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Autore: IvanaEfp    19/10/2011    8 recensioni
«Vorrei toccare una stella, papà.»
«Rincorrila.»
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rincorrendo una stella
«Vorrei  toccare una stella, papà.»
«Rincorrila.» 
Alessandro aveva poco più di nove anni quando per la prima volta incontrò una stella.
Fino ad allora, dopo che suo padre era andato via - suo fratello per mano, le valigie in macchina e, in tasca, le briciole del suo cuore- , aveva smesso di sperarci.
Non passava più le notti nella casetta sull’albero nell’attesa che una stella bussasse all’improvvisata porta a tendina.
Aveva persino smesso di parlarne con sua madre che, dopo il divorzio, aveva trovato un lavoro in un locale notturno.
La vedeva uscire tardi mentre chiudeva le finestre, abbassando lo sguardo per non lasciarsi folgorare dalla luce fioca di un corpo celeste, e cercava di essere forte, di non piangere, di non avere paura.
«Non voglio restare solo di notte, mamma, ho paura.» 
«Smettila di frignare. Non sei più un bambino.» 
 
L’aveva incontrata di notte nel vialetto di casa sua - gli occhi bassi a seguire l’auto girare l’angolo e le lacrime a offuscargli gli occhi: gli occhi di un bambino.
Il ragazzino rovistava nei cassonetti sul marciapiede e, di tanto in tanto, gettava un’occhiata malconcia alle sue spalle.
Aveva l’aspetto denutrito e, anche da lassù, Alessandro sentì di voler conoscere la sua storia.
«Sei nuovo?» urlò - le mani a coppa sulla bocca e un sorriso sornione.
«Ho fame».
«Sali; ho della pizza.» 
Il bambino mangiò con voracità, leccandosi le dita una a una e sorridendo, di tanto in tanto, in gesto di gratitudine.
Adìl gli raccontò della sua famiglia, del traghetto sbarcato a Lampedusa e del pane duro che aveva nello zaino.
«Ho cercato di mangiarlo poco alla volta, poi mia madre ha detto che ero grande e potevo farne a meno.» 
Alessandro scorge tanto di sé in quel corpo stanco e sporco: si rivede in un padre che, come quello di Adìl, l’abbandona; in una madre che da un momento all’altro sparisce dalla sua vita.
Ed è per l’eccezionale somiglianza che lo nasconde nella casetta di legno in giardino, portandogli del cibo e dei giocattoli.
E’ perché, così, eviterà di pensare a suo padre e alle stelle.
Alessandro ora ha quindici anni, della barba appena accennata intorno alle labbra carnose e gli occhi sereni.
Non litiga più con sua madre, nemmeno per Adìl;  lo stesso Adìl, ora, vive con lui, nella sua camera.
Di notte si raccontano delle storie: a volte lui parla della guerra, dei soldati che l’avevano costretti a fuggire, di quel giocattolo dimenticato sotto il letto e dei suoi amici, della sua misera scuola, della ragazzina che avrebbe dovuto sposare..
Altre volte parlano dei nuovi videogiochi e di come vada avanti il mondo, o, altre ancora, Alessandro gli racconta e spiega le stelle.
«Tu lo sai che porti il nome di una stella?».
Il ragazzo aveva scosso fragorosamente la testa, per poi stringersi nelle coperte e guardare fuori, in quel cielo tanto grande e scuro.
Si chiedeva spesso quanti misteri si nascondessero dietro quelle ombre, e se tutto fosse monopolizzato da un Dio, o un Buddha o un Allah.
«Mio padre lo tiene  annotato sul suo taccuino. Da Al Dahil, di origine araba, che vuol dire …»
«Lo strascico del vestito.»
«Si trova nella costellazione di Andromeda, e dista 196 anni luce da noi. Papà diceva che …»
Adìl lo fermò, gli occhi chiusi e una mano a stringere quella dell‘amico. «Hai mai desiderato toccarne una anche solo per un minuto? Sentire se brucia, se è fredda. O anche solo capire perché tutti ci vedono specchi illuminati a cui confidar tutto? Non parlano, dannazione, e allora perché?»
«Le stelle parlano a chi sa ascoltarle.»
Adìl parve rifletterci - il broncio di un ragazzino dall‘aria vissuta, l‘ombra di un uomo che ha sofferto tanto e che ha tanto da dare, da dire, da sognare. 
«Le stelle mi dicono una cosa, ora.»
A Alessandro torna in mente quando suo padre gli raccontava dei suoi progetti, di quando tutto succedeva grazie ai suoi racconti sulle stelle.
Si stringe nelle spalle e lascia che la mano si stringa più forte all‘altra, in gesto di rassicurazione.
«Mi dicono che presto devo andare. Questa non è casa mia.»
Adìl, proprio come avevano detto le stelle, se ne andò due anni dopo.
Il cancro lo consumò piano, riducendolo ad un ammasso di sospiri e imprecazioni.
Morì di notte, mentre Alessandro continuava a raccontargli delle stelle che s’intravedevano dalla finestra della sua camera; morì mentre la mano dell’amico stringeva forte la sua, mentre un sorriso fiducioso riscaldava il suo volto.
Alessandro non pianse: aveva rincorso la sua stella, l’aveva trovata in un cassonetto, sporca e affamata, e l’aveva stretta e ammirata per quanto gli era stato possibile.
Alessandro, ora, è finalmente diventato grande.
 


Per Aika, per augurarle un felicissimo compleanno.

Per Aika, perché le voglio bene, e non sempre trovo il coraggio di dirglielo.

 

Rincorrendo una stella



«Vorrei  toccare una stella, papà.»

«Rincorrila.» 




Alessandro aveva poco più di nove anni quando per la prima volta incontrò una stella.

Fino ad allora, dopo che suo padre era andato via - suo fratello per mano, le valigie in macchina e, in tasca, le briciole del suo cuore- , aveva smesso di sperarci.

Non passava più le notti nella casetta sull’albero nell’attesa che una stella bussasse all’improvvisata porta a tendina.

Aveva persino smesso di parlarne con sua madre che, dopo il divorzio, aveva trovato un lavoro in un locale notturno.

La vedeva uscire tardi mentre chiudeva le finestre, abbassando lo sguardo per non lasciarsi folgorare dalla luce fioca di un corpo celeste, e cercava di essere forte, di non piangere, di non avere paura.



«Non voglio restare solo di notte, mamma, ho paura.» 

«Smettila di frignare. Non sei più un bambino.» 


 


L’aveva incontrata di notte nel vialetto di casa sua - gli occhi bassi a seguire l’auto girare l’angolo e le lacrime a offuscargli gli occhi: gli occhi di un bambino.

Il ragazzino rovistava nei cassonetti sul marciapiede e, di tanto in tanto, gettava un’occhiata malconcia alle sue spalle.

Aveva l’aspetto denutrito e, anche da lassù, Alessandro sentì di voler conoscere la sua storia.

«Sei nuovo?» urlò - le mani a coppa sulla bocca e un sorriso sornione.

«Ho fame».

«Sali; ho della pizza.» 

Il bambino mangiò con voracità, leccandosi le dita una a una e sorridendo, di tanto in tanto, in gesto di gratitudine.

Adìl gli raccontò della sua famiglia, del traghetto sbarcato a Lampedusa e del pane duro che aveva nello zaino.

«Ho cercato di mangiarlo poco alla volta, poi mia madre ha detto che ero grande e potevo farne a meno.» 

Alessandro scorge tanto di sé in quel corpo stanco e sporco: si rivede in un padre che, come quello di Adìl, l’abbandona; in una madre che da un momento all’altro sparisce dalla sua vita.

Ed è per l’eccezionale somiglianza che lo nasconde nella casetta di legno in giardino, portandogli del cibo e dei giocattoli.

E’ perché, così, eviterà di pensare a suo padre e alle stelle.





Alessandro ora ha quindici anni, della barba appena accennata intorno alle labbra carnose e gli occhi sereni.

Non litiga più con sua madre, nemmeno per Adìl;  lo stesso Adìl, ora, vive con lui, nella sua camera.

Di notte si raccontano delle storie: a volte lui parla della guerra, dei soldati che l’avevano costretti a fuggire, di quel giocattolo dimenticato sotto il letto e dei suoi amici, della sua misera scuola, della ragazzina che avrebbe dovuto sposare.

Altre volte parlano dei nuovi videogiochi e di come vada avanti il mondo, o, altre ancora, Alessandro gli racconta e spiega le stelle.

«Tu lo sai che porti il nome di una stella?».

Il ragazzo aveva scosso fragorosamente la testa, per poi stringersi nelle coperte e guardare fuori, in quel cielo tanto grande e scuro.

Si chiedeva spesso quanti misteri si nascondessero dietro quelle ombre, e se tutto fosse monopolizzato da un Dio, o un Buddha o un Allah.

«Mio padre lo tiene  annotato sul suo taccuino. Da Al Dahil, di origine araba, che vuol dire …»

«Lo strascico del vestito.»

«Si trova nella costellazione di Andromeda, e dista 196 anni luce da noi. Papà diceva che …»

Adìl lo fermò, gli occhi chiusi e una mano a stringere quella dell‘amico. «Hai mai desiderato toccarne una anche solo per un minuto? Sentire se brucia, se è fredda. O anche solo capire perché tutti ci vedono specchi illuminati a cui confidar tutto? Non parlano, dannazione, e allora perché?»

«Le stelle parlano a chi sa ascoltarle.»

Adìl parve rifletterci - il broncio di un ragazzino dall‘aria vissuta, l‘ombra di un uomo che ha sofferto tanto e che ha tanto da dare, da dire, da sognare. 

«Le stelle mi dicono una cosa, ora.»

A Alessandro torna in mente quando suo padre gli raccontava dei suoi progetti, di quando tutto succedeva grazie ai suoi racconti sulle stelle.

Si stringe nelle spalle e lascia che la mano si stringa più forte all‘altra, in gesto di rassicurazione.

«Mi dicono che presto devo andare. Questa non è casa mia.»






Adìl, proprio come avevano detto le stelle, se ne andò due anni dopo.

Il cancro lo consumò piano, riducendolo ad un ammasso di sospiri e imprecazioni.

Morì di notte, mentre Alessandro continuava a raccontargli delle stelle che s’intravedevano dalla finestra della sua camera; morì mentre la mano dell’amico stringeva forte la sua, mentre un sorriso fiducioso riscaldava il suo volto.

Alessandro non pianse: aveva rincorso la sua stella, l’aveva trovata in un cassonetto, sporca e affamata, e l’aveva stretta e ammirata per quanto gli era stato possibile.

Alessandro, ora, è finalmente diventato grande.


 

 

 

   
 
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