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Autore: Palindromo    25/10/2011    0 recensioni
In un universo imprecisato, in un tempo imprecisato, il racconto di un ragazzo che prova in prima persona i dolori della disilussione, della perdita della fede e del primo contatto con il mondo post-infanzia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima volta che sentii l’abisso avevo dodici anni. Passeggiavo con mio padre lungo le dune, ed ad un tratto seppi che era li, oltre la sabbia, che mi aspettava da sempre. Fu come un vento caldo che mi spazzolava i capelli, come respirare l’alito umido di una ragazza, quando questa si avvicina a te per darti il vostro primo bacio. Capii che non era un caso che l’avessi sentito io ed io soltanto, mio padre, che eppure mi camminava a fianco, non si accorse di nulla. Ma quella sera non ebbi paura, la mia mano era stretta in quella di mio padre, e nulla al mondo avrebbe potuto corrompere l’anima del mio genitore. E tuttavia, per tutto il tempo che restammo sul limitare delle dune in cerca di granchiolini, la presenza che avevo avvertito non mi abbandonò mai. La sentivo mentre, piegandomi, appoggiavo i palmi sulla sabbia, la stessa sensazione che si prova nel far coincidere le proprie mani con quelle di un’anziana signora leggermente provata dalle fatiche della giornata; La sentivo mentre alzavo lo sguardo a marte, fulcro rosso nel cielo estivo, che quella sera sembrava voler ricambiare il mio sguardo, e la sentivo mentre, di nascosto a mio padre, mangiavo qualche esemplare di granchiolino trovato nella sabbia. Nonostante ciò, almeno per quella sera, non provai il desiderio di scavalcare le dune per recarmi al di là, nel cratere, non dovetti trafiggermi i palmi per resistere l’insistente impulso. Quella sera, forse l’ultima sera d’infanzia della mia intera esistenza, vissi l’abisso come i bambini vedono gli adulti, lo scrutai con curiosità, certo, ma persi presto interesse in esso, quasi fosse un nuovo giocattolo che non capivo come utilizzare, e ritornai da mio senza voltarmi verso le dune.

E vennero le pioggie. Per nove mesi piovvero dense gocce, metà acqua e metà fango, così fredde e insensibili che sembrava dovessero spegnere ogni scintilla di fuoco esistente al mondo. Per quell’inverno ancora non potei varcare i confini della casa paterna, passai le giornate come le passano i bambini, fra giochi e storie, ed i racconti dei vecchi. Uscivo di rado, e quando tornavo ero fradicio di sabbia e di acqua, tanto che mia madre doveva obbligarmi a cambiarmi dalla testa ai piedi prima di potere sdraiarmi sui divani della sala a camino. Dalla volta che tornai con la polmonite, poi, non uscii più, visto che dallo spavento che si prese mia nonna rischiò di rimanervi sepolta pure lei. Per tre mesi, così mi dissero, perché a me sembrò molto di più, non potei alzarmi da letto. Fui preda di terribili attacchi di asma, di panico, brividi e dolori che farebbero impallidire e chiedere pietà anche il più mostruoso dei diavoli, il mio corpo bruciava, e la mia fronte diventò rossa al punto che si confondeva con i capelli. Mia madre voleva chiamare il prete per farmi esorcizzare, ma questo non riuscì a far partire la carrozza, tanto le strade erano un fiume di sabbia. Quando guarii, il mio corpo era un altro.

Le fiamme che per tre mesi mi avevano avvolto non avevano lasciato niente della vecchia materia. La prima volta che uscii nella pioggia, alla seconda settimana di convalescenza ma non ancora guarito, con mia nonna che si faceva il segno della croce dalla finestra, mi sentii nudo, non c’era più niente di materiale in me, ero un fantasma nel diluvio. Poi, e fu il tempo di pochi minuti, sentii che qualcosa cambiava. La pioggia che correva sulla mia pelle mi ricostruiva, il corpo che mi ritrovai ad abitare fu un dono delle sabbie. Ma quale corpo! E anche se all’apparenza ero sempre lo stesso, quando la notte mi spogliavo per entrare nel letto capivo che qualcosa era cambiato, che non ero più il bambino che correva impudemente nella pioggia; capivo che quel corpo era fatto di sabbia, e che per sempre avrebbe risposto al canto della terra.

Succedeva sovente, durante quell’inverno, che mi recassi nella camera di mia nonna. La stanza era in cima alla torretta, più alta persino della biblioteca di mio padre, e se non fosse stato per la pioggia e la nebbia, si sarebbe visto fin oltre il paese, forse fino alle dune. Ma, almeno per quello che mi ricordo, durante quei nove mesi le finestre furono sempre avvolte da uno strato di nubi. Quando entravo, mi sembrava di passare in un altro mondo. La casa, in tutti i suoi altri vani così buia, sporca, trasandata e umida improvvisamente cambiava; un odore di lavanda animava la stanza di mia nonna, ed i muri riflettevano i colori del mondo, dell’arcobaleno e delle estati passate. Li, mi sdraiavo sulla trapunta color lillà, e lei, sedendosi sul bordo del matrimoniale, a poche spanne da me, raccontava storie incredibili. Da lei ascoltai i viaggi di Ulisse, il mito di Tebe, le leggende di Ercole e la storia di Dante. Fu lei che mi raccontò di Marco, di Matteo, di Luca e di Giovanni, e da lei seppi quindi di Mosè, di Caino, Adamo e di Giacobbe. Li, sulla trapunta lillà, realizzavo quanto fossi fortunato a vivere in un mondo a vivere in un mondo dove il buon Dio vegliasse su di noi, e quando la pioggia finalmente cessò, non ebbi dubbio che anche questo fosse un dono dal cielo.

Intanto ero cresciuto, e uscivo da solo. E anche se uscendo non stringevo più la mano di mio padre, sapevo cavarmela. Anche mia nonna, dopo qualche giorno, smise di guardarmi dalla finestra con sguardo ansiato, ed io fui libero. Quell’estate la passai in paese. Passavo le ore a girare con i giovani della mia età, ed insieme scoprivamo quello che il mondo teneva per noi. Insieme correvamo per i frutteti, per gli orti e le vigne, ci perdevamo nei vicoli e la sera, stremati, ci appartavamo nel grano, da prima nel gruppo, e dopo, quando l’estate iniziava a calare e le spighe doravano, eravamo sempre meno, finché non fummo che a due a nasconderci dal sole in tramonto. Talvolta, poi, inebriati dai profumi delle spighe e della scoperta, uscivamo dal grano con passo insicuro, tremante, e, ricompostici per il gruppo, tornavamo nei vicoli, per brindare ed inneggiare alla notte. E dopo, ancora, erano altre scoperte, e io non sapevo mai se al mattino saremmo tornati tutti. Il mattino, a casa, attraversavo i divani con mio padre che mi guardava severo dalla cucina, e salivo sulla torretta, per addormentarmi ascoltando i racconti di mia nonna. Lassù sembrava che il tempo non fosse passato, che fossi ancora il bambino che ero prima della polmonite, quello che la sera andava a cercare i granchietti con il padre, e cercava solamente i granchietti. Un mattino, che il sole era appena sorto, mia nonna mi raccontò del vangelo di Angelo, e li mi rizzai a sedere. Mia nonna mi raccontò che Angelo era stato l’apostolo in più, l’anticristo, quello che prima di Giuda aveva stretto un patto con Lucifero. Seppi che usava tenere la messe nelle parti più basse delle grotte, o sulle spiagge più inacessibili, dove i fondali erano saturi del legno dei vascelli affondati e del sangue dei loro passeggeri. Anche lui, come gli altri, aveva sentito la chiamata del signore, ma la sua fu una vocazione disturbata. Fu il primo di molti a non trovare conforto nel sacro, ad entrare per poi uscire dalla casa del signore, ad essere ammesso al regno dei cieli e rimpiangere l’inferno per l’eternità.

Quel racconto mi lasciò disturbato. Fino ad allora, seppure cambiato nel corpo, ero rimasto sincero nell’anima e nello spirito. Ero sinceramente convinto che, con una fede salda ed immacolata, nulla potesse sbagliare, che la nostra salvezza fosse assicurata. Ora, però, iniziai a dubitare. Chi era Angelo, e che cosa aveva turbato la sua vocazione?

  Ripensandoci, quell’estate non dedicai molte riflessioni a quell’ultimo apostolo. Certo, il racconto mi aveva disturbato, e per qualche tempo in chiesa non ebbi il coraggio di sedermi nelle panche più prossime all’altare, ma bastarono cinque minuti con il parroco perché ogni timore venisse scacciato, ed io tornasi il ragazzo spensierato che in fondo ero. Capitò poi che venne la mietitura del grano, e noi non sapessimo più dove andare alla sera. Certo, c’era chi aveva le cascine, i fienili o le stalle, ma c’era sempre il rischio che qualche parente venisse a controllare, e nessuno teneva all’idea. Una sera, mentre giravo con lei che mi seguiva, mi ritrovai dalle dune, le stesse dove un anno prima venivo con mio padre a cercare i granchiolini. Lì, pensavo, avremmo trovato lo spazio che cercavo e, con un po’ di fortuna, non sarebbe passato nessuno. Ci eravamo appena seduti, però, che non riuscii più a concentrarmi su di lei. Era come se qualcuno chiamasse il mio nome, mi distraesse, cercasse di dirmi qualcosa ed allo stesso tempo le parole gli venissero soffiate via dalla bocca. Quella sera lei se ne andò con le lacrime agli occhi, il trucco disciolto, ed io rimasi sul limitare delle dune, incapace di muovermi, e per la prima volta provai desiderio.

E l’estate finì, tornò l’inverno. Tornarono le pioggie, ed io, ormai grande, mi alzavo ogni mattina mezz’ora in anticipo per poter passare dall’anello, il sentiero di campagna che costeggiava le dune. Ogni mattina mi fermavo incantato a vedere i rivoli d’acqua che scivolavano per quelle colline color deserto, a vedere la sabbia che si riuniva alla sabbia, e non furono poche le volte che per questo arrivai tardi a scuola.

Intanto però ero grande, e la sera, quando non uscivo con il mio gruppo, la passavo nella biblioteca di mio padre, a leggere libri presi in prestito dalla libreria del paese. Avevo più volte cercato di convincere mia nonna a raccontarmi ancora la storia dell’ultimo apostolo, ma lei, facendosi il segno della croce, mi aveva risposto con una frase in latino che non ero mai riuscito a capire. Io però mi vedevo crescere, e nella mia crescita mi informavo, facevo arrivare libri da altre città, da altri paesi, una volta persino dalla Cina, volevo trovare qualcuno che mi dicesse che era una storia inventata, che nessuno aveva mai sofferto nella fede.

Un giorno, era quasi Natale, arrivò un pacco bagnato di sabbia, da Berna. Caso volle che a ritirarlo fosse Mirco, uno dei miei migliori amici, ma non il tipo di persona con la quale avrei voluto condividere i dettagli della mia ricerca. Le cose erano andate più o meno così. L’estate prima, era l’inizio di Agosto, e la mietitura non c’era ancora stata, io e lui eravamo caduti per la stessa ragazza. Fu una settimana di fuoco, questa andava una sera con uno e la sera dopo con l’altro e, se non riuscivamo ad averla per noi, non osavamo mostrarci alle spighe, tanta sarebbe stata la vergogna per la sconfitta del giorno. Intanto, però, la Domenica mattina, durante la messa, Margherita lo vide disegnare sul vangelo di Marco durante la predica. Fu la fine delle speranze di Mirco. Quel pomeriggio eravamo tutti seduti sul muretto, satolli degli ammazza-caffè del pranzo domenicale, gli abiti eleganti con qualche ombra di sporcizia bianca, e Margherita attaccò con il discorso. E quale discorso, ancora oggi a pensarci mi sembra di sentire la sua voce:

  Mirco era un ipocrita, un reietto, un cane aveva più onore di lui. Mirco, che nel tramonto le aveva giurato il suo amore sull’onnipotente, sulla sua stessa vita e su quella dell’intero coro degli angeli non era che un bugiardo. Lei lo aveva visto, in chiesa. E questo bastò. Cioè, bastò me per darle manforte. C’era da dire che, in precedenza, Mirco ed io eravamo anche stati buoni amici, compagni, sempre in squadra assieme, sempre ad appoggiarci, non avrei avuto ragione per andargli contro, non fosse stato che per la possibilità di avvicinarmi a Margherita.

Le cose, però, non andarono come avevo sperato. Il resto del gruppo, stufo dello spettacolo, non aveva voglia di mandare avanti la cosa, e liquidò la questione come una svista di Mirco, facendo capire a me e Margherita che era meglio se la lasciavamo cadere li. Quella sera la passai sull’anello, da solo, e tornai a casa sotto un’alba che mi parlava promesse di temporale. Pochi giorni dopo ci fu la mietitura, ma sarebbe stato meglio se quell’anno il grano non l’avessero proprio piantato. Il temporale che accompagnò l’alba era denso di sabbia, e gli uomini non sapevano se raccoglievano grano o terra.

Tornando però al discorso, fu Mirco a ritirare il libro, nel mezzo di un acquazzone che sembrava non dover finire mai più. Fu anche per questo che prima di me, ma anche prima di Mirco stesso, questo essendosi limitato a leggerne il titolo, il libro lo lesse Margherita.

Quando entrai, erano tutti nel salone parrocchiale, seduti a cerchio intorno al ferro di una stufa spenta. Mirco sedeva a gambe incrociate, reggendo il libro con devota attenzione perché Margherita, ininocchiata davanti a lui, potesse leggerne degli scorci. Il resto della compagnia era muta, persa, osservante la scena con deferente attenzione. Il mio ingresso passò inosservato, nessuno si girò a guardarmi o sembrò in altro modo rendersi conto del mio arrivo. Camminando, sentivo la sabbia fuggire i miei stivali, proiettata in avanti, anticipando il mio percorso. Ma a parte quello, e a parte il rumore delle pagine sfogliate, la stanza era immensa nel silenzio.

Finalmente, arrivai a pochi passi da Mirco e Margherita, e non poterono più ignorarmi. L’amico, se così lo potevo ancora chiamare, si voltò a guardarmi, lo sguardo indecifrabile. Margherita, invece, aveva l’aria scocciata, come se una qualche distrazione di second’ordine avesse interrotto qualcosa di estremamente solenne. Cercai di mostrare il mio miglior rorriso, ma i loro volti rimasero impassibili. Intanto, nessuno del gruppo continuava ad ignorarmi, continuando a mantenere lo sguardo fisso sui loro due compagni.

In quel momento sentii l’impulso, il desiderio di riprendermi il libro e scappare. Quel testo era mio, io l’avevo scoperto, pagato e fatto recapitare, e nessun’altro aveva il permesso d’impossessarsene senza il mio consenso. Lo afferrai, Mirco non oppose resistenza. Margherita mi osservava con un’espressione di vaga curiosità, ma un lieve contatto con l’amico bastò ad estinguere qualunque interesse.

Uscendo nella pioggia, il libro al sicuro sotto la mantella, sentii la corrente che sbatteva la porta del salone parrocchiale.

Intanto aveva smesso di piovere, e anche se le campagne erano ancora bagnate, la sabbia aveva già ceduto tutta l’acqua all’abisso e, quando mi sedetti sul’anello, lo trovai secco ed asciutto come era sempre stato. Iniziai a sfoglaire il libro; inizialmente piano e con movimenti pacati, poi, non trovando ciò che cercavo, con gesti sempre più convulsi ed affrettati. Quando anche li lessi la storia dell’ultimo apostolo esattamente come l’avevo sempre ascoltata, adirato, lanciai il libro lontano da me. Atterrò con un tonfo nella sabbia, ad una certa distanza, ed i rivoli causati dall’impatto ben presto lo sotterrarono.

Rimasi li, forse ore, ben oltre la sera. I miei compagni, probabilmente, erano anch’essi rimasti a lungo nel salone. Forse, poco dopo la mia partenza, avevano acceso la stufa, ed avevano arrostito castagne raccontandosi storie. Pensavo, e riflettevo, e più pensavo più mi rendevo conto che le mie ricerche erano inutili, che la storia che mi aveva raccontato mia nonna doveva essere vera, che potevano esistere persone condannate alla salvezza.

Non mi sdraia mai più sulla trapunta color lillà. Quell’inverno mio padre partì per tre mesi, per una spedizione commerciale dall’altra parte del mondo. La stessa sera che era partito, mia nonna, sentitasi poco bene, chiese di essere lasciata sola. Quando mia mia zia salì la mattina dopo a chiamarla, fu invece il parroco a dover venire. In seguito mi dissero che avevano trovato la finestra aperta, e la trapunta, completamente imbevuta di pioggia, aveva perso ogni colore, sfumando in un bianco sporco.

Io, però, quando sentii lo scalpiccio dei cavalli nel cortile scappai. Non sopportavao l’idea del camposanto, dell’incenso, dell’acqua benedetta e dei riti in latino. Scappai sulle dune, piagendo, chiamando perché mia nonna scendesse dal cielo e tornasse nella stanza sulla torretta. Piangevo perché volevo tornare bambino, perché volevo trovare ancora una volta conforto nella fede. Ormai sapevo, e non avevo più dubbi, che anche io ero come l’ultimo apostolo, anche io, che sicuramente sarei stato salvato, avrei per sempre pianto l’inferno.

Mentre scendevo verso l’incavo al centro delle dune, la pioggia e la sabbia che mi grattavano la pelle, sentivo come una musica, la stessache si sente quando si cammina nei pressi di una chiesa durante la messa, provenire dal profondo. Caddi in ginocchio, l’abisso, davanti a me, si stagliava nero ed infinito. Ancora una volta, l’ultima della mia vita, sentii il vento che mi scompigliava i capelli, sentii un desiderio, un richiamo che mi spingeva a saltare nel baratro. Sapevo, però, di non potere, sapevo che io, come molti prima di me, ero condannato alla salvezza, a penare di gioia, a tremare nel piacere.
  
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