Centoquattordici
Il sole a Varsavia
While you try to steal a day, not guilty
Generale, queste cinque stelle,
Queste cinque lacrime sulla mia pelle
Che senso hanno dentro al rumore di questo treno,
Che è mezzo vuoto e mezzo pieno
E va veloce verso il ritorno,
Tra due minuti è quasi giorno,
E’quasi casa, è quasi amore
(Generale, Francesco De Gregori)
Il poeta polacco che Nikolaj citava sulla porta di casa, stringendo tremante le mani di Natal’ja, si chiamava Zbigniew Kieszek.
Era di Danzica, lui, e aveva sulle labbra screpolate il sorriso un po’ spavaldo un po’ timido di chi non ha mai sentito stretto stretto intorno ai polsi il vincolo d’esser sangue della Capitale.
Aveva lo sguardo corsaro e una stretta di mano in un pugno di niente, aveva un volo di farfalle e chiare ali di gabbiano nella luce del bel viso.
Sembrava un bambino ed aveva vent’anni, vent’anni e un giorno, vent’anni e uno spicchio di luna nel sorriso quasi invisibile di limone posato sul piattino da thé che portava nella stanza accanto.
Aveva una sorella, una sorella per cui dare la vita, una sorella immaginaria, perché ogni poeta, sulla carta, anche per scherzo, anche per finta, deve avere qualcuno per cui morire.
Aveva una ragazza a cui cantare le sue poesie al calar del sole e un nome falso su un passaporto a cui gridare amore, amore e amore.
Aveva una donna bambina e già sfiorita, da aspettare ancora, mai vista e mai esistita.
Era stato quando era partita la bambina del balcone, che spegneva la candela quando lui arrivava e diceva ch’era buffo, a scrivere sempre, a scrivere quelle belle frasi.
Lo diceva con un po’ di malinconia, perché lei era cresciuta tra i soldati, uomini assurdi e incontentabili, i più scostanti e prepotenti, che le sbarravano la strada e trasformavano il sorriso in una fiamma consumata dal buio.
Era stato quel giorno a buttare giù il muro, a cambiare la luce negli occhi e il bel viso, a cambiar l’ordine dei versi e il tono astratto delle poesie.
Aveva avuto una ragazza da far piangere sulle scale, da far star male così tanto da sognare di morire, e quella ragazza aveva un nome da spagnola, una chioma ribelle e il sole negli occhi.
Aveva avuto tre nomi da scrivere, tre nomi da non dimenticare.
Innamorato?
Si era mai innamorato, Zbigniew?
Ladro?
Aveva mai rubato, Zbigniew?
Cristiano?
Aveva mai creduto in Dio, Zbigniew?
Coraggioso, forse.
Non aveva mai avuto paura del buio, Zbigniew.
Poeta di niente, poeta di nessuno.
Il primo soldato a bruciare la divisa, quando la Russia aveva vinto.
Il primo a dire: “E’ bella, Varsavia, ma non è casa mia” ad un ragazzo più eroico e più ingenuo di lui, che non gli avrebbe creduto mai.
Il primo ad aspettare ancora la Spagnola, come chiamavano a Varsavia la bambina del balcone, che pure era russa, sull’ultimo gradino della scala su cui aveva pianto.
Il primo a vedersi ancora bambino nel sorriso della neve, il primo a morire tra le righe di un quaderno ritrovato sotto al letto, ad ignorare la pioggia più violenta, ad uscire in piazza non per manifestare, ma per vedere il sole.
Ma ad amare, a capire, sarebbe sempre stato l’ultimo, Zbigniew.
E Zbigniew, forse, non aveva mai saputo soffrire, soffrire abbastanza da riuscire a sorridere sapendo di aver vinto, soffrire e soffrire da crederci, in quel che c’era dopo il dolore, soffrire da guardare poi chi stava bene e sapere di avere qualcosa in più.
E Zbigniew ormai poteva e sapeva soltanto invidiare chi, i giorni dei vent’anni, era riuscito a farli tornare.
Poeta, poeta, poeta per chi, poeta delle poesie di guerra imparate a memoria da chi torna a casa, poesie del sole a Varsavia da cercare dietro al monte, dietro al monte della neve in estate e delle pastorelle smarrite, dietro al monte dei camosci salutati levandosi il cappello, dietro al monte da inchinarsi al vecchio saggio e non al re, dietro al monte da cogliere un mazzo di funghi per cena e viole azzurre e fiori di campagna da portare alla nonna della nonna sotto al ritratto impolverato, dietro al monte dove il sole è dei poeti, dei poeti come Zbigniew che non sapeva in quale mondo credere e poi i suoi mondi li aveva bruciati tutti quanti in una mano, come Zbigniew che sapeva vivere dando un senso alle parole e poi le parole eran finite dietro al monte come il sole, come lui.
Poeta per chi ricordava che a Varsavia c’eran stati tre bambini, tre ragazzi, tre cuori di neve sulla neve quasi sciolta del mattino e ancora fresca della sera, a brillare sulle strade deserte anche in Primavera d’una periferia eterna che non si poteva illuminare con la luce d’un fiammifero né cambiare con quel sole che bruciava nelle mani, ma ci avevano provato, loro.
Poeta per chi ricordava ancora quei nomi scritti tra le righe dei libri di scuola, ripetuti ogni Natale dalle campane del Seminario, sussurrati al vento freddo dalla sirena di Varsavia come l’ultima poesia di quel ragazzo, il primo dei tre, che per quei versi avrebbe e aveva smesso di respirare.
Zbigniew, Julyeta e Nikolaj.
Note
Le campane del Seminario: Chiesa del Seminario, Varsavia.
La sirena di Varsavia: Simbolo della Capitale polacca.
“Quando la Russia aveva vinto […]”: Nella prima metà dell’Ottocento la Polonia era sotto il governo dello zar russo.
“While you try to steal a day, not guilty”: Mentre cerchi di rubare un giorno, innocente. Not Guilty, The Beatles (George Harrison). La frase di Zbigniew, in un certo senso.
Generale di De Gregori teoricamente sarebbe la canzone di Il’ja, ma la citazione d’inizio capitolo è perfetta anche per Zbigniew, punto. ;)
Che
dire, adesso?
Del personaggio di Zbigniew sono innamorata, io.
Non avevo mai parlato dei vecchi amici di Nikolaj, degli amici di Varsavia, che poi, forse, non aveva visto più.
Ma Zbigniew… Zbigniew Kieszek, il poeta di Danzica dal nome impronunciabile, è straordinario, davvero.
E’…è forse il più caro amico di Niko, del Niko di prima, e già questo dice molto, forse.
Sono cresciuti insieme, Nikolaj, Zbigniew e Julyeta, ch'era quasi loro coetanea, sebbene Nikolaj fosse a tutti gli effetti suo nipote.
Akakij,
Platon, Pál e Csák -anche se quest’ultimo è
un caso a parte- l’hanno conosciuto dopo, gli hanno volto bene
lo stesso, certo, ma era lui a non essere più lo stesso, non
era lo stesso che a diciassette anni inseguiva Fanny Elssler per
tutta Berlino con Alja che aveva cinque anni, allora, non era lo
stesso che parlava coi gatti sul tetto della Scuola Pubblica di Varsavia, durante
le bufere di neve, non era lo stesso che sgomitava nei salotti
ungheresi per stringere la mano a Franz Liszt e che s’è
quasi ammazzato, una sera, per un autografo di Chopin, non era lo
stesso che girava per le strade di Varsavia con Julyeta e Zbigniew e
ricopiava i versi di quest’ultimo spacciandoli per suoi con le
ragazze e firmandosi Wolzart e che un giorno avrebbe suonato
con Strauss e Beethoven, almeno nei suoi sogni quindicenni, almeno in
quei sogni.
Non era lo stesso che di sogni ne aveva mille e uno, non era lo stesso che a tredici anni beveva la cioccolata con suo padre, la prima, l’ultima, l’unica, l’eterna, che non avrebbe scordato mai.
A tutti questi momenti dedicherò alcuni capitoli, prima o poi, perché anche Sic Volvere Parcas, la Sic Volvere Parcas pubblicata fino ad ora, lo conosce troppo poco, il primo Nikolaj.
Beh, Zbigniew l’ha conosciuto.
E anche Zbigniew, anche lui è da conoscere, perché ha dato tanto, a Niko e anche a Julyeta, il poeta di Danzica.
E non lo so, non lo so se è un caso, che Julyeta incanti sempre i letterati, filosofi, giornalisti e poeti, e Natal’ja i mezzi delinquenti, rivoluzionari, eroi ed antieroi di guerra, briganti ed evasi, forse dipende da loro, perché sono diverse, Julyeta e Natal’ja, la Spagnola e la Sfuggente, per quanto maledettamente simili.
Entrambe sognatrici e fin troppo sognatrici, forse, ma irrimediabilmente madre e figlia, quasi sorelle, quasi amiche, eppure infine solo questo.
E questa, questa era solo una presentazione di Zbigniew, ma spero che vi sia piaciuta e che vi sia piaciuto lui, tutto qua.
A presto! ;)
Marty