terzo promontorio.”
Regolare la messa a fuoco sui suoi occhi stanchi fu laborioso, ma la macchia bianca fra la roccia e il mare prese a formare un castello a picco sulla scogliera, scintillante e carico di merli e torrette. Hinwjzst abbassò lo strumento e si stropicciò gli occhi. Latàr attendeva con il petto in fuori e le mani incrociate dietro la schiena.
“Ieri non c'era.”
“Ieri c'era foschia”, disse Hinwjzst.
“Domani sarà sparita.”
“Sergej.”
“Non è la prima volta che lo vedo.”
“Certo che non lo è.”
“La scorsa ero un bambino.”
“Ha smesso di guardare.”
“Non ho mai smesso di guardare, Johann. Non ho mai smesso di cercarlo e oggi è tornato per noi. Per me. Devo andare.”
“Cos'è? Chi ci abita?”
“Non lo so. Ho le mie storie di bambino.” Tornò ad appoggiarsi al bastone. “Nei miei giochi, lo chiamavo Miramare.”
Il signor Hinwjzst scosse la testa. “Sembra una bella gita. La aspetto stasera per uno spritz, mi saprà dire com'è andata.”
“Così sia.”
“Spero di non averla offesa – non la prenda per scetticismo, sono sinceramente curioso.”
“Si figuri.”





Sergej Latàr si era addentrato nella periferia nord della città in cerca di un sentiero che seguisse il litorale in quota, ma le vie di Tervenni sembravano chiudersi su se stesse come paglia intrecciata, senza lasciare spiragli che penetrassero un muro di rocce e cespugli. E vento. Troppo vento. Era passato il pranzo quando tornò al porto, sconfitto ma non vinto, e imboccò la via degli scogli, grato alla bassa marea.
La Firia montò quando fu tornato al margine estremo di Tervenni, oltre le ultime casupole dove d'estate si cambiavano i bagnanti. Le raffiche non gli dettero tregua: il vento gli strappò la borsa, gli prese i polpacci, gli tolse il bastone da sotto la mano e lo fece rotolare in acqua.Sergej Latàr proseguì carponi.

Credette di avere i polmoni in fiamme, poi più nulla.

L'aria era calma. Sergej Latàr si sedette, prese fiato, si rialzò. Il suo castello svettava elegante sul mare, specchiandosi nell'acqua grigia alle primo calar del sole. Spezzò un ramo da un pino marittimo, ne saggiò la resistenza e proseguì.

Le finestre erano buie, il giardino secco e incolto. Miramare – se quello era il suo nome, perché non ne aveva trovata traccia sugli archi né lungo le mura – giaceva in rovina. Sergej riposava sotto un pergolato, con la schiena appoggiata a una balaustra traforata da cui saliva l'aria del mare. Di fronte a lui, il bianco dei marmi del castello si era infiammato dei rossi del tramonto. Si sentiva cieco di fronte a quello spettacolo, incapace di comprenderlo e assorbirlo appieno.
Un refolo gli fece voltare il capo alla sua sinistra, verso il lido di Tervenni carico delle luci della sera, e quella brezza si trasformò in uno schiaffo, una frangia di Firia che tornava a unirsi al vento madre verso la città. Sergej si portò una mano alla guancia offesa e guardò al Nord in cerca di spiegazioni. Sotto il vento, lontano, sentì uno strascicarsi metallico, sabbia contro pietra, assi tese fino al punto di rottura. Quando si voltò, Tervenni non esisteva più in quella baia. Il vento l'aveva trasportata altrove.

“Johann... il maledetto vento mi ha lasciato qui.”










Illustrazione di Skull Kid, che mi vizia!















Mi inginocchio sui ceci per aver parlato di Miramare e non di San Giusto. Miramare è bello e bianco e tutto, ma San Giusto è il mio castello. Ha vegliato sui miei studi per tre anni e lo ringrazio così... scusa, San Giusto :(
Note:
  • la Firia è la Bora, ci ricorda fiero Capitan Ovvio. Grazie, Capitan Ovvio!
  • il Molo dei Venti è il Molo Audace, che in cima non dedica ai venti una scultura chiassosa e liberty come sicuramente farebbe nel Continente Oscuro bensì questa cosina di buon gusto :3
  • lo spritz è il tipico aperitivo
  • i colori dei tramonti sulle rive sono effettivamente imbarazzanti da quanto son belli, sia quelli tutti grigi sia quelli da pugno nell'occhio fluo
  • riguardo ai nomi dei protagonisti, la vera Trieste è tutta un confine. Tervenni... suppongo che in principio abbia tirato su gente di varia nazionalità?
  • sto ancora a chiedermi cosa sia una struttura simil-industriale che si vede dal molo solo nei giorni più limpidi e a giudicare dalla distanza dev'essere enorme. E dall'approdo di Miramare, durante la mia unica visita (invernale e spoglia, ma dalla luce incredibile), all'orizzonte ne ho viste di cotte e di crude. Penso che il racconto nasca un po' da lì.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fumetti/Cartoni europei > Altri / Vai alla pagina dell'autore: crimsontriforce