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Autore: Northern Isa    23/10/2011    6 recensioni
Cosa ne era stato di Leyna Nott? Che fine avevano fatto i sogni, gli interessi, le passioni? Tutto era stato fagocitato dalla missione dei Mangiamorte. Tornata padrona della mia volontà, che cosa mi rimaneva? Nulla che non si riferisse al Signore Oscuro e alla sua causa. Anche Adrian era un Mangiamorte, ormai si era guadagnato il rispetto degli altri, e i servigi che il Signore Oscuro gli assegnava erano sempre più importanti. Sua sorella non poteva essere da meno.
Genere: Drammatico, Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mangiamorte, Voldemort
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Buio. Intorno a me vedo soltanto oscurità che stende nella mia direzione i suoi tentacoli, cercando di avvinghiarmi, di avvilupparmi.
Nero: le mie pupille non vedono altro. Ho come la sensazione di essere stata inghiottita da un pozzo senza fondo, non sento neanche le mie gambe. In realtà ho perso la sensibilità di ogni parte del mio corpo. Mi chiedo se sono ancora viva; mi rendo conto però di non avere nessuna ragione per desiderarlo.
Improvvisamente esplodono davanti ai miei occhi centinaia di scintille bianche, accecanti. Stringo i denti, ferita e dolorante. Mi rendo conto della ragione del buio che mi circonda: ho le palpebre serrate. Contemporaneamente, inizio ad avere la percezione di altre parti del mio corpo: avverto il petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del mio respiro, sento una vena pulsarmi su una tempia, un formicolio percorrermi le gambe. Mi muovo leggermente, tenendo ancora gli occhi chiusi, e avverto la fisicità di un pavimento di fredda pietra sotto di me. Le scintille bianche esplose smettono di graffiarmi le palpebre serrate, sostituite, senza che io riesca a capirne la ragione, da altre immagini.
 
Vedo un paio di piedi, calzanti scarpe di pelle di drago di squisita fattura, costose e ricercate, che si muovono rapidi  lungo corridoi coperti da pregiati tappeti persiani. Sollevo lo sguardo: al mio passaggio vedo susseguirsi pareti ricoperte da lastre di marmo immacolato, intervallate da torce accese, appese a sostegni d’argento. Riconosco questi corridoi: si tratta della magione di caccia della famiglia Nott.
Entro in un grande salone, il cui pavimento di marmi intarsiati risplende alla luce del sole che filtra attraverso le finestre. I vetri spalancati, segmentati da liste di piombo, splendono come cristalli.
Inspiro profondamente: attraverso le finestre aperte mi perviene l’odore di terra bagnata e legno di pino. È lo stesso odore che, ogni anno a ottobre, mi annuncia lo spuntare dei funghi nel sottobosco dei terreni della famiglia Nott. Della mia famiglia.
Ricordo con quanta soddisfazione mio cugino Theodore, mio fratello Adrian e io tornavamo dalle gite nei boschi, carichi di quelle delizie. All’epoca dei fatti eravamo troppo giovani per andare a caccia con i nostri genitori. Theodore doveva avere circa quattro anni, io ne avevo otto e Adrian dieci. È passato tanto tempo da allora, penso. Vorrei disegnare le labbra in un sorriso, ma riesco solo a riprodurre una smorfia malinconica e grottesca.
Continuo a guardarmi intorno, il salone in cui mi trovo è ampio e arioso, molti quadri, rappresentanti scene di caccia e ritratti di antenati, sono appesi alle pareti, un enorme camino spalanca la sua bocca di fuoco verso la mobilia riccamente intarsiata. Mi avvicino al camino per lasciarmi avvolgere dal suo tepore, pensando che sarebbe ora di ordinare a qualche Elfo domestico di chiudere le finestre per non far disperdere quel prezioso calore. Di fronte allo specchio che torreggia sul camino, osservo la figura di una ragazza di vent’anni appena, magra, forse troppo, e alta, come tutti i Nott. Il suo colorito è roseo, gli occhi verdi, frangiati da ciglia chiare, ricordano quelli di un falco, l’espressione è altrettanto ferina mentre i capelli sono biondi, lunghi e piatti, lasciati sciolti lungo le spalle.

 
Come mi sento diversa adesso, penso, come se fossi una spettatrice dei miei stessi ricordi. Dov’è quel colore vitale dell’incarnato? Dov’è quell’aspetto sano che avevo un anno fa? La magrezza del mio corpo c’è ancora, anzi, è più accentuata. Stringo il mio tronco tra le mie mani, riuscirei a contare le costole una ad una. Anche gli occhi, come ho avuto modo di notare l’ultima volta che mi ero specchiata, non hanno più lo stesso bagliore di un tempo.
 
-Leyna!- mi sento chiamare da una voce.
I miei occhi abbandonano il mio riflesso e si posano su una donna appena entrata nella stanza. È alta, poco più di me, ha i miei stessi lineamenti ferini, ma la chioma è di un nero corvino, mentre l’espressione è dura come il marmo sul quale mi ergo in piedi.

-Buongiorno madre- mormoro, accennando un inchino.
-Che ci fai a ciondolare per casa? Non te l’ho proibito mille volte?-
La sua voce è tagliente mentre mi parla. Non ricordo che cosa stessi cercando, o cosa avessi in programma di fare, così decido di mentire.

-Certo madre. Stavo cercando Adrian.-
Mio fratello maggiore è sempre stato il mio punto di riferimento, la mia roccia, il mio porto sicuro. Troppo tardi mi accorgo però che non avrei dovuto fare il suo nome: Adrian è lontano da casa Nott da poco più di un anno. Mia madre usa un tono affilato quando si rivolge a me, ma almeno non mi sta sgridando.
-Bene. Adrian è tornato questa notte, poco fa stava facendo colazione in sala da pranzo.-
Una strana euforia mi pervade, riscaldandomi più delle fiamme che scoppiettano nel camino. Avevo mentito per evitare un rimprovero di mia madre, ma Adrian è tornato davvero. È a casa! Senza ricevere alcun comando dal mio cervello, i miei piedi si mettono in moto, portandomi via in tutta fretta da quella stanza.
-Leyna!- mi sento chiamare ancora, ma io sto dirigendomi verso la sala da pranzo, troppo emozionata per dar retta a mia madre.
Spalanco le porte di quercia con impeto: mio fratello è lì, seduto a un capo della tavola, mio padre invece ha preso posto all’altro capo. Io però non ho occhi che per Adrian. Mi precipito verso di lui, quasi correndo e invocando il suo nome. Finalmente è tornato, finalmente è di nuovo con me! Quante notti ho soffocato i miei singhiozzi nel cuscino, maledicendolo per avermi abbandonata alle angherie della nostra famiglia. Finché eravamo insieme non potevamo certo fare fronte comune, ma almeno eravamo uniti. Mentre, da quando Adrian era partito, sono stata costretta a ingoiare uno dopo l’altro i rimproveri e le punizioni dei nostri genitori e di mio zio Herbert, il padre di Theodore. Vedendomi correre verso di lui, Adrian spalanca gli occhi, sorpreso, e sposta la sedia verso la mia direzione, ma non si alza.

-Leyna!-
La voce tonante di mio padre mi costringe ad arrestarmi, con il cuore in gola.
-Che comportamento è mai questo? Correre scompostamente verso qualcuno ti sembra una condotta  degna di una Nott?-
-Ma, padre… è mio fratello!- balbetto tremante.
Lui assume un cipiglio che dire severo sarebbe poco. Non parla più, ormai i miei genitori non mi sgridano più. Mio padre sposta la mano dalla tazza di tè verso la bacchetta che è posata accanto al piatto dei toast. Con lo sguardo seguo i suoi gesti, agghiacciata. So cosa sta per fare, ma non ho la forza per muovere un muscolo. Mio padre impugna la bacchetta e me la punta contro, le labbra si socchiudono nel mormorio dell’incantesimo che ha scelto per me.

 
Spalanco gli occhi mentre sussulto, scossa da una scarica di dolore che mi percorre tutte le membra. Impiego qualche secondo a realizzare che la sofferenza non è reale, semplicemente quel ricordo era fin troppo vivido. Deglutisco a fatica, sentendo la mia gola trafitta da centinaia di spilli infuocati.
Ora che ho aperto gli occhi posso guardarmi intorno. Lo squallido pavimento, il cencio che indosso e le sbarre alla feritoia mi ricordano che sono ad Azkaban. Improvvisamente mi assalgono i ricordi degli ultimi tre giorni e realizzo perché sono qui. Nel mio petto, dove dovrebbe esserci un cuore, avverto un vuoto asfissiante.
-Già, la situazione è complicata, le celle sono piene!-
-Queste sono le direttive del Ministro Shacklebolt, dobbiamo semplicemente attenerci ad esse.-
Anche se gli Auror fuori dalla mia cella stanno sussurrando, le loro voci arrivano alle mie orecchie come boati. I due maghi continuano a confabulare tra di loro, commentando l’affluenza massiccia di Mangiamorte ad Azkaban. Uno dei due conclude dicendo:
-È finita.-
È proprio vero, la seconda guerra magica è terminata, il Signore Oscuro è stato distrutto, e noi Mangiamorte siamo rimasti come cani sciolti, rabbiosi e pericolosi più per noi stessi che per gli altri. Come da manuale, siamo stati catturati uno dopo l’altro e imprigionati. Mi domando dove sia Adrian, in questo momento è l’unica persona di cui mi importi.
 
Due bambini, di cinque e sette anni, giocano sull’enorme tappeto che copre il pavimento di casa Nott. Siamo io e Adrian, sorridenti nei nostri vuoti causati dai denti da latte caduti, allegri e spensierati. I nostri genitori non frenano l’irruenza dei nostri giochi solo perché in questo momento non sono in casa.
I capelli di Adrian, di un castano così scuro da sembrare neri, riflettono la luce guizzante delle torce. D’un tratto smette di ridere e assume l’espressione più seria che un bambino di sette anni possa tirare fuori dal suo repertorio. Mi porge la mano mentre dice:

-Facciamo una promessa, d’accordo? Impegniamoci a rimanere sempre uniti, qualsiasi cosa accada. Va bene?-
 
Va bene? Andò bene finché eravamo piccoli, mentre giocavamo insieme, mentre scontavamo insieme le nostre punizioni. Andò bene finché fummo compagni di Casa ad Hogwarts, ovviamente smistati tra i Serpeverde, come da tradizione. Andò bene dopo i M.A.G.O. Finché Adrian non divenne un Mangiamorte, e allora la nostra promessa iniziò a starmi stretta. Ma non potevo rimangiarmela. Perché adoravo Adrian con tutta me stessa, e perché la nostra famiglia voleva che le cose andassero in un certo modo. Fu così che divenni una Mangiamorte anche io.
Muovo le mie labbra secche e la mia lingua riarsa.
-Adrian…- chiamo, come in preda ad un sogno delirante.
-C’è qualcosa che non va?- mi chiede l’Auror che stava parlando con il suo collega fino a poco prima.
Tento di sedermi in modo un po’ più composto, in fondo sono una Purosangue, anche se in carcere.
-Nulla,- rispondo con un filo di voce, -è che sento dolore dappertutto…-
Automaticamente, le dita mi vanno sull’avambraccio sinistro, pronte a grattarlo a sangue. È la parte del corpo che mi tormenta più di tutte: pulsa continuamente, brucia, punge. Raschiandolo con le unghie cerco un po’ di sollievo, ma in realtà mi faccio ancora più male. L’Auror mi guarda con un misto di timore e repulsione: i suoi occhi sono puntati sul Marchio Nero.
 
-Non credo di volerlo fare- mormoro con un filo di voce.
Sto andando contro i miei genitori e zio Herbert, che mi osservano con espressioni scandalizzate. Cosa mi è venuto in mente?

-Leyna Arthemia Nott, come puoi dire una cosa del genere? È un privilegio e un onore per la nostra famiglia poter servire il Signore Oscuro.-
Gli occhi dei miei parenti brillano sinistramente.
-Hai ventuno anni, ormai sei una donna adulta e capace di farsi carico delle sue responsabilità. Dovresti essere felice di questa proposta, non titubante.- dice mia madre con tono duro.
-Credi forse che Adrian si sia tirato indietro quando è stato il suo momento? No, affatto!- tuona mio zio, -È stato più di un anno lontano da casa per prestare servigi al Signore Oscuro, e l’ha fatto con gioia. Appena avrà l’età giusta, anche Theodore si unirà ai Mangiamorte.-
I miei occhi si posano sul profilo impassibile di Adrian, riempiendosi di lacrime. Mio fratello è eretto e fiero, punta il suo sguardo davanti a sé, osservando un punto imprecisato sopra la mia testa. Mia madre lo guarda con ammirazione, così altezzoso e austero, ma io so che lui sta soltanto cercando di evitare il mio sguardo. Il suo avambraccio sinistro è marchiato con il simbolo dei Mangiamorte. È arrivato il mio turno. Non ho la forza di ribellarmi apertamente contro la mia famiglia, ma nello stesso tempo non riesco a decidermi a sottostare a questa imposizione.
-Petrificus Totalus!- declama mio padre, evidentemente non ha voglia di stare ad argomentare con me la sua decisione.
Colpita in pieno dall’incantesimo, non ho la forza di muovere un muscolo. Nonostante questo però, avverto tutto quello che mi succede.

-Morsmordre.-
Un urlo silenzioso rimane intrappolato nella mia gola mentre sento l’avambraccio andare a fuoco.
 
Nascondo l’avambraccio sinistro sotto un lembo del cencio che indosso: non voglio che l’Auror mi guardi con quel disprezzo.
-Non è sempre stato così, sa?- dico rivolgendomi al mago.
Non so perché sto parlando con lui di queste cose, so solo che voglio impegnare gli ultimi istanti di tempo che mi rimangono prima di essere Baciata da un Dissennatore.
-Non volevo essere marchiata, l’hanno fatto contro la mia volontà.-
-Ma hai commesso molti crimini.-
L’astio nella sua voce è pungente.
-Già, ma ero sotto la Maledizione Imperius, scagliata dagli stessi amorevoli genitori che mi Marchiarono contro la mia volontà e mi spedirono in guerra come carne da macello.-
L’Auror assume un’espressione sorpresa.
-M-maledizione Imperius? Ma se non hai agito guidata dalla tua volontà, non dovresti stare ad Azkaban.-
Rido. È una risata gracchiante e dolorosa per la mia povera gola in fiamme, ma ancora altezzosa e sprezzate, come quella di ogni Purosangue.
-Oh, merito di stare ad Azkaban, eccome!-
Quello che avevo detto all’Auror era vero: appena Marchiata, i miei genitori pensarono di vincere la mia fiacca opposizione soggiogandomi con la Maledizione Imperius. Del periodo che trascorsi sotto quella Maledizione Senza Perdono non ricordo nulla: vedo solo buio. Quando però fui liberata dall’incanto, scoprii di avere ucciso un’intera famiglia e di aver aiutato altri Mangiamorte a convincere i Giganti ad unirsi al Signore Oscuro.
Mi sento avvolta da ricordi, immagini spaventose e prive di senso come prodotte da un Incanto Dismundo.
Fu atroce rendermi conto di quello che avevo fatto, una volta tornata in me. Cosa ne era stato di Leyna Nott? Che fine avevano fatto i sogni, gli interessi, le passioni? Tutto era stato fagocitato dalla missione dei Mangiamorte. Tornata padrona della mia volontà, che cosa mi rimaneva? Nulla che non si riferisse al Signore Oscuro e alla sua causa. Anche Adrian era un Mangiamorte, ormai si era guadagnato il rispetto degli altri, e i servigi che il Signore Oscuro gli assegnava erano sempre più importanti. Sua sorella non poteva essere da meno. Ecco perché, nonostante fossi stata liberata dalla Maledizione Imperius, continuai ad uccidere e a torturare sotto il sinistro e verdastro bagliore del Marchio Nero, questa volta consapevolmente. Finché arrivò il momento che tutti aspettavamo, a cui l’intera mia vita era stata preparata: la Battaglia di Hogwarts.
Non avevo la cieca fedeltà dei Malfoy nei confronti del Signore Oscuro, non avevo la febbricitante ammirazione di Bellatrix Lestrange, né il gusto per il sangue fresco di Fenrir Greyback. Eppure, combattendo al loro fianco, mi sentii elettrizzata ed eccitata quando distruggemmo gli incantesimi di protezione di Hogwarts, risi quando uccisi studenti inermi, di pochi anni più piccoli di me, esclamai con giubilo mentre seminavo morte e distruzione insieme agli altri seguaci dell’Oscuro Signore.
 
-Ti prego!- esclama, per l’ennesima volta una donna di una quarantina d’anni. Potrebbe essere mia madre.
È scossa da un tremito incontrollabile, la voce è incrinata, gli occhi pieni di lacrime. Ma è un membro dell’Ordine della Fenice, o un’alleata dello stesso.
Stringo le labbra e sollevo la bacchetta contro di lei, che inizia a piangere più forte. Il fragore della guerra in corso sembra un dolce rumore lontano, come lo sciabordio delicato delle onde contro la scogliera. Un vento tiepido gonfia il mio mantello nero, vessillo di un atroce destino che porterò  a chiunque vorrà mettersi sul mio cammino. Non provo alcun rimpianto nel guardare ancora una volta la donna.

-Avada Kedavra.-
 
L’Auror mi guarda, adirato e forse un po’ intimorito davanti al mio sguardo allucinato e alle mie frasi insensate.
-Pagherete per quello che avete fatto!- urla.
-Lo so.- rispondo, ritornando improvvisamente ad un tono più pacato e ad un’espressione seria e dimessa. -Me lo auguro davvero.- mormoro ancora.
Per anni ho temuto il Bacio di un Dissennatore, ma allo stato attuale delle cose mi sembra la migliore delle possibilità che mi attendono. Dicono che sia peggio della morte. Io la morte l’ho guardata in faccia tante volte, non voglio più averci a che fare. Dicono che trasformi il mago o la strega a cui è somministrato in un involucro senz’anima. Io ho perso la mia anima diversi anni fa.
L’Auror va via senza aggiungere altro: probabilmente mi considera una pazza. Sono pronta ad affrontare il mio destino.

Passano altri tre giorni: la mia sorte si sta facendo attendere. Mi sono accorta che la disperazione e la depressione che provo mi appartengono, non sono causate da alcuna creatura oscura. Alcuni Auror vengono verso la mia cella e si fermano davanti ad essa. Con un colpo di bacchetta aprono un varco tra le sbarre. È giunta la mia ora!, penso, non sapendo se con più rammarico o sollievo.
-Leyna Arthemia Nott, è libera di andare.-
Sono così sorpresa da non riuscire a parlare. Dopo alcuni istanti in cui avverto gli sguardi degli Auror scottarmi la pelle, riesco a domandare:
-L-libera? M-ma…mi aspettavo di venire Baciata!-
-Il Ministro della Magia ha vietato l’uso di Dissennatori ad Azkaban.- risponde un mago con tono di disappunto, -Sei libera di andare, hai sentito? Qualcuno ha pagato la cauzione, pare che non ci siano prove contro di te.-
L’Auror è scettico, ma io sono ancora più confusa. Quando se ne vanno, cerco di ricompormi e ripulirmi al meglio che posso. Frastornata, varco la soglia della mia cella. Sto abbandonando Azkaban.
All’estremità di un corridoio di pietra, vedo mia madre e, accanto a lei, un alto mago dai capelli biondissimi e dalla corporatura vigorosa. Entrambi hanno dei sorrisi malignamente soddisfatti stampati sui volti ferini.
-Bene, Leyna, vedo che dopo solo una settimana di prigione ad Azkaban hai già assunto una pessima cera!- esclama amorevolmente mia madre.
Anche io sono felice di vederti, mammina, penso con un sorriso beffardo.
-Dov’è Adrian? Come mai mi hanno fatta uscire?-
Mentre pongo queste domande, lo sguardo mi cade sulla tasca del mago biondo: da essa emerge una borsa che doveva aver contenuto in tempi migliori centinaia e centinaia di Galeoni.
-Conosci Thorfinn Rowle?- domanda mia madre, -È stato così gentile da chiarire il malinteso e pagare la tua cauzione. Presto anche Adrian verrà tirato fuori da questo postaccio.-
Certo che conosco Thorfinn, abbiamo combattuto fianco a fianco a Hogwarts. Dovrebbe essere anche lui incarcerato ad Azkaban, ma a quanto pare è la prova vivente che l’innocenza e la libertà possono essere comprate. E non parlo solo della sua libertà personale, ma anche della mia e di quella di mio fratello.
Thorfinn esce da quel luogo, dicendo di volerci concedere un momento di privacy dato il nostro felice ritrovamento. Afferma che ci aspetterà fuori. Ma che ritrovamento davvero gaio, penso osservando l’espressione arcigna di mia madre.
D’un tratto rimango folgorata da una considerazione: un mago oscuro, Mangiamorte, Serpeverde nell’anima, non fa nulla per pura bontà d’animo. Cosa avrà mai voluto in cambio, Thorfinn? Ho quasi paura a domandarlo ad alta voce.
-Non hai ringraziato il signor Rowle per averti tirato fuori da qui,- dice tagliente mia madre, -appena usciremo da questa stanza mi aspetto che tu ti dimostri carina e riconoscente con lui, sono stata chiara? Comportati bene e la convivenza non sarà un problema.-
Trattengo il fiato e strabuzzo gli occhi, come se fossi stata colpita da un ceffone. Mia madre continua:
-Il signor Rowle si è dimostrato così gentile da liberarvi che sposarlo sarà il minimo che tu possa fare per ringraziarlo.-
Era stato uno sporco ricatto, penso livida.
Mai in tutta la mia vita ho potuto prendere una decisione autonomamente, non incomincerò certo adesso. Così, insieme a mia madre, esco da quel corridoio squallido. Thorfinn mi rivolge un sorriso famelico, io mi aggrappo al suo braccio.
Esco da Azkaban con una consapevolezza: ho evitato una condanna a essere pasto di un Dissennatore per aggiudicarmi un ergastolo.
   
 
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