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Autore: _camus_    21/10/2011    5 recensioni
Ogni stagione è legata all'altra, incontri e addii formano il cerchio, il sacro centro è la nostra armatura, dove tutto cambia, tutto è eguale.
[Marion Zimmer Bradley]

Un ricordo a stagione; uno per personaggio.
Memorie incancellabili fissate per sempre dallo scorrere ciclico di Primavera, Estate, Autunno e Inverno – comprese le mezze stagioni.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Aries Mu, Gemini Saga, Scorpion Milo, Virgo Shaka
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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2. Estate

2. Estate

 

 

«C’è la neve, nei miei ricordi, c’è sempre la neve, e mi diventa bianco il cervello se non la smetto di ricordare».

Il frutto migliore della sua fatica lo ha appena colpito con un Aurora Execution troppo freddo persino per il Signore dei ghiacci, eppure Aquarius riesce a dirsi soltanto questo.

A ben guardare, comunque, non c’è nulla di strano. Se è vero che i moribondi rivedono tutta la loro vita nell’arco di pochi istanti, Camus non potrebbe pensare a nient’altro che a quello cui ha consacrato l’intera esistenza: la neve, per l’appunto.

Improvvisamente, però, un’immagine diversa arriva a catturare con forza la sua attenzione sfilacciata.

Non si fa domande, né oppone resistenza; la accoglie anzi con quieta letizia, perché da tempo sapeva che sarebbe arrivata a porgergli l’estremo saluto.

La sua vecchia e sgualcita valigia marrone giaceva aperta sul letto, riempita fino all'orlo.

Tutto quello che possedeva era stato riposto con cura quasi maniacale al suo interno, e ricontrollato almeno una decina di volte.

Perché ancora non sapeva decidersi a chiuderla?

La stanza, senza quei pochi oggetti ad arredarla e a renderla più accogliente, sembrava un guscio vuoto, una storia incompiuta; un corpo senz'anima.

Un po’ come il resto della casa, in effetti.

In sua assenza solo polvere, silenzio e ombre avrebbero abitato il Tempio della Sacra Anfora.

Il Gran Sacerdote gli aveva parlato di molto, molto tempo: chissà se si sarebbe riconosciuto fra quelle mura alte e candide, a distanza di anni.

Si affacciò dalla finestra del soggiorno sovrappensiero, ignorando volutamente l'ondata di caldo torrido di inizio agosto che lo investì in pieno.

Da quella posizione poteva vedere un piccolo, lontano scorcio di Atene, che si stendeva per miglia e miglia sotto il Santuario; magari laggiù in fondo c'erano persone dedite a godersi le vacanze estive, turisti, passanti – uomini sereni e ignari di tante cose.

Lo stesso sole cocente che batteva sulle loro teste inondava di luce gli occhi di Camus, abbagliandolo.

«Il sole di Siberia non è così giallo».

La Siberia orientale non era solo una distesa uniforme di iceberg e nevi perenni, no, lui lo sapeva per esperienza.

Lì la Bora sussurra di leggende arcane a chi la sa ascoltare, e lo scintillio dei cristalli ghiacciati sul terreno ricorda il brillare di una gemma preziosa; di notte il fulgore delle stelle accende la landa di luce propria, tanto che sembra di camminare fra terra e cielo.

Luogo magico, la Siberia, pieno di misteri, capace di plasmarti nel profondo dell'anima: gliel'avevano insegnato gli anni di sudore e sangue che vi aveva trascorso, e il suo maestro – un guerriero altero, algido come le calotte polari, ma al contempo pietoso e giusto, capace di provare sentimenti profondi.

Sarebbe stato alla sua altezza lui, che ancora non riusciva del tutto a controllare le emozioni senza soffocarle?

Sarebbe stato una buona guida per il bambino che doveva addestrare a divenire non solo adulto, ma anche – e soprattutto – cavaliere?

Ce l'avrebbe fatta a trasmettergli la duplice natura di quella terra, all’apparenza così desolata e vuota?

«Giovane Camus,» lo redarguiva spesso il suo mentore, orgoglioso e preoccupato insieme per l’impassibilità dell'allievo di fronte al dolore come alla gioia «non prendere troppo a modello la solennità e la compostezza di questi ghiacci. Non lasciare che essi penetrino così tanto il tuo cuore da impedirti di sentire – senza pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto, come la neve: sa essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche sciogliersi».

«Devo fare come la neve, come la neve, come la neve».

Camus però avrebbe preferito essere sempre duro come lo era in battaglia; confondersi con le emozioni spesso si rivelava più pericoloso di affrontare un nemico.

Tanto per fare un esempio, se in quel momento avesse potuto scegliere sarebbe rimasto estraneo al senso di disagio che lo attanagliava.

Invece l'aveva lasciato entrare e, a causa sua, adesso si stava sciogliendo.

Non sapeva neanche spiegarsi il perché, poi, di tutta quella malinconia.

Non gli era mai piaciuta la Grecia, dove il clima era così umido da entrarti nelle ossa e seccarti la gola; inoltre, abituato com'era alle ampie distese nordiche, gli spazi ristretti di quella terra spesso lo facevano sentire quasi ingabbiato.

Prima avrebbe dato chissà cosa per sfuggire all'afa estiva che dominava sovrana all'esterno – prima di tornare e di ritrovare loro, i suoi compagni d'armi.

Faticava ad ammetterlo persino a se stesso, ma negli anni dell'addestramento gli era mancato qualcuno con cui condividere la fatica, la frustrazione, il peso del suo compito; da quando si trovava di nuovo al Santuario la consapevolezza di non essere più solo gli aveva regalato nuovo vigore, nuove speranze.

E ora doveva lasciare tutto e partire – ancora.

Li aveva salutati uno per uno, senza troppe smancerie: una stretta di mano, una pacca sulla spalla e un «Arrivederci» a mezza voce erano stati più che sufficienti.

Solamente in una casa non aveva avuto la forza di entrare: l'Ottava.

Congedarsi da Milo l'avrebbe sciolto interamente, mentre Camus si era ripromesso di rimanere integro.

Tuttavia, era certo che Scorpio non avrebbe tardato a scoprire l'inganno: si aspettava la sua comparsa da un momento all'altro.

Non si sorprese, quindi, nel momento in cui questi spalancò la porta delle sue stanze con i capelli scomposti e gli occhi che mandavano lampi.

«Camus» esordì, fintamente calmo «É vero ciò che si dice? Domani te ne vai?»

Camus si scostò dalla finestra e gli fece cenno di entrare: «Sì. Parto per la Siberia».

Milo ignorò l'invito a sedersi: «Ma non puoi farlo! Lo sai quanto dura l'addestramento di un cavaliere di bronzo? Sei anni! Sei, Camus! Un'eternità! E in Siberia, poi! Così... lontano!» continuò, gesticolando frenetico.

«Devo fare come la neve, come la neve, come la neve».

Gelida e letale, quando serve, ma all'occasione capace di sciogliersi – no: non poteva permettersi di crollare.

Non avrebbe seguito il consiglio del suo maestro, per quella volta.

«Duro, duro come il ghiaccio: nessuna comprensione, o di me non resterà che acqua».

«Non fare scenate, Milo, ti prego. Ormai ho deciso. Il Gran Sacerdote mi ha concesso l'onore di mettere le mie conoscenze a disposizione di un nuovo, aspirante difensore della dèa Atena. Non mi tirerò indietro solo perché tu non sei d'accordo» rispose fermo, entrando in camera più per non doverlo guardare in faccia che per reale necessità.

«Non ti chiederei mai di sottrarti a un dovere per me,» gli andò dietro l'altro «non sono in condizioni di avanzare tale pretesa. Ma Camus... avevi intenzione di partire senza dirmi alcunché, senza salutarmi! Perché? Non ti importa davvero nulla di me, allora».

«Sciocchezze. Non è vero che non mi importa nulla di te, e non è vero che sarei partito senza salutarti. In realtà, stavo giusto per venire... mi hai preceduto» negò l'Acquario, con scarsa convinzione «Hai frainteso, come tuo solito».

«Abbi almeno la buona creanza di ammettere che ho ragione: nessuno capisce mai ciò che pensi, ma io sì. Lo vedo da lontano un miglio che stai mentendo: mi dai le spalle, fai finta di avere da fare, ti scosti i capelli di continuo. Ho imparato a conoscerti, Camus, nonostante tu spesso non me l'abbia permesso».

«Finiscila con queste presunte analisi da psicologo: mi hai seccato. Pensala come vuoi, domani partirò comunque. Perciò, ti conviene chiudere qui la discussione, senza sprecare altro fiato» concluse Camus, sentendosi smascherato; per sottolineare ulteriormente le sue parole, poi, chiuse di scatto la valigia che tanto aveva esitato a riempire.

«Perfetto. Ti accontento subito: me ne vado. Ricordati di me, quando sarai in Siberia».

Milo l’aveva detto pianissimo, in un sussurro che ne non tradisse la voce incrinata; ora, dietro la porta sbattuta, probabilmente stava cercando di soffocare la rabbia.

Non sarebbe tornato indietro. Era un addio, quello.

«Milo... » lo richiamò debolmente, sperando – invano – di vederlo spuntare di nuovo.

«... senza pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto, come la neve: sa essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche sciogliersi».

Invece lui aveva preferito fare come il ghiaccio e, al pari di esso, una volta sgretolato era andato in polvere.

Se, al contrario, avesse accettato di sciogliersi come neve al calore di ciò che provava per Milo – al calore che Milo stesso emanava, ancora più caldo di quello estivo fuori dalle mura –, forse sarebbe rimasto acqua.

Dalla polvere non si genera nuovo ghiaccio; dall'acqua, però, può riformarsi neve.

Non poteva lasciarlo andare via in quel modo; se lo avesse fatto, l'avrebbe perso per sempre.

Il loro era un mondo di sguardi, di carezze lievi date per caso, di parole non dette. Troppo fragile per resistere a sei anni di lontananza, dato come si erano lasciati, ma lo stesso troppo importante per morire senza mai nascere davvero.

Come diceva quel proverbio?

«Lontano dagli occhi, lontano dal cuore... ebbene, non lo permetterò».

Camus uscì di corsa dal proprio Tempio, precipitandosi giù per le scale; all'interno della dimora del Capricorno quasi buttò a terra un incredulo Shura, il quale non ebbe neanche il tempo di dire «Ehi», che già lui era passato oltre.

Non trovò Milo all'Ottava Casa, né in quelle precedenti.

Per scrupolo decise di cercarlo anche all'Arena, e fu proprio lì che, inaspettatamente, lo vide: era da solo, intento a prendere a calci un masso con energia a dir poco eccessiva.

«Milo! MILO!» gridò, raggiungendolo in maniera sorprendentemente celere.

Il diretto interessato, che nel frattempo aveva smesso di tirare pedate, ora lo fissava sorpreso.

«Al diavolo l'orgoglio, al diavolo il mio stramaledetto istinto di autoconservazione!» esclamò Camus in un tono concitato a lui del tutto estraneo «Sì, avevi ragione: me ne sarei andato senza salutarti. Ma non l'avrei fatto perché di te non mi importa nulla. Volevo solo non cadere in frantumi, non sciogliermi, rimanere composto e fermo come sempre. Non riesco a mantenere il mio contegno, quando si tratta di te – insomma, guardami! Sembro un pazzo. Credevo che rivederti mi avrebbe fatto a pezzi.

Poi però sei arrivato, e ho capito che ciò che veramente mi avrebbe distrutto sarebbe stato partire domani senza la certezza di te ad aspettare il mio ritorno. Scusami. Chissà come devo parerti ridicolo, ora».

Aveva parlato con tutta la franchezza possibile, guardandolo negli occhi – e Milo l'aveva lasciato dire, in silenzio, studiandolo con il suo sguardo azzurro come il mare.

Una volta terminato il suo discorso, Aquarius abbassò la testa, oppresso dalla calura del pomeriggio e da quel silenzio che non sapeva interpretare.

«Forse non sono in diritto di chiedere perdono. Forse non siamo fatti per stare insieme».

Lui era come la neve – bianco, lieve, gelido.

Se, invece, avesse dovuto accostare Milo a un elemento naturale, l'avrebbe senz’altro assimilato al sole di Grecia – giallo, forte, cocente.

Due opposti così estremi.

All’improvviso, Milo gli si avvicinò.

«Camus» sussurrò, sollevandogli il viso con l'indice «’Mus, guardami».

Obbedì. Che altro avrebbe potuto fare?

«Non mi pari affatto ridicolo. Anzi, ti dirò: forse non sei mai stato meno ridicolo in vita tua».

E poi fece una cosa ardita – una cosa che Camus non avrebbe mai avuto la faccia tosta di fare –: gli inclinò la testa di lato e lo baciò.

Le labbra di Scorpio, piene e grandi, erano bollenti; andavano piano, guidando le sue in quello che fu il primo incontro delle loro bocche.

Aquarius sentiva caldo, un caldo terribilmente piacevole.

Pensò, un po’ confusamente, che valeva la pena di sciogliersi ai raggi di Milo – il suo astro diurno privato.

«Mi scriverai quando sarai laggiù, in quelle terre che tanto ti somigliano?» gli chiese poi il biondo, avvolgendolo in un abbraccio «Non ti chiedo di farlo per forza, se non vuoi. Solo quando ti va, quando non sarai impegnato con il tuo allievo».

«Certo che ti scriverò. Il luogo di addestramento è nei pressi di un villaggio: la posta arriva sì e no una volta a settimana, ma arriva. Sempre meglio di niente» lo rassicurò Camus «E poi dovrò tornare in Grecia per fare rapporti completi al Gran Sacerdote, di tanto in tanto: non passeranno sei anni, prima di rivederci».

Milo annuì: «Non farti congelare l'anima da quei maledetti ghiacci. Quando sentirai freddo, pensa all'estate, all'estate di Atene. Pensa a me».

Milo non avrebbe mai indovinato con quale frequenza Camus aveva accolto il suo invito, in quegli anni.

Quante volte si era fatto scaldare dal ricordo di quel giorno d'estate – dal ricordo di quel bacio.

Dal ricordo del suo personale sole di Grecia.

E ora che sente tanto freddo – un freddo ancora più intenso di quello della lontana Siberia –, di nuovo si lascia crogiolare dal torpore di quel ricordo.

Muore così, col corpo gelido e l'anima piena di estate.



 

 .

 


Note dell’autore

Con tutti questi discorsi sulla neve, sul sole e sullo sciogliersi il capitolo appare un pochino...  delirante.

Però, per scriverlo, ci ho messo tutto il mio amore. Spero di aver combinato qualcosa di buono, alla fine.

La frase iniziale è tratta dal film "Manuale d'amore 2".

Detto ciò, vi saluto e mi congedo!

   
 
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