2. Estate
Il frutto migliore della sua fatica lo ha appena colpito con un Aurora
Execution troppo freddo persino per il Signore dei ghiacci, eppure Aquarius riesce a dirsi soltanto questo.
A
ben guardare, comunque, non c’è nulla di strano. Se è vero che i
moribondi
rivedono tutta la loro vita nell’arco di pochi istanti, Camus non
potrebbe
pensare a nient’altro che a quello cui ha consacrato l’intera
esistenza: la
neve, per l’appunto.
Improvvisamente,
però,
un’immagine diversa arriva a catturare con forza la sua attenzione
sfilacciata.
Non
si
fa domande, né oppone resistenza; la accoglie anzi con quieta letizia,
perché da tempo sapeva che sarebbe arrivata a porgergli l’estremo
saluto.
La
sua
vecchia e sgualcita valigia marrone giaceva aperta sul letto,
riempita fino
all'orlo.
Tutto
quello
che possedeva era stato riposto con cura quasi maniacale al suo
interno,
e ricontrollato almeno una decina di volte.
Perché
ancora
non sapeva decidersi a chiuderla?
La
stanza,
senza quei pochi oggetti ad arredarla e a renderla più
accogliente,
sembrava un guscio vuoto, una storia incompiuta; un corpo
senz'anima.
Un
po’
come il resto della casa, in effetti.
In
sua
assenza solo polvere, silenzio e ombre avrebbero abitato il Tempio
della
Sacra Anfora.
Il
Gran
Sacerdote gli aveva parlato di molto, molto tempo: chissà se si
sarebbe
riconosciuto fra quelle mura alte e candide, a distanza di anni.
Si
affacciò
dalla finestra del soggiorno sovrappensiero, ignorando volutamente
l'ondata di caldo torrido di inizio agosto che lo investì in
pieno.
Da
quella
posizione poteva vedere un piccolo, lontano scorcio di Atene, che
si
stendeva per miglia e miglia sotto il Santuario; magari laggiù in
fondo c'erano
persone dedite a godersi le vacanze estive, turisti, passanti –
uomini sereni e
ignari di tante cose.
Lo
stesso
sole cocente che batteva sulle loro teste inondava di luce gli
occhi di
Camus, abbagliandolo.
«Il
sole
di Siberia non è così giallo».
La
Siberia
orientale non era solo una distesa uniforme di iceberg e nevi
perenni,
no, lui lo sapeva per esperienza.
Lì
la
Bora sussurra di leggende arcane a chi la sa ascoltare, e lo
scintillio dei
cristalli ghiacciati sul terreno ricorda il brillare di una gemma
preziosa; di
notte il fulgore delle stelle accende la landa di luce propria,
tanto che
sembra di camminare fra terra e cielo.
Luogo
magico,
la Siberia, pieno di misteri, capace di plasmarti nel profondo
dell'anima: gliel'avevano insegnato gli anni di sudore e sangue
che vi aveva
trascorso, e il suo maestro – un guerriero altero, algido come le
calotte
polari, ma al contempo pietoso e giusto, capace di provare
sentimenti profondi.
Sarebbe
stato
alla sua altezza lui, che ancora non riusciva del tutto a
controllare le
emozioni senza soffocarle?
Sarebbe
stato
una buona guida per il bambino che doveva addestrare a divenire
non solo
adulto, ma anche – e soprattutto – cavaliere?
Ce
l'avrebbe
fatta a trasmettergli la duplice natura di quella terra,
all’apparenza così desolata e vuota?
«Giovane
Camus,»
lo redarguiva spesso il suo mentore, orgoglioso e preoccupato
insieme
per l’impassibilità dell'allievo di fronte al dolore come alla
gioia «non
prendere troppo a modello la solennità e la compostezza di questi
ghiacci. Non
lasciare che essi penetrino così tanto il tuo cuore da impedirti
di sentire –
senza pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto,
come la neve: sa
essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche
sciogliersi».
«Devo
fare
come la neve, come la neve, come la neve».
Camus
però
avrebbe preferito essere sempre duro come lo era in battaglia;
confondersi
con le emozioni spesso si rivelava più pericoloso di affrontare un
nemico.
Tanto
per
fare un esempio, se in quel momento avesse potuto scegliere
sarebbe rimasto
estraneo al senso di disagio che lo attanagliava.
Invece
l'aveva
lasciato entrare e, a causa sua, adesso si stava sciogliendo.
Non
sapeva
neanche spiegarsi il perché, poi, di tutta quella malinconia.
Non
gli
era mai piaciuta la Grecia, dove il clima era così umido da
entrarti nelle
ossa e seccarti la gola; inoltre, abituato com'era alle ampie
distese nordiche,
gli spazi ristretti di quella terra spesso lo facevano sentire
quasi
ingabbiato.
Prima
avrebbe
dato chissà cosa per sfuggire all'afa estiva che dominava sovrana
all'esterno – prima di tornare e di ritrovare loro, i suoi
compagni d'armi.
Faticava
ad
ammetterlo persino a se stesso, ma negli anni dell'addestramento
gli era
mancato qualcuno con cui condividere la fatica, la frustrazione,
il peso del
suo compito; da quando si trovava di nuovo al Santuario la
consapevolezza di
non essere più solo gli aveva regalato nuovo vigore, nuove
speranze.
E
ora doveva lasciare tutto e partire – ancora.
Li
aveva
salutati uno per uno, senza troppe smancerie: una stretta di mano,
una
pacca sulla spalla e un «Arrivederci» a mezza voce erano stati più
che
sufficienti.
Solamente
in
una casa non aveva avuto la forza di entrare: l'Ottava.
Congedarsi
da
Milo l'avrebbe sciolto interamente, mentre Camus si era ripromesso
di
rimanere integro.
Tuttavia,
era
certo che Scorpio non avrebbe tardato a scoprire l'inganno: si
aspettava la
sua comparsa da un momento all'altro.
Non
si
sorprese, quindi, nel momento in cui questi spalancò la porta
delle sue
stanze con i capelli scomposti e gli occhi che mandavano lampi.
«Camus»
esordì,
fintamente calmo «É vero ciò che si dice? Domani te ne vai?»
Camus
si
scostò dalla finestra e gli fece cenno di entrare: «Sì. Parto per
la
Siberia».
Milo
ignorò
l'invito a sedersi: «Ma non puoi farlo! Lo sai quanto dura
l'addestramento di un cavaliere di bronzo? Sei anni! Sei, Camus!
Un'eternità! E
in Siberia, poi! Così... lontano!» continuò, gesticolando
frenetico.
«Devo
fare
come la neve, come la neve, come la neve».
Gelida
e
letale, quando serve, ma all'occasione capace di sciogliersi – no:
non poteva
permettersi di crollare.
Non
avrebbe
seguito il consiglio del suo maestro, per quella volta.
«Duro,
duro
come il ghiaccio: nessuna comprensione, o di me non resterà che
acqua».
«Non
fare
scenate, Milo, ti prego. Ormai ho deciso. Il Gran Sacerdote mi ha
concesso
l'onore di mettere le mie conoscenze a disposizione di un nuovo,
aspirante
difensore della dèa Atena. Non mi tirerò indietro solo perché tu
non sei
d'accordo» rispose fermo, entrando in camera più per non doverlo
guardare in
faccia che per reale necessità.
«Non
ti
chiederei mai di sottrarti a un dovere per me,» gli andò dietro
l'altro «non
sono in condizioni di avanzare tale pretesa. Ma Camus... avevi
intenzione di
partire senza dirmi alcunché, senza salutarmi! Perché? Non ti
importa davvero
nulla di me, allora».
«Sciocchezze.
Non
è vero che non mi importa nulla di te, e non è vero che sarei
partito senza
salutarti. In realtà, stavo giusto per venire... mi hai preceduto»
negò
l'Acquario, con scarsa convinzione «Hai frainteso, come tuo
solito».
«Abbi
almeno
la buona creanza di ammettere che ho ragione: nessuno capisce mai
ciò
che pensi, ma io sì. Lo vedo da lontano un miglio che stai
mentendo: mi dai le
spalle, fai finta di avere da fare, ti scosti i capelli di
continuo. Ho
imparato a conoscerti, Camus, nonostante tu spesso non me l'abbia
permesso».
«Finiscila
con
queste presunte analisi da psicologo: mi hai seccato. Pensala come
vuoi,
domani partirò comunque. Perciò, ti conviene chiudere qui la
discussione, senza
sprecare altro fiato» concluse Camus, sentendosi smascherato; per
sottolineare
ulteriormente le sue parole, poi, chiuse di scatto la valigia che
tanto aveva
esitato a riempire.
«Perfetto.
Ti
accontento subito: me ne vado. Ricordati di me, quando sarai in
Siberia».
Milo
l’aveva
detto pianissimo, in un sussurro che ne non tradisse la voce
incrinata;
ora, dietro la porta sbattuta, probabilmente stava cercando di
soffocare la
rabbia.
Non
sarebbe
tornato indietro. Era un addio, quello.
«Milo...
»
lo richiamò debolmente, sperando – invano – di vederlo spuntare di
nuovo.
«...
senza
pulsioni saremmo solo automi, ricordalo. Fai, piuttosto, come la
neve: sa
essere gelida e letale, quando serve, ma all'occasione può anche
sciogliersi».
Invece
lui
aveva preferito fare come il ghiaccio e, al pari di esso, una
volta
sgretolato era andato in polvere.
Se,
al
contrario, avesse accettato di sciogliersi come neve al calore di
ciò che
provava per Milo – al calore che Milo stesso emanava, ancora più
caldo di
quello estivo fuori dalle mura –, forse sarebbe rimasto acqua.
Dalla
polvere
non si genera nuovo ghiaccio; dall'acqua, però, può riformarsi
neve.
Non
poteva
lasciarlo andare via in quel modo; se lo avesse fatto, l'avrebbe
perso
per sempre.
Il
loro
era un mondo di sguardi, di carezze lievi date per caso, di parole
non
dette. Troppo fragile per resistere a sei anni di lontananza, dato
come si
erano lasciati, ma lo stesso troppo importante per morire senza
mai nascere
davvero.
Come
diceva
quel proverbio?
«Lontano
dagli
occhi, lontano dal cuore... ebbene, non lo permetterò».
Camus
uscì
di corsa dal proprio Tempio, precipitandosi giù per le scale;
all'interno
della dimora del Capricorno quasi buttò a terra un incredulo
Shura, il quale
non ebbe neanche il tempo di dire «Ehi», che già lui era passato
oltre.
Non
trovò
Milo all'Ottava Casa, né in quelle precedenti.
Per
scrupolo
decise di cercarlo anche all'Arena, e fu proprio lì che,
inaspettatamente, lo vide: era da solo, intento a prendere a calci
un masso con
energia a dir poco eccessiva.
«Milo!
MILO!»
gridò, raggiungendolo in maniera sorprendentemente celere.
Il
diretto
interessato, che nel frattempo aveva smesso di tirare pedate, ora
lo
fissava sorpreso.
«Al
diavolo
l'orgoglio, al diavolo il mio stramaledetto istinto di
autoconservazione!» esclamò Camus in un tono concitato a lui del
tutto estraneo
«Sì, avevi ragione: me ne sarei andato senza salutarti. Ma non
l'avrei fatto
perché di te non mi importa nulla. Volevo solo non cadere in
frantumi, non
sciogliermi, rimanere composto e fermo come sempre. Non riesco a
mantenere il
mio contegno, quando si tratta di te – insomma, guardami! Sembro
un pazzo.
Credevo che rivederti mi avrebbe fatto a pezzi.
Poi
però
sei arrivato, e ho capito che ciò che veramente mi avrebbe
distrutto
sarebbe stato partire domani senza la certezza di te ad aspettare
il mio
ritorno. Scusami. Chissà come devo parerti ridicolo, ora».
Aveva
parlato
con tutta la franchezza possibile, guardandolo negli occhi – e
Milo
l'aveva lasciato dire, in silenzio, studiandolo con il suo sguardo
azzurro come
il mare.
Una
volta
terminato il suo discorso, Aquarius abbassò la testa, oppresso
dalla
calura del pomeriggio e da quel silenzio che non sapeva
interpretare.
«Forse
non
sono in diritto di chiedere perdono. Forse non siamo fatti per stare
insieme».
Lui
era
come la neve – bianco, lieve, gelido.
Se,
invece,
avesse dovuto accostare Milo a un elemento naturale, l'avrebbe
senz’altro assimilato al sole di Grecia – giallo, forte, cocente.
Due
opposti
così estremi.
All’improvviso,
Milo
gli si avvicinò.
«Camus»
sussurrò,
sollevandogli il viso con l'indice «’Mus, guardami».
Obbedì.
Che
altro avrebbe potuto fare?
«Non
mi
pari affatto ridicolo. Anzi, ti dirò: forse non sei mai stato meno
ridicolo
in vita tua».
E
poi fece una cosa ardita – una cosa che Camus non avrebbe mai
avuto la faccia
tosta di fare –: gli inclinò la testa di lato e lo baciò.
Le
labbra
di Scorpio, piene e grandi, erano bollenti; andavano piano,
guidando le
sue in quello che fu il primo incontro delle loro bocche.
Aquarius
sentiva
caldo, un caldo terribilmente piacevole.
Pensò,
un
po’ confusamente, che valeva la pena di sciogliersi ai raggi di
Milo – il
suo astro diurno privato.
«Mi
scriverai
quando sarai laggiù, in quelle terre che tanto ti somigliano?» gli
chiese poi il biondo, avvolgendolo in un abbraccio «Non ti chiedo
di farlo per
forza, se non vuoi. Solo quando ti va, quando non sarai impegnato
con il tuo
allievo».
«Certo
che
ti scriverò. Il luogo di addestramento è nei pressi di un
villaggio: la
posta arriva sì e no una volta a settimana, ma arriva. Sempre
meglio di niente»
lo rassicurò Camus «E poi dovrò tornare in Grecia per fare
rapporti completi al
Gran Sacerdote, di tanto in tanto: non passeranno sei anni, prima
di
rivederci».
Milo
annuì:
«Non farti congelare l'anima da quei maledetti ghiacci. Quando
sentirai
freddo, pensa all'estate, all'estate di Atene. Pensa a me».
Milo
non
avrebbe mai indovinato con quale frequenza Camus aveva accolto il suo
invito, in quegli anni.
Quante
volte
si era fatto scaldare dal ricordo di quel giorno d'estate – dal
ricordo
di quel bacio.
Dal
ricordo
del suo personale sole di Grecia.
E
ora che sente tanto freddo – un freddo ancora più intenso di quello
della
lontana Siberia –, di nuovo si lascia crogiolare dal torpore di quel
ricordo.
Muore così, col corpo gelido e l'anima piena di estate.
Note
dell’autore
Però,
per scriverlo, ci ho messo tutto il
mio amore. Spero di aver combinato qualcosa di buono, alla fine.
La
frase iniziale è tratta dal film
"Manuale d'amore 2".
Detto
ciò, vi saluto e mi congedo!