Anime & Manga > X delle Clamp
Ricorda la storia  |      
Autore: Natalie Baan    26/06/2006    9 recensioni
[Tokyo Babylon] Un normale giorno di lavoro per Subaru… ma, per chi sa guardare, forse c’è qualcosa di più… Una fanfiction famosa tra i fans di lingua inglese, in puro stile Tokyo Babylon, al riparo da spoiler. Da leggere con attenzione…
Genere: Sovrannaturale, Mistero, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Seishiro Sakurazuka, Subaru Sumeragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

[In autentico stile “Tokyo Babylon”, dolce, ma anche un po’ triste. Io vi ho avvertito.]

 

Little Green-eyes

di Natalie Baan  (traduzione di Shu)

 

 

Con una mano sulla testa per reggersi il cappello, Subaru alzò lo sguardo. Osservò il breve, ripido pendio che portava ai muri in rovina che lo sovrastavano. Carbonizzati, si stagliavano con il loro profilo irregolare contro il cielo di un azzurro perfetto, i loro duri bordi proiettati sullo sfondo di un improvviso sollievo. Un soffio d’aria faceva tremolare le foglie piene di sole degli alberi che circondavano quei muri, e portava le note lontane di qualche campana del vento appesa in una delle altre case lungo la strada. Subaru fece un piccolo sospiro, e poi cominciò a salire su per gli stretti gradini di pietra. Camminava lentamente, passando tra i rami dei bossi e dei tassi che si protendevano fin sulle scale, visto che gli arbusti erano cresciuti disordinatamente da entrambi i lati della gradinata.

Quella proprietà era appartenuta ad una famiglia di quattro persone: una giovane coppia e due bambine piccole. Erano tutti morti nell’imprevisto, furioso incendio che aveva devastato la loro casa, distruggendo ogni cosa tranne quello scheletro di mura incenerite e cadenti. Da allora, i vicini avevano riferito di strani rumori, e luci: di notte, tra gli alberi balenava un fermo riflesso dorato, e si udivano suoni di bambini, risate e giochi. L’uomo che aveva acquistato il terreno intendeva demolire tutto per ricostruirci –in una zona così ambita, una casa nuova avrebbe reso un sacco di soldi- ma temeva di avere problemi con i clienti, preoccupato di rimanere, alla fine, con sul groppone una casa che nessuno voleva comprare perché si diceva fosse infestata. Quindi aveva contattato la famiglia Sumeragi –non che, aveva commentato disinvolto, credesse davvero che la visita di un onmyouji avrebbe placato qualche fantasma, ma l’aveva fatto perché si spargesse voce e tutte quelle dicerie fossero messe a tacere: la questione veniva affidata al gruppo più prestigioso sulla piazza, reputazione contro reputazione, chiodo scaccia chiodo.

Il lavoro è lavoro, Subaru lo sapeva, ma ci rimaneva male lo stesso quando la gente lo prendeva solo per una vuota formalità o uno status symbol.

Raggiunse la fine della scalinata. La luce del sole cadeva a perpendicolo sul piccolo prato di fronte alla casa, facendolo scintillare come una parure di smeraldi tra gli alberi. Se pure gli aceri che nascondevano l’abitazione dalla strada avevano subito danni, adesso erano coperti dalle nuove foglie di primavera. Subaru osservò l’edificio privo del tetto, la porta della facciata ormai sparita, la sommità dei muri sgretolata, e poi si girò per guardare di nuovo i gradini che portavano al sentiero perso fra i rami, verso la strada. Non doveva essere stato facile per i pompieri giungere fin dentro la casa, pensò –c’era anche il fatto che la casa era vecchia, e doveva aver ceduto in poco tempo. Forse, quando i vigili del fuoco erano arrivati, era già troppo tardi.

Avvicinatosi al vano vuoto della porta, salì il gradino della soglia, reggendosi con tutte e due le mani agli stipiti. Sbirciò dentro la casa bruciata. Tegole e travi crollate, carboni e cenere incrostata ricoprivano il pavimento, che una volta doveva essere rivestito di parquet. Con molta cautela, si apprestò ad entrare, tastando il terreno prima con un piede –Hokuto si sarebbe spaventata a morte se fosse precipitato in qualche sotterraneo, e gli avrebbe fatto una scenata di un’ora come minimo per essersi messo in pericolo. Non voleva certo farla preoccupare inutilmente. E Seishiro, che avrebbe tirato fuori battute sul fatto di andare a salvarlo…

Sarebbe stato molto, molto attento, decise Subaru.

Un pochino rosso in viso, avanzò tra le mura scheletrite della casa, camminando con cautela fra le macerie, tenendosi alla larga dalle pareti che potevano essere pericolanti. Allo stesso tempo, lasciò dispiegarsi l’altra sua sensibilità, cercando segnali di rilievo tra i cambi di temperatura, tra i giochi di luci e ombre, cercando le tracce di influenze psichiche che potevano nascondersi dietro quei fenomeni. Da qualche parte in mezzo a quella desolazione c’era un luogo spirituale: un nodo di energie, al centro del quale si trovava quell’entità che stava disturbando il mondo mortale. Individuarlo era la prima parte del suo lavoro. Concentrandosi, protese le sue percezioni, aprendo il suo essere, a metà tra controllo e trance…

Una cosa bassa, sinuosa e fugace si mosse al margine della sua visuale. Si girò di scatto per cercarla. Un piccolo gatto soriano si era fermato a metà di un passo sotto un’architrave crollata. Fissava il ragazzo, i suoi occhi due scintillii indecifrabili, color verde chiaro, schermati dal sole.

Per quasi un minuto intero Subaru, di colpo riportato alla realtà, ricambiò quello sguardo.  Poi, quando l’animale si fu abituato alla sua presenza, anche il ragazzo si rilassò, scacciando in lunghi respiri la tensione della sorpresa. Con un sorriso, si accovacciò per terra, allungando una mano in segno d’invito. “Ehi, tu, ciao.” Il gatto si spaventò, una zampa sollevata mentre lo guardava con profondo sospetto. “No, non ti faccio niente.” Lui rimase tranquillo, nel corpo e nel cuore, senza nulla pretendere e senza insistere, per far sì che l’animale capisse le sue buone intenzioni. “Vieni qui, gattino, dai.”

Il gatto esitò, poi rimise a terra la zampa, poi l’altra, e alla fine si mosse circospetto verso di lui. Il ragazzo osservò la sua camminata elegante, una precisa linea di passi, la sua testa abbassata, le spalle strette che si alzavano e abbassavano alternativamente, e ammirò la grazia delle movenze di quel corpicino, guardingo eppure disinvolto, il pelo argenteo striato di nero che si corrugava mentre i muscoli sotto di esso danzavano in un concerto perfetto. L’animale si fermò a distanza di sicurezza da lui e sollevò la testa; Subaru abbassò appena la mano, lasciando che il micio gli annusasse la stoffa scura dei guanti. Alla fine, il gatto si chinò all’improvviso per strusciarsi lo zigomo sulle dita di lui. Subaru prese a fargli grattini sulla mascella, e l’animale si piegò in quella carezza, imperioso ed estatico, subito con forti fusa; e mentre lui gli accarezzava il dorso, e il gatto si godeva quel tocco, strusciandoglisi contro le ginocchia, nel suo sorriso si affacciò una punta di ansia. “Bravo micetto. Posso…?”

Il gatto s’irrigidì mentre Subaru faceva scivolare le mani sotto di lui per prenderlo in braccio. Fece molta attenzione a tenerlo per bene ma senza stringerlo troppo; gli concesse un momento per considerare la situazione, e alla fine il gattino si accomodò, con le zampe davanti piegate sul braccio di lui. Raggomitolato tra le sue braccia, le sue fusa sembravano aumentare, risuonando contro il petto del ragazzo. Lo sciamano si guardò intorno, poi attraversò un’apertura in un muro per entrare in quella che, dalle carcasse corrose di elettrodomestici, immaginò essere la cucina. Il muro di dietro della casa era quasi completamente andato, e parte delle fondamenta era allo scoperto; due bassi gradini di pietra indicavano dove una volta doveva esserci stata una porta. Vi si sedette, accanto ai resti riarsi di un arbusto o di un alberello piantato troppo vicino alla casa per poter essere sopravvissuto all’incendio, e lasciò che il gatto si mettesse a fargli le paste in grembo. Accarezzandogli con due dita la “M” rovesciata della sua fronte, restò a guardarlo mentre chiudeva gli occhi perso nella più completa soddisfazione. Quel pelo doveva essere così morbido, pensò. Anche la leggera brezza di prima era svanita, e l’aria era luminosa e ferma, con solo qualche raro richiamo di uccelli a ricordargli che lui e il gatto non erano soli nel mondo. Era tentato, solo per questa volta, di togliersi i guanti. Di sicuro nessuno lo avrebbe visto. Esitò, ma poi la memoria della voce della nonna lo trattenne, come sempre. Invece si tolse il cappello, appoggiandolo lì accanto. Piegandosi, accostò la guancia alla testa del gatto, e quello sopporto l’oltraggio –anzi, sembrò gradire quell’incerta carezza. Le fusa continuavano, costanti, e Subaru sentiva negli occhi come un minuscolo bruciore per quella fiducia così totale, per quel desiderare e quell’incondizionato accettare l’affetto.

Sollevando di nuovo la testa, studiò il piccolo cortile del retro: uno spazio vuoto, ora invaso dall’erba, con attorno altri alberi; una fioriera carica di peonie tutte sbocciate, in un tripudio di petali bianchi e rosa; una scatola per i giocattoli, senza il suo contenuto. Fece scorrere lo sguardo su, verso la perfetta limpidezza del cielo. Poi chiuse gli occhi, il capo ancora un po’ reclinato all’indietro, e provò a farsi altrettanto sereno, altrettanto aperto. Il gatto aveva poggiato il mento sulle zampe, e il ragazzo gli passava la mano lungo il dorso in carezze regolari, che seguivano il ritmo del suo respiro, mentre metteva in equilibrio il suo essere e aspettava, in quell’immobilità.

Mentre diventava lui stesso quell’immobilità…

Dopo un certo lasso di tempo, avvertì prima una sensazione di presenza, indifferenziate, lievi pressioni che si facevano sempre più forti, che a poco a poco cominciavano a distinguersi l’una dall’altra: una fissità calda e lenta; poi qualcosa di veloce e impulsivo, ma dolce; e infine una doppia vibrazione, simile alla pioggia quando tamburella sulle foglie, o a un frullo d’ali su uno specchio d’acqua immobile. Tutte queste cose si agitavano e vorticavano intorno a lui come il mare attorno al molo, senza curarsi di lui più di quanto il mare si curi del molo. Voci appena percettibili si levavano mentre il flusso spirituale si faceva più profondo, ma rifiutandosi di varcare la soglia della comprensibilità: erano soltanto un mormorio di sillabe sconnesse, timide, quasi si vergognassero ad assumere un significato. Negli spazi tra di esse andava e veniva una musica sottile, stralci di una canzone vagamente familiare ma mai del tutto riconoscibile. E poi c’erano anche i profumi, sorprendenti per quanto erano intensi, evocativi: l’odore corposo dell’olio messo a scaldare, l’aroma forte del pesce –tempura, pensò, poteva quasi sentire il sapore della pastella— e la fragranza di amido e vapore del riso sul fuoco, tutto così vero da fargli venire l’acquolina in bocca e da costringerlo ad inghiottire a vuoto per qualcosa di repentino e doloroso che gli serrava la gola. Il gatto continuava a fargli le paste, compiaciuto, sulla gamba, pungendolo appena appena con le unghie tirate fuori per metà. La musica svaniva, ma altri rumori venuti dal nulla prendevano il suo posto, si intensificavano, si acuivano, passi lenti, poi altri più rapidi, il trillo di una risata argentina –e poi, più tangibile dei suoni o degli odori o addirittura del gatto sonnacchioso sotto le sue dita, c’era un improvviso impeto di felicità: l’impressione di essere avvolto in un senso di appartenenza così assoluto da fargli pizzicare di nuovo gli occhi, un bruciore acuto e umido. Il sole, che aveva fino ad allora brillato dietro le sue palpebre, adesso perdeva la sua forza, veniva sostituito da ombre chiare, che si muovevano armoniosamente. Spazzato, toccato al cuore dalla sensazione di essere perfettamente a casa, al sicuro e amato, Subaru rabbrividì, trattenne il respiro.

“Mi dispiace.” sussurrò alla fine. “Mi dispiace davvero. Ma…”

“E’ ora di andare nell’altro mondo.”

Muovendosi con cautela, come per non disturbare il gatto, si frugò nella tasca e ne estrasse un ofuda. Se lo portò al livello della fronte, reggendolo con due dita, e poi lo scagliò.

“On.”

Aprì gli occhi. Diafani, luminosi petali fluttuavano tutto intorno a lui, languidi e ultraterreni, come minuscole meduse traslucide erranti nel tramonto. Lui li vide solo con la coda dell’occhio, notando appena come lo scenario intorno a lui si fosse rabbuiato –una cosa normale per le sue percezioni- la sua attenzione era essenzialmente concentrata sul suo lavoro.

“On –batarei ya sowaka.”

Sentiva che quelle presenze che abitavano l’aria, che frusciavano attorno a lui ancora non mostravano nessuna reazione verso il suo incantesimo. Le cose non dovevano stare come aveva pensato.

“On –sowa hamba shuda saraba taraman wa hamba shudokan.”

Abbassando la mano, sfiorò il pezzo di carta carico di energia che era scivolato sulla testa del gatto, tra le sue orecchie…

“On.”

…e il gatto si dissolse con un lieve suono cantilenante, simile al verso dei suoi shikigami: una nota sottile e malinconica, un miagolio interrogativo.

Il suo grembo era vuoto.

Tremante, lasciò andare il respiro che fino ad allora aveva tenuto a freno. Esitò, poi serrò di nuovo gli occhi per liberare i suoi secondi sensi, controllando l’area. Dove c’era stato quel vibrante ricordo di vita, adesso c’era solo assenza; dove c’erano stati gli echi delle voci, c’era il silenzio. Sentì il calore del sole ritornare, inondargli il viso. Battendo le palpebre, guardando verso l’altro, cercò con gli occhi i neri rami spogli dell’albero, il cielo uniforme come porcellana azzurra sullo sfondo, e li vide sfuocarsi, diffondersi e sbavare come caratteri scritti su carta bagnata mentre una familiare inquietudine lo riempiva: la pena per tutto quello che doveva essere distrutto, dissipato, la necessaria incombenza di un membro della famiglia Sumeragi.

Per le illusioni di una povera, smarrita, abbandonata creatura che non poteva capire che lei stessa e tutte le cose che aveva amato non esistevano più.

Dopo un po’, un uccellino provò ad emettere una voluta della sua canzone. Subaru si mosse e si passò distrattamente le mani sul viso. Recuperato il cappello, ritornò verso la facciata della casa, questa volta aggirando le rovine, passando tra le chiazze d’ombra degli alberi. Discese le scale, poi il suo passo diventò un po’ più veloce una volta raggiunto il sentiero; il ragazzo guardava di fronte a sé nella mezza sensazione di pregustare qualcosa, qualcosa di indefinito eppure pervaso di una promessa, e mentre si avvicinava alla strada la vista della figura alta che lo stava aspettando gli metteva dentro le ali –una sensazione rapida, palpitante, e strana- e allo stesso tempo donava a quelle ali tranquillità, un posto dove trovare la pace.

“Ah, Subaru-kun!” L’uomo se ne stava appoggiato al tronco di un piccolo gingko, a braccia conserte. Si staccò dall’albero appena arrivò Subaru. C’era un vago sentore di fumo intorno a lui: doveva aver finito una sigaretta giusto da un minuto o due. “Fatto?”

“Sì.” Avvicinandosi a Seishiro, Subaru sorrise alzando lo sguardo verso l’uomo, nell’animo l’usuale mescolarsi di allegro sollievo e di diffidenza nei confronti di quell’immancabile gentilezza: il fatto che Seishiro si offrisse sempre di accompagnarlo e riprenderlo dal lavoro.

“Ed è andato tutto bene?” La luce che filtrava tra le foglie a ventaglio proiettava irregolari macchie d’oro sul marciapiede. Il ragazzo vi lasciò scorrere lo sguardo, facendo udire un suono sommesso, neutro. E poi, dita forti scivolarono sotto il suo mento, dolcemente gli voltarono e sollevarono il viso, e Subaru si ritrovò a guardare Seishiro da una distanza molto, molto ravvicinata. Uno sfolgorio di sole batté sulle stanghette metalliche degli occhiali dell’uomo, unendosi a quella luce intensa, così particolare degli occhi castani dietro le lenti. “Subaru-kun” mormorò Seishiro, e il cuore di Subaru gli fece un balzo dentro al petto. Quello sguardo sembrava poter scrutare dritto nell’occhio del ciclone, nel punto al centro del dolore e del rimpianto, della confusione e della misteriosa meraviglia che lui stesso non riusciva neanche a intravedere. Incantato, impietrito, come sulla soglia di una segreta rivelazione, tremava, indeciso se fare un passo indietro oppure gettarsi a capofitto in quell’immenso ignoto. Chinandosi, Seishiro lasciò scorrere il pollice lungo la guancia di Subaru.

“Hai della fuliggine in faccia.” sussurrò.

Per un istante, Subaru restò smarrito a guardarlo –ma poi la consapevolezza gli piombò di nuovo addosso come uno schiaffo, come un fulmine, la vicinanza dell’altro, l’intimità di quella scherzosa, maliziosa carezza. Fece un salto indietro, coprendosi di scatto la faccia con le mani per nascondere il rossore, prova scottante del suo imbarazzo, insieme allo sporco. “Sei-Seishiro-san!”

Seishiro rise forte e si raddrizzò, con il suo solito, allegro sorrisino sotto i baffi: sembrava divertito del suo scherzo come sempre, quello sguardo penetrante era sparito quasi non fosse mai esistito. “Scusa, scusa!” ridacchiò mentre Subaru, ancora imbarazzato, si strofinava il viso cercando di mandar via lo sporco, per poi rendersi conto che non c’era modo di sapere se i guanti neri fossero puliti o stessero solo peggiorando la situazione. “Mi sa che ultimamente le mie dimostrazioni d’affetto hanno un po’ passato il limite. Tieni.” Gli offrì un fazzoletto, e Subaru esitò, non voleva sporcarlo, ma quando Seishiro glielo mise in mano lui lo chiuse tra le dita, non sapendo che altro fare.

“Senti, sai che ti dico?” aggiunse Seishiro, e il ragazzo sollevò cautamente lo sguardo mentre si passava il quadrato di stoffa bianca sul viso. “Hokuto-chan sarà a casa tra poco. Perché non le facciamo trovare una sorpresa, al ritorno da una massacrante giornata di shopping? Andiamo a casa tua e prepariamo una bella merenda. Che ne pensi?”

Subaru guardò l’uomo che se ne stava là, con quel sorriso caldo in volto, e le ultime tracce di allarme e disagio si sciolsero dentro di lui. Restituì a Seishiro il sorriso, preso da una sensazione di gioia completa, come il brillare di una luce accogliente, la luce di quella che si chiama casa. “Sì –dai, facciamo così!” Insieme si allontanarono sul marciapiede, verso il minivan parcheggiato dietro l’angolo, e Subaru pensava a quanto fosse fortunato ad avere due persone che gli volevano così tanto bene, e che erano così meravigliose con lui.

A terra, sotto il gingko, era rimasto nella fanghiglia un mozzicone di sigaretta: schiacciato, ancora spandeva il suo odore acre, odore di bruciato.

 

  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > X delle Clamp / Vai alla pagina dell'autore: Natalie Baan