Luna funesta,
dalle finestre della mia
inquietante prigione
di cristallo
appari distorta,
ti centuplichi,
e ghigni,
da lassù,
della mia sorta da comune mortale.

La Morte Rossa
mi colpirà,
e io lo so,
nonostante la sicurezza
del mio rifugio,
Lei mi prenderà,
con i lunghi artigli ricurvi,
gli occhi infossati,
affamati di sangue,
e il mantello nero
che le cinge le spalle,
dolcemente.
Dolce come la Morte,
che avvolge chiunque,
nella sua fredda stretta.

Magari riuscirò,
chissà,
a fuggire.
Riuscirò a scappare verso terre sicure,
mentre mio figlio
giace,
supino ai piedi della mia Torre,
le mani sulla faccia tumefatta,
gli occhi rivolti al cielo.
Ma che dico al cielo?
A me.
Rivolti a suo padre,
ma anche al suo assassino.
Rivolti a colui che ha sprangato
la porta,
colui che lo ha spinto
fra le braccia
della Morte Rossa,
colui che lo ha visto morire,
senza aiutarlo,
senza un sussulto.

Anche ora,
alla tua luce,
o Luna,
posso ancora scorgere
il contorno sfuocato
del cadavere
di quel bambino,
quel bambino che un tempo chiamavo figlio.

Vorrei poter reincontrare sua madre,
dalle gote rosse
e le labbra piene,
i boccoli biondi e
il lungo vestito frusciante
di seta e raso.

Ma non posso,
e tu lo sai,
e ridi,
lassù,
ridi perchè sai
che lei è lì,
con te,
e perchè lei non ricorda più,
il vile uomo
che sposò,
il vile uomo che sono diventato ora.

Ma non la biasimo;
sono un vile,
un vigliacco,
un mostro senza pietà,
pietà per la prole,
o per me stesso.
Pietà per la città straziata ,
che sotto di me moriva,
e muore tuttora,
mentre tentava invano di raggiungermi,
raggiungere la Torre,
ancora salva dalla Morte Rossa,
dalla quale,
un giornò dovrò uscire.
Un giorno , si, ma non oggi.
Domani,
forse,
ma non oggi.