Fanfic su attori > Jared Leto
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Autore: saradream85    12/10/2011    8 recensioni
Sophie ha sempre voluto andare a un concerto dei Mars, e il giorno tanto atteso era arrivato, ma non avrebbe mai sperato che qualcosa di così speciale potesse capitare proprio a lei...
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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       Ci sono delle piccole cose delle persone che spesso sfuggono. Delle intonazioni, dei respiri, dei battiti. Le persone non se ne accorgono, le lasciano dietro dì sé inconsapevolmente, dei piccoli pezzetti di sé da cui si staccano senza curarsene, poiché non ne conoscono l’esistenza. E questi flash, queste istantanee permangono nell’aria dopo il loro passaggio.
Io ne so qualcosa. Io vivo di queste sensazioni, vivo di quello che le persone vogliono nascondere di sé, ed è un gran vantaggio, sapete? Spesso si è talmente abbagliati da quello che ti sta di fronte, da non renderti conto di quello che il resto ti sta sussurrando. Io questo faccio: vedo oltre ciò che gli altri vedono.
O forse dovrei dire che non vedo oltre quello che gli altri vedono.

Le mie amiche, loro sono le migliori. Loro sapevano che l’unico, vero regalo per il mio compleanno doveva essere quel concerto. Non vengo da una famiglia ricca, e lavoro solo part time, cercando di far incastrare la mia vita di studentessa con quella di centralinista e di figlia, quindi i soldi necessari per il viaggio e per il biglietto d’ingresso avrei potuto racimolarli tutti solo dopo tre mesi dalla messa in vendita: troppo, lo sapevo.
Fortuna che loro, le mie meravigliose amiche, sono arrivate sotto casa mia il giorno dopo l’apertura della vendita, scampanellando furiosamente: appena mia madre esterrefatta ebbe aperto la porta, corsero in camera mia scavalcando Lucky, il mio cane pastore, e mi sventolarono con forza qualcosa sotto il naso, urlando poi: “i NOSTRI biglietti!”.

Di quel giorno ricordo soprattutto il profumo delle mie amiche che mi abbracciavano mentre singhiozzavo, e mia madre che tirava su con il naso nel vedermi così felice. Sa che faccio quello che posso per aiutarla in casa: siamo solo noi tre, io, lei e il mio fratellino Thomas di 10 anni, che in quel momento era accorso in camera mia sentendomi strillare, preoccupato che mi stesse succedendo qualcosa di brutto.. posso ancora a sentire il suo piccolo dito sulla mia guancia bagnata da lacrime di felicità, mentre si sporgeva sul mio letto dopo che nostra madre gli aveva spiegato cosa stava accadendo: credo di aver percepito il suo sorriso, in mezzo alle mie lacrime, potrei giurarlo..

E da quel giorno al giorno del concerto le ore si sono volatilizzate. I nostri preparativi, le bandiere, la scelta di come vestirsi, l’organizzazione per il viaggio, il tutto sembrava scivolare via nelle ore che ci separavano dalla caduta del tendone.
Da quel giorno fui perseguitata da un sogno di cui non riuscivo a serbare ricordo: nel dormiveglia che precedeva il mio risveglio, l’unica cosa che sentivo distintamente era un profumo vagamente dolce e muschiato, come l’aria di montagna con l’ultima fioritura della stagione. Chissà, io non ho mai amato particolarmente la montagna.

Siamo arrivate la mattina molto presto: volevamo guadagnarci la prima fila con il sudore, la fatica, non con i soliti mezzucci. Non volevamo passare davanti a nessuno della nostra Famiglia e poi si sa, le cose guadagnate si godono molto di più.
Era la prima volta che incontravo degli altri Echelon di persona: avevo paura di essere giudicata, di non conoscere abbastanza bene le parole delle canzoni, di avere una maglietta con una scritta troppo banale, di non essere all’altezza.. e invece, la prima persona in fila davanti a me si girò e mi chiese: “Scusa, hai una caramella? Sto morendo di fame”, e dopo che gliel’ebbi data iniziò una conversazione, che si estese presto ad un folto gruppo di ragazzi e che, tra canzoni e battute, velocemente ci portò all’apertura dei cancelli.
Sentivo la calca delle persone dietro di me: anche se fino a due minuti prima avevamo parlato dei nostri Mars si sa, chi primo arriva meglio alloggia, e la prima fila bisogna guadagnarsela. Ero terrorizzata: appena ci avevano detto di metterci in fila per entrare, la gente intorno a me si era alzata di scatto recuperando zaini e marsupi e fiondandosi più avanti possibile, quindi mi ritrovavo schiacciata senza ben sapere dove fossi. Fortunatamente, Miriam e Emily trovarono il modo di arrivare vicino a me e mi fecero sentire la loro presenza prendendomi la mano e stringendola forte. Sorrisi.
Si poteva distintamente avvertire la frenesia della folla. Era arrivato il momento.

Non ricordo nient’altro di quella folle corsa, se non le mani di Miriam e Emily che mi stringevano fino quasi a farmi male e la sensazione che qualcuno mi avesse tolto i polmoni per svuotarli fino all’ultima particella di aria ancora presente, poco prima di andare a sbattere le coste contro qualcosa di duro, e anche metallico avrei giurato, giudicando dal suono che aveva prodotto contro le mie povere ossa. La transenna. Mi svicolai dalle mani delle mie amiche e mi aggrappai a quella transenna come se ne andasse della mia vita. Sentivo Emily che rideva mentre Miriam esclamava poco dietro di me: “ Ma guarda, noi che la portiamo fino a qui e lei che ci molla senza alcun riguardo per assicurarsi a quella transenna, neanche fosse la gamba di Jared Leto!!”, rifilandomi poi un affettuoso scappellotto dietro il collo.
Lei non poteva capirlo, ma quei lividi che già sentivo dolermi sulle coste e la percezione del freddo del metallo sotto le mie dita erano la conquista di un sogno.

Ero troppo eccitata dall’attesa per godermi i gruppi spalla, anche se le mie amiche mi hanno poi raccontato che anche le loro esibizioni erano state spettacolari.
Io attendevo, attendevo quei suoni che soli sapevano farmi fremere l’anima. E la mia anima, lei non era pronta a sentire quella batteria che introduceva Escape, e infatti quei colpi sembrarono delle sferzate dritte al mio cuore, mentre la voce di Jared iniziava ad insinuarsi nei miei pensieri, e in un attimo sentii le mie labbra, insieme a quelle di migliaia di altri Echelon, prorompere in un unico urlo: THIS IS WAR.
E durante quell’ora, capii davvero cosa significava la comunione dell’anima: cantammo come se dovessero sentici fino a Marte, battemmo le mani a tempo con le percussioni di Shan, pestammo i piedi a terra durante i cori di Vox populi, piangemmo e urlammo durante Alibi, ci lasciammo trascinare dai passaggi e dagli assoli di Tomo, saltammo gli uni sui piedi degli altri ridendo, senza preoccuparci se qualcuno per sbaglio finiva sulle nostre dita, doloranti dalle molte ore di attesa fuori dai cancelli. Jared ci diceva di saltare e toccare il cielo, e non sarebbe stato certo qualche pestata che ci avrebbe impedito di seguirlo. Se quella sera non siamo arrivati fino al cielo, beh, posso assicuravi che ci siamo andati molto vicini: era così irreale, ed al tempo stesso così vitale, la sensazione di essere riuniti in un posto molto, molto lontano, in una terra che il tempo non può cambiare.

Invece il tempo scorreva comunque, ignaro di quanto ci sembrasse crudele l’avvicinarsi della fine di tutto questo. Una pressione che si moltiplicava contro di me e il dolore crescente dei miei lividi mi avvertì dell’imminente conclusione del concerto: la folla di Echelon impazziti che voleva salire sul palco per Kings and Queens. Cercai con la mano le mie amiche, ma probabilmente l’improvvisa eccitazione dei nostri vicini e lo spostamento delle persone che tentavano di farsi scegliere da Jared le aveva portate lontano da me.
Iniziò la sfilza di “you, you, yes, you, yes, yes” che inaugurava la church finale. Credetti di morire per quanto la gente mi stava premendo contro la transenna, ma resistetti.  Mentre cercavo di proteggere il mio torace dal metallo e dalla pressione,  sentii Jared passare due volte davanti a me, ma proprio in quei momenti ero schiava della folla dietro di me, che mi stava portando di prepotenza nella seconda fila per farsi spazio, mentre io cercavo di rimanere in piedi. Qualcuno mi afferrò per la spalla, e mi strinse in un abbraccio da dietro: era certamente Emily, con i suoi capelli ricci che mi solleticavano le guance. “Grazie, credevo che mi avrebbero spiaccicata”le urlai all’orecchio, dandole ancora le spalle. “Ecco, adesso l’hai mollata quella maledetta transenna!!” mi urlò lei di rimando, ridendo.
Cantammo Kings and Queens abbracciate, e il cuore stava per esplodermi nel petto mentre sentivo quello di Emily pulsare contro la mia schiena: sorrisi, riconoscendo nei nostri battiti il ritmo che Shannon stava eseguendo con passione sulla sua Christine. Eravamo davvero i re e le regine della promessa.

Mi lasciai portare fuori dalla folla da Emily, ormai incapace di trovare un senso a qualsiasi percorso che non mi riportasse indietro a pochi minuti prima, quando la mia vita era esplosa. Sorridevo a tutti in modo sincero, seppur malinconico, pensando che avevo appena lasciato una parte della mia anima su quel cemento afoso di inizio estate. Ci raggiunse poco dopo Miriam, che con la voce roca mi sgridò per non esserle stata vicino, preferendo attaccarmi alla transenna invece che preoccuparmi di dove fossero loro due.
“E se ti avessimo persa? Non hai neanche portato il cellulare, e il mio è rimasto nella mia borsa da quando ci siamo accampate davanti ai cancelli!!” strillò, per quanto la mancanza di voce dopo aver cantato a squarciagola durante tutto il concerto le consentisse.
Scrollai le spalle: “me la sarei cavata anche da sola sai” - risposi un po’stizzita - non sono una bambina”.
 Intervenne Emily a fare da paciere: “Dai Sophie, che se non ti avessi salvata io adesso saresti un purè di Echelon!”.
A quella battuta scoppiammo a ridere tutte e tre, immaginando un piatto di purè con la mia faccia sopra:
“Siete due deficienti!!!” gemetti tra le risate, rivolta alle mie amiche, che nel frattempo avevano raccolto le loro cose e mi prendevano a braccetto per avviarci verso l’uscita.


“Mi fanno male i piedi! Non riesco più a fare un passo!” piagnucolai schiantandomi a sedere su un muretto a cui poco prima avevo involontariamente dato un calcio: ormai i piedi facevano talmente male che non riuscivo bene a controllare il mio passo.
“Accidenti!! Non trovo più le chiavi della macchina!! Ma le avevo quando siamo uscite dal cancello, quando ho controllato il telefono…cavolo! Che mi siano cadute lì??”
“Miriam, spero che tu stia scherzando!” strabuzzai gli occhi mentre dicevo queste parole.
“Dai, su non preoccupiamoci prima del tempo, torniamo indietro a cercarle” rispose Emily, come sempre la più diplomatica tra noi tre.
“Mi prendi in giro? Questo posto è enorme! Ci sarà almeno mezz'ora a piedi per tornare a quel cancello, e di buon passo, cosa che sicuramente io non avrò più per almeno qualche giorno, ammesso che mi ritorni una sensibilità normale delle estremità inferiori!!” le dissi in tono lamentoso.
“Tranquilla, non c’è bisogno che venga anche tu: rimani pure qui ad aspettarci, ma fai attenzione” affermò Emily.
Miriam iniziò “ma Emily..”
“Miriam, hai visto quanto è larga questa strada? Non puoi andare a cercare le chiavi da sola, ci metteresti una vita. E poi Sophie non può esserci utile, direi, e non vorrei trascinarmela dietro lamentosa com’è in questo momento”, la zittì Emily.
Miriam mi mise vicino il suo cellulare: “è quasi scarico, ma credo che possa reggere per qualche minuto, se succedesse qualcosa …mi raccomando! Aspettaci esattamente qui!” mi ammonì di nuovo la mia amica.
“Ok, ok, non so dove pensi che io possa andare conciata in questo modo” le ricordai, allungando le gambe oltre il muretto dove mi ero seduta, borbottando tra me e me che ero capacissima di badare a me stessa.



“”AHI!!” mi svegliò un dolore intenso alla gamba destra, poco sopra la caviglia, mentre rotolavo sull’asfalto battendo il fianco sinistro. “Accidenti, ma non guardi dove metti i piedi??” sibilai in direzione della persona mugolante che aveva appena fatto un tonfo davanti a me, massaggiandomi il punto dolente mentre a fatica mi risvegliavo. “Fantastico, già avevo male ai piedi, ci mancava un genio che inciampa sulla mia caviglia!!”
“Che male!!  Ma ti sembra normale addormentarti quasi sdraiata su un marciapiedi? è inevitabile che prima o poi qualcuno ti passi sopra!!  Accidenti, la mia mano…” disse lui.
C’era qualcosa di strano in quella voce. Ero ancora nel dormiveglia?
“ No, hai ragione, scusa, mi sono addormentata, mi sono seduta un attimo perché non riuscivo più a stare in piedi per via dell’attesa e di tutto quel saltare..” ammisi, ancora un po’ intontita. Perché stavo parlando in inglese? Non lo parlavo più da quasi dieci anni, da quando papà è morto e noi ci siamo trasferiti in Italia.

Credo che sia stato il tocco della sua mano a farmi realizzare quello che stava succedendo. Una stretta appena sotto il mio braccio per rimettermi in piedi, una mano lievemente fresca, ma dalle dita forti.
“Stai bene?” mi chiese, e mi rialzò con tanta forza che per poco non gli caddi addosso. La mia mano sinistra d’istinto frenò l’impatto contro il suo petto, e così riuscii a avvertire il profilo dei muscoli sotto la maglietta un po’ umida.  Non riuscivo a rispondere, mentre la mia mano rimaneva come incollata al tessuto leggero ma ampio.  Non riuscivo nemmeno a respirare.

“Ehi, ti ho chiesto se stai bene ragazzina. Che c’è, non mi hai sentito? Così come non mi hai visto arrivare, eh?” ironizzò Jared.
Qualcosa in quel tono irritato e vagamente sarcastico doveva avermi risvegliato dal torpore: “veramente, no, non ti ho visto replicai.
Il silenzio che ne seguì un po’ mi spaventava: chissà che cosa stava pensando di me, la solita ragazzina che si incantava davanti a lui e poi cercava di fare la dura.  Invece lo sentii afferrarmi anche l’altra spalla e portarmi sotto la luce del lampione più vicino, con una strana delicatezza.
“Tu sai chi sono, vero?” mi sussurrò sulla fronte, mentre allentava la presa dalle mie spalle. Sentivo il suo sguardo percorrere il mio viso.

“E come non potrei? Sono cieca, non stupida. Forse non riesco a vedere i tuoi acclamatissimi occhi di ghiaccio, o i tuoi capelli che mi dicono ti diverti a tingere e tagliare nelle più svariate pettinature, ma la tua voce, la tua voce la conosco meglio della mia” ribattei, cercando di fare la sostenuta ma lasciando in realtà trasparire tutto il mio amore in quelle parole.
“Non mi vedi” mi disse Jared d’un fiato, con un tono a metà tra il dispiaciuto e l’allibito “ecco perché - aggiunse, a bassa voce - e sei venuta al concerto. Come? Perché?”.
“Perché voi tre suonate insieme?” ribattei, prendendolo evidentemente alla sprovvista, mentre sentivo la sua presa farsi più debole e le sue mani scendere dalle mie spalle verso i miei gomiti.
“Perché ci divertiamo, perché vogliamo creare, perché vogliamo che gli Echelon si sentano una famiglia, e per molte altre ragioni” mi rispose dopo un attimo di esitazione.
“Ecco perché sono venuta al concerto stasera. Le mie amiche, loro mi hanno accompagnato, loro sapevano cosa significasse per me, cosa significa per tutti noi. Noi ci divertiamo, creiamo, e siamo una grande famiglia.  Puoi giocare a fare la diva quanto vuoi, Jared, ma alla fine, quando sali su quel palco, il vero spettacolo è l’atmosfera che create per noi, la tua voce, la chitarra di Tomo che ci accarezza e il battito di Christine che ci sferza.. non dispiacerti per me, non ho bisogno di vedervi in faccia per sapere che siete – che siamo – bellissimi”, sorridevo tra me e me mentre dicevo queste parole, pensando all’uomo che mi stava davanti, la cui voce sapeva lenire le mie sofferenze e farmi coraggio, la cui vanità probabilmente si sarebbe sentita mortificata dal fatto che non potevo adularlo come le altre ragazze che già aveva incontrato in passato…
“Sai Jared, a volte penso di essere più fortunata delle altre Echelon, solo per qualche momento, quando mi rendo conto che io, più di chiunque altro, posso capire cosa significa il verso Automatic, I imagine, I believe. Il mio credere in voi è quanto di più viscerale e cerebrale io abbia mai provato.
Io immagino i tuoi video, immagino di vederti salire sul palco, immagino Shannon che percuote Christine con forza e maestria, e Tomo far vibrare le note sulle corde della sua chitarra quanto su quelle del mio cuore. Io credo in tutto questo perché lo posso immaginare.
Ho imparato a conoscervi solo tramite la vostra musica e le vostre parole, non ho mai potuto vedere un vostro video, e per quanto abbiano provato a descrivermi il vostro aspetto, non so realmente come siete. Oh, si, mi sono fatta un’idea di voi, ma ovviamente, non potrò mai davvero saperlo. Ma in fondo non importa: non vi ho mai visto, ma vi conosco meglio di chiunque altro
”.


Appena ebbi detto questo, Jared fece scivolare ancora più giù le sue mani, lentamente, fino a incrociarle con le mie. Chissà che spettacolo strano dovevamo essere, un uomo che teneva le mani di una ragazzina che a stento gli arrivava sotto il naso. Era una strana sensazione, l’idea di avere qualcosa che Jared Leto non poteva capire sulla propria pelle, come se con le mie parole lo stessi tenendo sospeso su un filo.

All’improvviso alzò le nostre braccia e sentii sotto le mie dita qualcosa di morbido: potevo sentire distintamente il mio cuore che si tuffava verso il basso, non era possibile che stessi toccando i capelli di Jared Leto! Era risaputo che era la cosa che, in assoluto, gli dava più fastidio gli si toccasse! Eppure, le mani che fino a quel momento erano rimaste intrecciate alle mie si erano liberate e mi stavano guidando lungo i contorni della sua testa. Combattevano contro il mio istinto, che mi diceva che non era il caso di irritare in quel modo il frontman della band che da qualche anno a quella parte era diventata una parte essenziale di me.

“Voglio che tu mi veda davvero” sussurrò, guidando le mie mani verso le sue tempie.
E le mie dita incerte e incredule tracciarono lievi i lineamenti regolari e simmetrici di quell’uomo, che segretamente nei miei sogni desideravo avere vicino più degli altri componenti della band, percorsero la linea della sua mascella aggraziata eppure mascolina, apprezzando quell’accenno di barba sulle guance altrimenti lisce.
Non riuscii a trattenere un enorme sorriso che mi illuminò il viso, mentre dentro la mia mente queste sensazioni davano vita a un ritratto dell’uomo che fino a quel momento avevo solo immaginato. Chiusi gli occhi per permettere alla mia immaginazione di lavorare al meglio, e percepii le dita di Jared sui lati del mio viso, che tentavano di imitare i miei gesti di conoscenza tattile.
Mi lasciai accarezzare da quelle mani che sapevano di dolce, di luce e di acqua che scorre, gli permisi di percorrere i tratti del mio viso, mentre le mie facevano altrettanto. Mentre sfioravo delicatamente i suoi occhi, li sentii chiusi e concentrati a creare di me un’immagine non viziata da colori o da luci, solo la pura essenza di ciò che sono. Mi lasciai sfuggire una lacrima di gioia, che rotolò veloce sulle sue dita bagnandole leggermente, strappando all’uomo di fronte a me un sorriso che le mie mani non avrebbero mai potuto dimenticare, mai.

Mi attirò a sé e mi strinse in un abbraccio. Gli posai il capo sulla spalla sinistra, il viso rivolto verso il suo petto, e ora lo sentivo distintamente: un profumo vagamente dolce e muschiato, come l’aria di montagna con l’ultima fioritura della stagione.
Sorrisi, e credo che lui lo abbia percepito; mi strinse a sé un po’ più forte. Sussultai, e mi sfuggì un gemito lieve di dolore, “ la transenna”, spiegai a mezza voce.
Si chinò più in basso, all’altezza delle mie coste, alzò esitando la mia canottiera solo quel che bastava a scoprire i lividi che stavano iniziando a prendere forma sotto la mia pelle. La testa mi girava, ma lui con l’altra mano ancora mi stringeva la vita, in parte sorreggendomi, mentre un brivido visibile mi attraversava da capo a piedi. Avrei tanto voluto vedere l’espressione del suo viso quando lesse, proprio sotto il mio seno sinistro, poco sotto il cuore, le parole tatuate : Automatic, I imagine, I believe. Posò un bacio delicato su ognuna di quelle parole e su ogni ombra rossa che presagiva un futuro livido, tenendomi per la vita con una mano e cingendomi il bacino con l’altra, probabilmente temendo che le ginocchia mi cedessero e gli crollassi addosso.

Oh Jared, non sai quanto avevi ragione.

Quando si rialzò, la sua mano destra risalì lungo il mio fianco in direzione del collo, mentre la sua voce mi mormorava in testa “Into the night, desperate and broken..”. Jared mi stava cantando sommessamente Kings and Queens, o forse era solo la mia immaginazione, non poteva davvero essere che tutto questo stesse capitando a me.
“In defense of our dreams..” proseguiva la melodia che ogni parte di me conosceva, mentre l’indice di Jared scendeva dalla linea dell’ orecchio destro verso il mio petto.
“..we were the kings and queens of promise..”, il suo polpastrello disegnava la traccia della mia collana triad, mentre le mie labbra in automatico seguivano le sue nelle parole del ritornello finale.

“Ti ho vista, in prima fila, mentre selezionavo le persone per la church: ti ho indicato due volte mentre ti passavo davanti, e non capivo come mai non ti muovessi dal tuo posto” disse “Ora – e mi baciò l’occhio destro – so – e baciò l’occhio sinistro – perché”, avvicinando le sue labbra alle mie.
E il sapore ancora salato delle mie lacrime, che le sue labbra avevano raccolto appena prima, incontrò il mio palato, mentre quel profumo di dolce e montagna inondava i miei sensi e la pelle bruciava in ogni centimetro di contatto fisico con la sua.
Fu un attimo, e mentre scostava appena le labbra dalle mie, sentii che sussurrava “And eyes that see into infinity”.

È in quel momento che svenni, penso. Probabilmente il mio piccolo cuore non poteva reggere tutte quelle emozioni. Mi svegliai dopo qualche ora, in un posto che non conoscevo, ma sentivo bene le mie mani strette tra le dita di qualcuno che, ne ero quasi certa, dovevano essere Miriam e Emily.
“Dove sono? Che mi è successo?” mormorai, tentando di aprire gli occhi, anche se sapevo che non avrebbe fatto nessuna differenza.
“Finalmente ti sei svegliata, ci hai fatto preoccupare! Sei al pronto soccorso, eri disidratata, pensano che sia per questo che sei svenuta!” urlò Miriam, stritolandomi nel suo abbraccio come se volesse scusarsi di avermi lasciato lì su quel muretto tutta sola.
“Oh!– esalai – quindi…quindi sono svenuta? Quindi.. era tutto nella mia testa?” chiesi, con le lacrime agli occhi.
“Tesoro, cosa era nella tua testa?” mi domandò Emily, premurosa ma preoccupata.
“No…no, niente ragazze, non preoccupatevi, ora sto bene, credete che potremmo tornare a casa?” dissi, ricacciando indietro le lacrime. Non potevo piangere per una cosa che non era realmente successa, no?
“Vado a parlare con il medico” mi informò Miriam “così vediamo quanto ci vuole per farti dimettere” e sentii il rumore inconfondibile delle sue Converse allontanarsi  lungo il pavimenti del corridoio del pronto soccorso.
A proposito, meno male che siamo arrivate noi, altrimenti chissà cosa poteva succederti – mi rimproverò amorevolmente Emily – infatti quando ti abbiamo vista a terra da lontano abbiamo iniziato a correre, perchè accanto a te c’era qualcuno accovacciato che ti stava posando qualcosa sul petto… e quando abbiamo urlato il tuo nome correndo, lui si è voltato ed è sparito nel buio verso l’arena, meno male che siamo arrivate in tempo! Avrebbe potuto farti del male, sai?”.
“Chi..cosa..cosa ha lasciato?”, la mia voce sussultava mentre pronunciavo quelle parole.
“Una maglietta, tipo quelle che usa Jared durante i concerti, dev’essere stato qualcuno che è venuto vestito come lui.. ce ne sono di emulatori in questi concerti, lo sai, però chissà perché te l’ha lasciata” finì la frase ridacchiando.
“Me..me la passi?” la mia voce non voleva saperne di tornare alla normalità.
Emily tese verso la mia mano un tessuto morbido, leggero, appena umido. Lo portai al viso: quel profumo vagamente dolce e muschiato mi confermava che non l’avevo solo immaginato.

Sorrisi, mentre le mie dita tremavano un pò ricordando il viso di Jared Leto.
  
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