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Autore: PiccolaWriter    25/10/2011    4 recensioni
Qui.
Vieni lentamente.
Vieni lentamente da me.
Ho aspettato.
Paziente.
Pazientemente.

Una storia Jacob/Bella, inspirata dagli stupendi Radiohead e dalla loro stupenda canzone “Go Slowly”.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Jacob
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
- Questa storia fa parte della serie 'Melodie di Parole'
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Go Slowly


“Over here.
Come slowly,
come slowly to me.
I’ve been waiting.
Patient.
Patiently...”


La pioggia si scatenò all’improvviso.
Un tuono profondo, simile al ringhio di un animale millenario, fece vibrare il terreno ai nostri piedi. Entrambi, contemporaneamente, iniziammo a correrre: il profilo rosso di casa mia non sembrava così lontano, ma la pioggia stava diventando troppo fitta da renderci goffi. Il suolo terroso e umido ci appesantiva il passo.
Mi voltai appena, senza smettere di correre.
Bella arrancava dietro di me, le braccia piene dei pezzi che avevamo racimolato quel giorno - frammenti di marmitte, valvole, cinghie e altri aggeggi utili - che battevano tra di loro producendo degli strani e distorti tintinnii metallici, incrostati com’erano di grasso scuro ed un po’ lucidi di pioggia.
Mi lasciai prendere da lei, che correva così, impacciata. Su quel terriccio umido e ricoperto a tratti dal pietrisco, riusciva a stento a mettere un piede davanti all’altro, ma stringeva le labbra e continuava ad incespicare senza emettere suono.
Per un lungo momento non sentii più nulla: la pioggia che mi schiaffeggiava il viso e che mi pungeva la nuca, il rombo incazzato di un tuono che scosse tutto, quei lampi che per una breve frazione di attimo avevano squarciato il cielo plumbeo, come flash fotografici, gettando luce brillante negli occhi scuri di Bella.
Le sue gambe magre che si muovevano a scatti, in difficoltà, le sue scarpe sporche di fango affondavano nelle pozzanghere e schiacciavano le pietre scabre, traballando. La testa un po’ abbassata, per nascondere il viso alla pioggia, i capelli bagnati e scuri come l’onice sul collo.
- Maledizione! - la sentii imprecare, quando un pezzo metallico le scivolò dalla presa, rotolando via in una pozza fangosa.
La sua voce venne soffocata da un altro tuono, la pioggia ritornò ad accecarmi e voltandomi continuai a correre in direzione della mia casupola. Qualcos’altro però attirò la mia attenzione, quando entrò a far parte del mio offuscato campo visivo.
Il vecchio trabiccolo di Bella era posteggiato a qualche passo da noi.
Fui svelto nel deviare la direzione dei miei passi, ma un po’ meno quando tirai il braccio all’indietro e afferrai d’impulso il polso magro di Bella. Lei si fece scivolare via tutti i pezzi metallici dalle mani, emise una protesta ma non la sentii, non me ne importava nulla dei pezzi.
Forse dopo me ne sarei pentito - ci avevamo messo un pomeriggio intero per trovare qualcosa di decente, in mezzo a tutta quella ferraglia inutilizzabile - ma in quel momento m’importava solo che trovassimo un posto dove stare all’asciutto mentre il mondo ci pioveva addosso.
Spalancai lo sportello di fretta e quello protestò cigolando, sbriciolando un po’ di ruggine scura tra la fanghiglia. Lasciai che lei salisse prima di me mentre venivano giù gocce grosse quanto calabroni, dure come pezzi di ghiaccio.
Salii anch’io nel vecchio Pick-up, chiusi lo sportello al mio fianco con un lamento ed un botto secco.
Ci fu qualche attimo di silenzio, di stasi.
L’unico suono che riempiva l’abitacolo era quello dei nostri respiri affannati dalla corsa, oltre al picchiare violento delle gocce di pioggia che continuavano ad accanirsi contro il tettuccio mezzo arrugginito.
Bella respirava dalla bocca, le mani raccolte l’una nell’altra.
- Cavolo, l’abbiamo scampata bella - ridacchiai sommessamente.
La guardai con la coda dell’occhio, mentre mi passavo una mano fra i capelli fradici.
Era raggomitolata al posto di guida, le ginocchia strette sotto il volante, le palpebre abbassate.
I suoi capelli erano parecchio umidi, le si erano incollati alla fronte e disegnavano linee storte e scure che le scendevano sino al mento, al collo bianco. Resi più scuri dalla pioggia, riuscivano a far sembrare la sua pelle più pallida di quanto già non fosse. Porcellana fredda.
Distolsi lo sguardo da lei perché qualcosa aveva cominciato a pungolarmi dall’interno, all’altezza dell’addome.
Mi ritrovai a pensare delle cose strane e stupide a cui non avevo mai pensato prima con tanta intensità, ed ebbi paura e vergogna di me stesso.
Ansimavo un po’, confuso. Lei teneva ancora gli occhi chiusi, respirava a fatica.
Presi a torturarmi le mani, fissandomi i piedi, le vecchie Nike sporche di terra e ormai logore, le gambe troppo lunghe incastrate alla meglio in quello spazio esiguo, i jeans sbiaditi che me le coprivano, macchiati di olio, zuppi d’acqua.
- Senti freddo?
La sua voce sottile mi fece trasalire.
- No, non tanto.
Fui coraggioso a dire qualcosa del genere con tanta naturalezza, devo proprio ammetterlo, perché in quell’esatto momento sentii che l’unica cosa asciutta che avevo ancora addosso erano le mutande. Forse. Non ne ero poi così sicuro.
Mi schiarii la voce.
- Tu sembri infreddolita e parecchio pallida.
Bella si sforzò di sorridermi, ma notai che qualcosa non andava. Gli angoli della sua bocca erano tirati a fatica. La fossetta appena accennata della guancia sinistra non era affiorata come si deve. Già, c’era qualcosa che non andava: lei mi sfuggiva, ma ci fu un momento in cui riuscii a beccarla.
I suoi occhi incrociarono i miei per un momento, ma bastò. Perché lo conoscevo bene quello che c’era dentro, avevo imparato a riconoscerlo ancora prima di vederlo con i miei occhi. Lo sentivo, lo sentivo già nell’aria quando cominciava ad uscire fuori, allo stesso modo in cui riuscivo sempre a capire quando il tubo del lavello cominciava a perdere; c’ero abituato, ormai. Riuscivo sempre a cogliere quel flebile picchiettare delle gocce d’acqua sul pavimento.
Riuscivo sempre a cogliere quell’ombra che, senza motivo apparente, di tanto in tanto le saliva a coprirle il volto. Ad offuscarne gli occhi, a cancellarne l’espressione. A renderla un corpo vuoto, inerme, morto e caldo.
E l’odiavo - la odiai anche in quel momento, quando vidi Bella svanire davanti i miei occhi sgomenti per qualche attimo che mi sembrò durare due vite.
L’odiai con tutto me stesso, quell’ombra che me la stava portando di nuovo via.
Bella si mosse, assente. Si cinse i gomiti abbracciandosi da sola, piegandosi un poco su se stessa, richiuse per un attimo gli occhi stringendo le palpebre e serrò i denti. Lasciò che la sua fronte si poggiasse contro il volante, increspandosi.
Ero spiazzato.
Ebbi paura, di nuovo.
Ebbi la piena consapevolezza che non sarei stato capace di sopportare i suoi occhi ottenebrati, spenti, se me li avesse passati addosso in quel momento. Sarei scappato, piuttosto che vederla così. Le avrei passato le braccia intorno al petto, l’avrei stretta con tutte le mie forze.
Non ti lascio sbriciolare dal dolore, le avrei sussurrato, per infonderle coraggio.
Serrai i pugni, ficcai le dita nel palmo fino a farmi male, mi morsi la lingua fino a farla sanguinare.
Sono qui, Bella. Vieni da me.
Non mi guardò, continuò a stare immobile.
Stretta nella presa debole delle sue braccia, sofferente, sola. La fronte premuta sul volante.
La osservai senza saper che fare, intontito. Il rumore della pioggia battente mi era entrato nelle orecchie e gli occhi mi si erano incollati alle sue labbra rosse, dischiuse. Quelle non mi facevano paura. Erano secche, screpolate - aveva la brutta abitudine di mordicchiarsele e maltrattarsele, quando era nervosa.
In quel momento erano così, arse, asciutte. Appena aperte, come in cerca d’aria. D’aiuto.
La sua sembrava la bocca di un muto che cerca inutilmente di urlare tutto il suo dolore al mondo.
Mi sembrò di vederla tremare per un istante fugace, quella bocca, quelle labbra arrossate; pensai che no, forse l’avevo soltanto immaginato. Quella lava che improvvisamente aveva preso a scivolarmi dentro le vene, al posto del sangue, però... no, quella non la stavo immaginando affatto. Era reale, la sentivo bene. E scottava quella lava maledetta, faceva male; s’insinuava dovunque, viscosa, avanzava. Cominciai a sentire che bruciavo sottopelle.
Sentii chiaramente che mi pulsava tutto nello stomaco, quel fuoco.
Dovevo fare qualcosa.
- Oh, Jake, lascia perdere... - la sentii mormorare, a denti stretti.
Sembrava essere quasi ritornata in sé, d’improvviso.
Mi stava scrutando di sbieco, ancora appoggiata con la fronte sul volante, un occhio aperto e l’altro socchiuso. Lo sguardo era un poco vacuo. Il buio della sera che avanzava a stento in mezzo a quella tempesta le si era accumulato tutto nelle iridi. Le gocce che strisciavano sul vetro del parabrezza le si riflettevano fiocamente sulla faccia, mi sembrò per un attimo che fossero delle grandi lacrime che le rigavano il volto cereo.
Teso come una corda di violino, simulai un sorriso tranquillo.
- Cosa dovrei fare? Stare qui senza far nulla, aspettando di vederti trasformare in un cubetto di ghiaccio?
Con qualche difficoltà, riuscii a scollarmi di dosso la camiciola di flanella a quadri scozzesi che indossavo: era inzuppata come la pezzuola che mio padre mi metteva in fronte quando scottavo di febbre. La strizzai, me la posai sulle gambe, sui jeans sdrucidi. Mi contorsi in mille modi per riuscire anche a togliermi la semplice t-shirt scura che portavo sotto la camicia, che sembrava leggermente meno bagnata.
Sorrisi tra me, scorgendo la sua espressione confusa.
- Hai le chiavi? - le chiesi, sbrigativo, con la maglietta appallottolata tra le mani.
- Le chiavi? - ripeté, stringendo gli occhi per un istante, facendo mente locale - le chiavi, sì, le ho qui.
Bella si drizzò, tastandosi i jeans e tirando fuori con qualche difficoltà le chiavi del veicolo.
Evitò di guardarmi in faccia, però aveva allontanato le braccia dal petto e aveva ripreso a muoversi come un normale essere umano, e tanto bastò per risollevarmi il morale. Cercai di scrollare gli indumenti umidi, nel frattempo.
Bella inserì le chiavi nella fessura del quadro ed automaticamente si accesero le piccole luci del tettuccio ed il riscaldamento si attivò; sbuffi di aria tiepida cominciarono a sgusciar via dalle griglie di plastica, mentre quella luce giallognola aveva riempito l’abitacolo che appariva più stretto di quanto pensassi.
Le investiva anche i tratti infreddoliti, adesso.
M’imbambolai un istante nel fissare i ghirigori senza senso tracciati dai suoi capelli bagnati, incollati sulla nuca bianca. Mi dovetti mordere un labbro per costringermi a smetterla di fissarla con tanta insistenza; Bella mi guardò le mani un po’ confusa, un lieve sorriso accennato sulla bocca.
Non mi disse nulla, si limitò a guardarmi così, in maniera piuttosto... strana. Io mi sentii altrettanto strano sotto i suoi occhi. Solo in quel momento mi ricordai di essere a petto nudo davanti a lei, e presi coscienza del fatto che non eravamo mai stati in un posto tanto stretto e tanto vicini l’uno all’altra. Mi rubava l’aria prima che riuscisse a scendermi nei polmoni.
- Cosa c’è, Jacob? - soffiò a bassa voce.
Deglutii, afferrai la camiciola e la maglia e le misi davanti agli sbuffi di calore senza dir nulla. La sensazione fastidiosa di soffocamento non scomparve. Mandai giù un altro po’ di saliva, quella poca saliva che le mie ghiandole riuscivano ancora a produrre - la mia bocca pareva il deserto rosso dell’Arizona. Niente, qualcosa continuava a bloccarmi la gola.
Ci pensai su, mi tastai distrattamente il pomo d’Adamo.
Forse mi si era incastrato il cuore nella faringe.
Bella tacque. Riuscivo a scorgerla con la coda dell’occhio, vedevo il suo volto pallido girato verso il mio ma non riuscivo a focalizzarne i dettagli. Se mi fossi voltato avrei visto le sue sopracciglia incurvate, aggrottate; la sua fronte solcata da linee distorte, di confusione; il suo mento accartocciato, i denti che mordicchiavano l’angolo della bocca.
Non mi voltai. Lasciai che la scia vacua del suo sguardo mi bruciasse la pelle.
Ad un certo punto lei sospirò, silenziosa: era passato qualche minuto.
- Non sono granché asciutti, ma meglio di niente - biascicai, tastando la camicia e la maglietta.
Le porsi gli indumenti, senza riuscire a restistere all’impulso di guardarla dritto negli occhi.
La pioggia riprese a battere più violenta sul tettuccio del Pick-up. Scrosciava troppo forte, sembrava che qualcuno stesse provando a lapidarci rovesciandoci secchi di pietre addosso. Non ebbi bisogno di volgere lo sguardo al finestrino per accorgermi che aveva preso a grandinare.
Bella staccò la chiave dal cruscotto, la lucetta giallognola si spense di botto.
L’aria tornò a freddarsi, i nostri respiri lasciavano l’ombra bianca.
Guardai avido le sue mani d’avorio che reggevano quel malloppo di tessuto, le dita affusolate che affondavano nei quadri scozzesi della camiciola. Le sue unghia mangiucchiate che sfioravano i bottoni umidi.
- Mettili - mi ordinò, dopo averli tenuti tra le mani per un breve momento - mettili o morirai di freddo.
Ghignai, mi sfregai le mani sui jeans, scrollai le spalle.
Avevo la pelle d’oca sulla nuca, ma come facevo a spiegarle che non era colpa dell’aria gelida?
Come facevo a dirle che era colpa dell’ombra scura che le tagliava a metà il viso bianco, i capelli abbandonati sulla fronte, la fossetta d’ansia che affiorava in mezzo alle sopracciglia corrugate, l’ondeggiare lieve del suo petto al passaggio del respiro, il suo collo umido di pioggia, il suo polso sottile, il colletto della sua camicetta chiara nascosta sotto la felpa scura, la piega morbida delle sue labbra, il tremolio nervoso della gamba?
Come facevo?
- Stai tremando.
- Non è vero - mentì.
La vidi, in quel momento un brivido la colse, le fece vibrare la spina dorsale.
- Stai tremando - insistetti.
Presi la camiciola che teneva tra le mani, attento a non sfiorare la sua pelle nemmeno per sbaglio, e con cautela gliela sistemai sulle spalle magre. La sentii sbuffare tra i denti, scocciata. Chissà perché, sembrava che odiasse il fatto che qualcuno potesse avere premure nei suoi confronti, che la prendesse a cuore - che si facesse prendere il cuore da lei.
Avevo quasi ripreso il totale controllo dell’andamento del mio respiro, avevo quasi imparato ad ignorare quelle fitte dolorose e pungenti che mi trafiggevano l’addome ad ogni suo battito di ciglia, ero riuscito ad acquistare nuovamente il coraggio di fissarla in volto e la forza di riuscire a toglierle gli occhi di dosso, quando lei, ovviamente, mandò allegramente tutto quel lavoro e tutta quella fatica all’inferno con un solo, unico gesto.
Allargò la mia maglietta e me la poggiò addosso, sul petto.
La teneva con una sola mano, poggiata all’altezza di quell’informe massa di muscoli che, incastrata tra i polmoni sgonfi, ingabbiata tra le costole, si contorceva a stento e incespicava, pulsando con evidenti difficoltà.
Cuore. Quella cosa era il mio cuore. Mi dispiacque ammetterlo, mi dispiacque immaginarlo ridotto in quel modo, ma quando lo feci avevo l’assoluta certezza che fosse in quelle esatte condizioni. Ero semplicemente lucido, realista.
Bella non fece caso alla posizione della sua mano.
O forse sì.
In effetti, si soffermò nel fissarsela, assottigliò gli occhi per un momento, mi sembrò - preferii immaginare - che stesse cercando soltanto un po’ di concentrazione e che stesse aguzzando le orecchie: forse era curiosa di sapere se quella cosa che mi stava toccando batteva ancora, c’era ancora, lì dentro, da qualche parte.
In quei momenti, inutile dire che mi tramutai in una statua di cera.
Fu lei a muoversi.
Non sciolse la presa dolce della sua mano sul mio petto, ed io mi ritrovai a desiderare con tutto me stesso che non lo facesse. Diavolo. Improvvisamente avevo ripreso a pensare a tutte quelle cose infinitamente stupide ed imbarazzanti di poco prima; mi stupii sinceramente del fatto che una mente come la mia potesse elaborare certe cose, talmente stucchevoli e romatiche, che se avessi avuto la forza di dirle ad alta voce, probabilmente, mi si sarebbero cariati tre denti all’istante.
Ma Bella non accennava a muoversi. Mi guardò di sottecchi, d’improvviso, dal basso - perché era un po’ china sul mio petto, perché il suo palmo aveva preso a premere più forte su quel pezzo di carne morta che era il mio petto.
Di nuovo, desiderai che non si allontanasse. Che la grandine non smettesse di scagliarsi sul tettuccio dell’auto e di frantumarsi e scivolare sul vetro del parabrezza. Che quel momento durasse in eterno.
Le sue iridi sembravano fatte di tenebra amara.
Tremai.
- Mettila - mormorò.
Qualcosa nella mia espressione attonita ed intontita - più intontita che attonita, sicuramente - dovette suscitarle divertimento, perché d’un tratto la linea soffice e rossa della sua bocca cominciò a curvarsi lenta verso l’alto, in un sorriso dolce. Dolce e qualcos’altro.
Be’, non ci voleva poi molto per rendermi poltiglia, lo stavo capendo appieno in quel momento.
- Mettila - ripeté, indicando la maglietta con un lieve movimento del mento.
La lasciò andare, si risistemò al posto di guida, continuò a sorridermi di sbieco. La maglietta si afflosciò sulla patta dei miei pantaloni, mi sentii ribollire il sangue - lava - nelle vene. Tentai per alcuni minuti di riprendere il controllo di me, di afferrare quella maglia maledetta, ma riuscii soltanto a fissarla col respiro affannato per qualche minuto.
Un tuono rombò, rombò nella mia testa.
- Cosa ti prende, Jake? Qualcosa non va?
La guardai, bevvi con gli occhi i suoi tratti pallidi. Inclinava un po’ la testa, i capelli le si stavano asciugando, alcune ciocche scompigliate le sfioravano le spalle, si rintanavano tra le clavicole.
Stiracchiò le labbra, mi sorrise ancora, incoraggiante.
Aveva notato che mi aveva trascinato senza saperlo sull’orlo della pazzia?
- Tutto bene - farfugliai, scuotendo rapido la testa - tutto bene, tutto bene.
Bella si sporse un altro poco verso di me, rannicchiò le ginocchia al petto, gettò un’occhiata al vetro e alla tempesta che imperversava al di fuori di quel bozzolo di metallo e poi tornò a puntare su di me lo sguardo, sicuramente confusa, perché non mi ero mai lasciato ridurre a quel modo, perché avevo sempre mostrato tranquillità e serenità, perché avevo saputo di quanta sofferenza il suo cuore e la sua anima si fossero caricate in quel periodo, e l’unica cosa che avevo voluto era stata alleggerirla da quel peso.
Le avevo sempre sorriso.
Avevo sempre tentato di essere il sole, per lei.
Ma il sole non c’era, in quel momento. Era offuscato, sprofondato tra quei nuvoloni gonfi e arrabbiati e pieni di pioggia e pronti a scoppiare da un momento all’altro. Era nascosto. E neanche dentro me riuscivo a trovare la forza di essere un sole, il suo sole, in quel preciso momento.
Bastò un attimo.
Un lampo lucente spezzò il cielo plumbeo, irradiando tutto con la sua luce accecante.
Fu grazie a quella luce fugace che riuscii a vedere bene gli occhi di Bella, mentre le mie labbra si premevano con foga sulle sue. Impreparata, stupita, allargò quegli occhi. Sollevò le sopracciglia, mi perforò con uno sguardo che sembrava un misto di terrore, di piacere, di grida, di risate, di sorpresa, di tutto quello che non le avevo mai visto dentro un semplice sguardo. Tutte le parole che non avrebbe saputo dire.
La luce del lampo le entrò nelle pupille e se ne fuggì via dopo un istante eterno, lasciandole di nuovo al buio, ottenebrate.
Le sue labbra rimasero lì. Sulle mie. Le mossi appena, spaventato. Avevo paura di me stesso, di ciò che mi spingeva verso di lei, di ciò che m’istigava ad avvicinarmi ancora, ancora, ancora. Chiusi gli occhi e sprofondai in quella nuova sensazione, non respiravo per paura che si allontasse da me.
Non la trattenni in alcun modo, le mie mani erano da qualche parte lungo i miei fianchi, sul sedile, come le sue, strette intorno alle ginocchia. L’unica cosa che ci teneva uniti era quel contatto a fior di bocca.
Poi la sentii. Sentii il suo labbro scivolare sul mio, saggiarlo. Scendere giù, sull’altro, passarci sopra con tutte e due le labbra, riacciuffarlo e succhiarlo piano, come un dolce delizioso che non si ha voglia di consumare subito. Con calma, con una calma che invidiai: mi trattenevo a stento dall’assalirla, dal farmi spazio in quella bocca con voracia. Non osavo farlo, però, avevo paura che mi allontanasse.
Continuò a muoversi così, bocca su bocca. Leccò piano un angolo delle mie labbra e mi sentii le budella nella gola, soffocato e sopraffatto da sensazioni così sconvolgenti, mai provate prima.
Non resistetti: mi appropriai della sua bocca con un solo movimento, lambendole entrambe le labbra con avidità, famelico, assaporandole fino in fondo, fino a farmi sentire la sua saliva sulla lingua. Non so come, ma ad un certo punto mi accorsi che la mia mano era corsa alla sua nuca, che la stringeva piano, che spingevo il suo volto verso il mio e che le sue mani pallide, fredde, erano di nuovo sul mio petto scuro e bollente.
Mi resi conto che non mi sarei mai accontentato di quelle labbra rosse che avevo tanto agognato, avrei voluto assaggiarla tutta; scoperto il sapore dolce della sua bocca, avrei voluto sapere quale gusto avesse la pelle soffice del suo collo, dell’incavo morbido del gomito, che sapore avesse sulla punta della lingua il contorno del suo ombelico, il suo caldo seno d’avorio, avrei voluto scoprire che gusto avesse la pelle sulla sua nuca, proprio lì dove affiorava timidamente la prima vertebra, che riuscivo a sfiorare con i polpastrelli.
Non mi sarei mai accontentato.
Continuammo a baciarci. Fu un bacio lungo, lunghissimo. Mandai giù soltanto due o tre respiri per tutto quel tempo, dal naso; Bella non la sentii respirare per un bel pezzo. Per un momento temetti che mi svenisse tra le braccia, perciò mi allontanai di scatto, le feci prendere un respiro profondo - lei mi guardò intensamente, qualcosa di indicibile negli occhi scuri, le mani le tremavano sul mio petto - e fu lei ad avvicinarsi al mio volto, quella volta.
Ci baciammo ancora.
La grandine cominciò a diminuire. Presto si trasformò in pioggia, poi anche la pioggia divenne pioggerellina leggera e scomparve quando i nuvoloni più scuri cominciarono a diradarsi nel cielo, lasciando intravedere di tanto in tanto la faccia tonda e pallida della luna. Sembrava che volesse spiarci, con tutte quelle stelle al seguito.
Ci baciammo ancora, ancora.
La luna scomparve di nuovo e ritornò la pioggerellina. Picchiettava leggera contro il vetro e scivolava via disegnando linee confuse sul parabrezza ed i finestrini chiusi, ragnatele d’acqua. A corto di respiro, ci allontanammo di nuovo l’uno dall’altra.
La poltiglia che avevo nel petto pulsava più che bene, sotto il tocco di quelle mani bianche.
Bella si morse il labbro inferiore - scarmigliata, le guance in fiamme, le spalle strette, le dita frementi. Fece per avvicinarsi, vedevo la mia bocca arrossata e stropicciata riflessa nei suoi occhi affamati, e qualcosa mi spinse a poggiarle una mano sul braccio, a frenarla.
Si bloccò. Sfiorandomi con due dita, iniziò a disegnare sfuggente il profilo del mio mento, il contorno della mia bocca.
- Non avevo mai baciato nessuno prima d’ora - ammisi.
La fissai, sentendo un sorriso spontaneo nascere sulle mie labbra, sotto il tocco dei suoi polpastrelli leggeri.
Bella inghiottì un respiro, sembrò quasi strozzarsi. Tremò. Si allontanò immediatamente da me, abbassò il volto, si strinse di nuovo le braccia al petto, sembrò sul punto di perdersi ancora; sul viso cereo si fece strada il nulla, la sofferenza, e non ebbe più il coraggio di guardarmi.
- Io sì - sussurrò.
A tentoni, cercò la maniglia dello sportello. La lasciai uscire, la guardai scendere giù a fatica dal sedile. Non si preoccupò nemmeno di chiudere lo sportello, lasciò che cigolasse nel vuoto. Prese a camminare lenta, sotto quella pioggerellina fitta e quasi invisibile. Invisibile, come mi sentii io.
Guardai la mia camicia di flanella che le copriva sbilenca le spalle, scivolava un po’ di lato.
Guardai la sua schiena magra, la nuca pallida nascosta per metà dai capelli.



“Qui.
Vieni lentamente,
vieni lentamente da me.
Ho aspettato.
Paziente.
Pazientemente...”



Fu allora che capii che lei non mi sarebbe mai appartenuta. Che non mi sarebbe mai appartenuto niente di lei, nient’altro che non fosse quel bacio, forse.
Quel gioco di labbra affannate... quel ricordo.
Ed il suo respiro ed il suo sapore nella bocca, che presto sarebbe scomparso.
Come tutto il resto di me.








   
 
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