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Autore: Natalja_Aljona    22/10/2011    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Centotredici

Il primo mezzo sorriso
Somewhere in her smile she knows that I don't need no other lover


Non sono venuto per salutare

Perché io non lo capisco

Il tempo giusto del saluto

Che trova le parole

E nega la distanza

E poi libera le mani

E lascia guardare

Di là del muro di una stanza

Guardare

Non sono venuto per salutare

Non torneremo mai
Sui nostri passi, mai

(Lasciami Andare, Gianmaria Testa)


Il primo mezzo sorriso era stato, per George, come la vittoria di Nozio per gli Spartani di Lisandro.

Qualcosa di molto simile, raccontava allimpassibile Theodorakis Dounas, che il più delle volte manifestava il suo grande desiderio di annodargli la clavicola, o taceva, sognando, appunto, di annodargli la clavicola.

Una volta, poi, sera ritrovato appeso come una lonza ad un platano, con Tìa che gridava ai passanti, visibilmente perplessi: Non preoccupatevi: sono amici!”.

Non che ci fosse veramente qualcosa di cui stupirsi.
Era George, tutto qui.


The other side of Liverpool

You just had to laugh


All’altro lato di Liverpool

Si può solo ridere

(The other side of Liverpool, Ringo Starr)


Liverpool, 18 Dicembre 1834
Undicesimo compleanno di Jànos Desztor


Wavertree era un quartiere quieto e riservato, questa era la parvenza che dava.

Sempre le stesse strade, sempre lo stesso grigio, sempre la stessa aria di fumo e di cenere.

George a Wavertree aveva perso il cuore, per quel primo mezzo sorriso, per l’attesa del tiepido riso del giorno dopo e per la paura dell’ultimo.

Sarebbe stato il suo ultimo giorno, quello.


Era uno scricciolo, lei.

Uno scricciolo che George aveva imparato a studiare dal muretto di 12 Arnold Grove, mentre esponeva i suoi fiammiferi agli sguardi distratti, frettolosi e talvolta annoiati della gente dell’altro lato di Liverpool.

Guardava farsi di fiamma le sue gote chiare a certe frasi infelici di sfacciati che avrebbe volentieri acchiappato per le orecchie e scaraventato nel Mersey, e nonostante tutto lo faceva sorridere, quella gradazione così poco consona alla sua carnagione nivea.

Lo scricciolo di 12 Arnold Grove aveva la neve nel sangue, George se n’era presto reso conto.

Che fosse slava, poi, l’aveva sospettato fin dal primo momento, da quando l’aveva sentita parlare con il barbaro nordico, il ragazzo biondo con quel fiero accento polacco di cui l’aveva impressionato soprattutto la nota drammatica.

Aveva notato una certa inquietudine scintillare nei suoi occhi, quando parlava con quel ragazzo.

Una forma di soggezione disgraziatamente influenzata dalla triste, ansiosa certezza di non poter mai essere del tutto tranquilla, con lui.

“Con me può stare tranquilla”, si diceva George.

“Certo, sarò evaso un certo numero di volte, un numero che poco si addice al cittadino medio, magari, e da qualche tempo ho cominciato a sospettare che i simpaticoni che mi chiamano disgraziato uno straccio di ragione ce l’abbiano pure, ma per il resto sono assolutamente affidabile.

Non posso nemmeno allungare l’occhio come fanno certi ragazzi: dovrei metterglielo per iscritto, se volessi fare una cosa del genere.

Non ho più una vista d’aquila, penso l’abbiano scritto anche sulla mia fedina penale.

E’ l’età, direi. L’età e una Lachesi infame”.


Il giorno in cui -chissà con quale coraggio, poi-, le aveva comprato un fiammifero, difficilmente l’avrebbe dimenticato.

Le si era avvicinato particolarmente ispirato, fischiettando Alla Turca di Mozart, brano su cui era solito recitare l’Iliade da bambino, oltre che unico contesto in cui riusciva a tollerare i Turchi.

L’aveva guardata con simpatia, grandissima simpatia.

-A match, please-

Pareva stupita, lei.

Delusa, forse.

-Only one?-

-Well, I haven’t got a lot of money…- aveva confessato, ridendo.

-Me neither, Sir!-

Gli aveva sorriso, la piccola fiammiferaia, e Lisandro, in quel benedetto 407 a.C., con il destino degli Ateniesi in mano, davvero, non poteva essersi sentito così.

Le aveva posato una dracma sul palmo della mano, perché altre monete non ne aveva.

E lei, per un attimo non aveva saputo cosa dire, lei.

L’aveva guardato con sospetto, e quasi con dolcezza, in quel sospetto, prima di rivolgergli le prime, forse discutibili, parole.

-Ehi, excuse me, Sir, what kind of coin is this?-

S’era fatto pressoché incolore, lui.

Sorrideva a stento, con un imbarazzo che forse non avrebbe provato mai più, a scaldargli le guance, che pure rimanevano di quell’inquietante pallore, a pizzicargli il cuore.

-A greek drachma…from Greece!- era stato tutto quello che era riuscito a tirar fuori dal suo modesto repertorio lessicale inglese.

Una dracma greca…dalla Grecia.

Aveva dato un pugno alla porta di casa, George.

Poi s’era girato verso di lei, l’aveva guardata di nuovo.

-Am I an idiot, for you?-

Aveva sorriso timidamente, lei.

C’era qualcosa di terribilmente sfrontato, nella sua timidezza, e l’aveva guardata un po’ rapito un po’ confuso, lui.

Risentito, anche.

Era un idiota, lui.

-Well, something like that, I think-

Era lei, Natal’ja.

Fantastica e insopportabile, la filosofa di Wavertree, la ragazzina bionda e spettinata, che con quegli occhi di squarcio di cielo vedeva lontano, più lontano di lui.

E le avrebbe sputato in occhio, forse solo per costringerla a voltarsi e poi baciarla fino al primo bussare del sole, lui.

-Thank you, little girl-

Non se l’era presa, lo scricciolo di 12 Arnold Grove.

Non era poi così male, little girl.

L’avevano chiamata in ogni modo immaginabile, i forradalmi.

S’era limitata a sbuffare, ma a sbuffare quasi divertita, e di nascosto se lo mangiava con gli occhi, il ladruncolo greco.

-Oh, Sir…-

-Here I am!- aveva esclamato lui, con un saluto militare che l’aveva fatta inevitabilmente scoppiare a ridere.

-What’s your name?-

Aveva aggrottato le sopracciglia, lui.

-My name?-

A tale indecisione era tornata sui suoi passi, la piccola Natal’ja.

Non era il genere di ragazzo che diceva il suo nome con leggerezza al primo che passava per la strada.

Non era in quel genere di condizioni, soprattutto.

E lei, lei non era la prima che passava.

Lei in quella strada era passata mille e mille volte, e mille e mille volti aveva visto sfumare dietro a una curva, e mille e mille persone passare come lei, ma per non tornare più.

E lei, lei non lo sapeva, perché, ma voleva conoscere il suo nome.

-If you can…-

-I can, I can… Well, I hope to be able… My name, my name…-

Pareva proprio non ricordarsi il suo nome, lui.

E, parlando di Brian George, l’affermazione non era esattamente campata per aria.

Decise di toglierlo dall’imbarazzo, Alja, e in un certo senso era come se non aspettasse altro, quel testone d’un anglo-greco.

-My name is Nathalie. Well, the scousers call me so, my name is Natal’ja-

Lo dicevo, io, ch’era del nord!

-Antarctic?- aveva ipotizzato, speranzoso.

Beh, forse l’Antartide è fin troppo a nord…

-Russian- aveva sorriso lei, inclinando un poco la testa.

Aveva uno sguardo che George, chissà su quali basi, poi, avrebbe definito dolce, quasi, da quella sera in poi, nella sua camera, sotto ai ponti, sui marciapiedi o sulle panchine dei Giardini d‘Atene, in carcere, nella sua solita cella o sul Taigeto, libero come pochi, libero più degli uomini onesti, e più dei ricchi, libero come lei.

-Oh, russian! Like…-

Pareva confuso, George.

-Like Napoleone?-

Rise di gusto, lei.

-He was less russian than you think, believe me-

Lui sorrise, scosse la testa.

Con un cenno del capo, poi, indicò il Capitano Gibson e Anasthàsja, di ritorno dal Porto proprio in quel momento, che sorrisero ad entrambi, timidamente ricambiati dalla fiammiferaia.

-They call me Gee-

La guardò intensamente per una frazione di secondo ancora, poi chiuse gli occhi.

-I love you, little match-girl-

Lei sorrise teneramente, si morse un labbro, dopodiché si voltò, quasi sconvolta, sebbene cercasse di non darlo a vedere.

Poi rise, guardandolo di nuovo negli occhi.

George cercava ancora il suo coraggio e la sua sfacciataggine, in quegli occhi.

E l’ombra del suo leggendario sorriso, quel sorriso che arrivava dall’altra parte della strada e lo faceva sorridere a sua volta, quel sorriso.

Quel sorriso a lui non l’aveva mai rivolto, la fiammiferaia di Krasnojarsk.

Gli aveva sorriso altre mille volte, forse, ma quel sorriso mai, mai, mai.

-Don’t joke, Sir Gee-


Il termometro va giù

Il sole se ne va

L'inverno fa paura a tutti ma

C'è un fuoco dentro me

Che non si spegnerà

Lo sai perché?

Io non cambio mai

No, non cambio mai

Può cadere il mondo ma

Ma che importa a me?

(La Pioggia, Gigliola Cinquetti)


Poi c’era stato l’episodio delle castagne.

Era un mattino dannatamente freddo, e il giovane Gibson, seduto sul marciapiede di 12 Arnold Grove, si guardava intorno tremando.

Lei era arrivata poco dopo, leggera leggera sulla neve ancora fresca.

-It's very warm this morning, isn't it, Sir?-

Batteva i denti, George.

Il caldo lo senti solo tu, caruccia mia.

L’avrebbe presa a male parole, quel giorno, per quella sua maledettissima resistenza al clima dei suoi incubi.

Ma probabilmente non l’avrebbe mai conquistata, così.

-Well, I don’t know how you can to say that…-

Si stava sfregando le mani da quando era uscito di casa, invano, naturalmente.

Non l’aveva mai sopportato, il freddo, lui.

Lei l’aveva guardato divertita, scrollando le spalle.

-Oh, I miss my everlasting winters…-

-Are you joking, little match-girl?-

Era un po’ curiosa un po’ stupita, la piccola fiammiferaia.

Non scherzava, lei, non scherzava per niente.

Ed aveva cambiato argomento come se niente fosse, con una nonchalance che aveva dello straordinario.

-What do you think about chestnuts?-

-If only I knew what chestnuts means…-

Aveva sgranato gli occhi, la piccola fiammiferaia.

-You’ve never eat them, Sir?-

-Never never never, my dear-

-What do you usually eat, in Sparta?-

George aveva sorriso, facendo un vago gesto con la mano.

-Yoghurt… Well, greek yoghurt, if you understand what I mean-

L’aveva guardato un po’ storto, lei.

-But you’ve never eat chestnuts. It’s not a good thing, Sir!-

-I’m sorry…-

-Come with me and stop talking, please-

L’aveva portato al Mercato, la piccola Natal’ja.

Alla bancarella dove vendevano le castagne, castagne di cui riempirsi le mani e le tasche, da pagare per un soldo o rubacchiare di nascosto, castagne da arrostire la sera e distribuire a vicini mai visti sul marciapiede sotto casa , castagne da sgranocchiare fino all’ultima in riva al fiume, magari con quel ragazzino che si merita sempre un sorriso in più, e da sognare fino al mattino dopo, il mattino in cui ci sarà sempre quel signore un po’ scostante, con la barba lunga e gli occhi chiari, che allestirà per primo la sua bancarella, e ti venderà, insieme a un pugno della sua malinconia, una ciotola, l’ennesima, forse, di castagne.

Le avevano mangiate lì, con lo sguardo ballerino oscillante tra il Mersey, il loro Mersey scintillante che non era l’Eurota, non era l’Enisej, ma apparteneva ad entrambi, questo era sicuro, e le case rossicce immerse tra i boschi liverpooliani del loro caro sobborgo di periferia.

E chissà come sarebbero state, nello yogurt greco, quelle castagne.

Ci pensava, George, e pensava anche a lei, ch’era seduta lì di fianco, di fianco a lui che forse non se lo meritava, e ad un certo punto gliel’aveva detto, ripetuto, probabilmente, ma ripetuto in un modo che non era il primo con cui, con il cuore ma quasi distrattamente, gliel’aveva detto.

-I love you so, little match-girl-

Non aveva risposto subito, lei.

S’era messa in bocca un pugnetto di castagne di discrete dimensioni, masticandole con gusto.

Aveva un sorriso incredibile, la piccola fiammiferaia.

Poi l’aveva guardato, lui che tremava, lui che al freddo non si sarebbe mai abituato, lui ch’era greco, e in Grecia c’era un sole che t’entrava nel cuore, c’era un sole che bruciava gli occhi, e tutto il resto non contava, quando c’era il sole, al suo Paese.

Non aveva un giaccone né un cappotto pesante, lei, non aveva sciarpe o guanti, stivali alti o colbacchi della sorta che spesso sfoggiavano gli uomini delle steppe innevate, i suoi concittadini.

Aveva giusto uno scialle buttato di traverso sulle spalle, uno scialle lavorato a maglia un po’ da sua madre un po’ da sua nonna, sebbene non facessero un solo punto in due, Julyeta e Anželika.

Così era venuto un po’ male, quello scialle, che non si capiva bene se fosse una nuova moda dei quartieri popolari o l’ultima creazione d’una stravagante sarta modaiola.

Uno scialle che assomigliava dannatamente ad un groviera di lana e nastrini, ma ad ogni punto di quello scialle era appesa una stella, una delle meravigliose e complicate, tanto, stelle di Natal’ja.

Se l’era tolto con un mezzo sorriso, lei, quello scialle, con quel mezzo sorriso che non era il primo, forse, ma non aveva importanza, no, non davvero.

L’aveva posato sulle spalle di George, che s’era fatto pallido pallido per il vento gelido, in fondo il freddo lei non l’aveva mai sofferto veramente, e c’era cresciuta e ci aveva giocato fino a perdersi, lei, con quel freddo che l’aveva vista nascere e tremare non per lui ma per quella vita, e aveva sorriso, aveva sorriso davvero.

-I love you and these chestnuts, Sir Gee-

Era stato una magia, uno splendore, quel primo mezzo sorriso, sulle labbra di Luce, negli occhi di George.


Non sono venuto per salutare

Però adesso lo riconosco

Il tono giusto del saluto

E conosco le parole

Per la circostanza

E posso stringere le mani

E riesco a guardare

Qualunque muro di una stanza

Guardare

Non torneremo mai

(Lasciami Andare, Gianmaria Testa)




Note


Scousers: Liverpooliani. Gli abitanti della Contea di Merseyside, il cui capoluogo è appunto Liverpool, parlano infatti con il tipico accento Scouse. Che, tra parentesi, quando ero a Liverpool mi sembrava dannatamente straordinario in ogni sua sfumatura, ma questa è un'altra storia. ;)

12 Arnold Grove, Wavertree: Indirizzo d'infanzia di George Harrison.
Ci sono stata io, a Liverpool, a Wavertree, al numero 12 di Arnold Grove.
E' la più disperata periferia immaginabile, ma ha qualcosa di magico, di spettacolare.
E, pregando che esistesse già nel 1834, è anche la casa liverpooliana di George. ;)

Me neither: Neanch'io.

Chestnuts: Castagne.

He was less russian than you think, believe me: Era meno russo di quello che pensi, credimi.

If I only knew what chestnuts means: Se solo sapessi cosa significa chestnuts.

Little match-girl: Piccola fiammiferaia.

Che dire di questo capitolo?

E' un po' la versione estesa e demente delle ultime righe del Proemio, ecco. Alja ha nove anni, Gee ne ha tredici. Sono...bambini, ragazzini, sono Alja e Gee.

E' il 18 Dicembre, il 18 Dicembre 1834, l'undicesimo compleanno di Jànos.
Hanno la sua benedizione, in questo capitolo, in un certo senso. ;)

A scriverlo mi sono divertita, tanto.

Sono matti, quei due, ma quante volte l’avrò già ripetuto?

Perdutamente folli e perdutamente innamorati, e certe volte quello che dicono un senso non ce l’ha, ma che ci possiamo fare? ;)

I loro dialoghi in inglese…sono dementi, me ne rendo conto.

Ma è stato fantastico immaginarli, davvero. ;)

E la citazione centrale, La Pioggia, è ufficialmente la canzone di Alja, almeno quella del momento. ;)

Mentre Lasciami Andare di Gianmaria Testa…non lo so, ha qualcosa che mi ricorda terribilmente la circostanza, che mi ricorda loro due.

Lo stesso si può dire della citazione di Something del sottotitolo…

“Da qualche parte nel suo sorriso lei sa che non ho bisogno di nessun'altra amante”.

Ma Something l’adoro veramente oltre l’immaginabile, quindi è meglio sorvolare sull’argomento!

Quanto alle castagne…beh, io le adoro. E questo è proprio il periodo giusto, il periodo in cui mia nonna me le cucina in tutte le maniere…e, certo, questo è altrettanto fantastico! ;)

E non potevo non scrivere una scena tra Alja, Gee e le castagne, non potevo.


A presto!

Marty


  
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