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Autore: _Shantel    28/10/2011    17 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 10

Betato da nes_sie


Celeste Fiore
3393771***
Dieci numeri. Dieci semplici cifre l’una messa dietro l’altra e all’apparenza prive di alcun senso, almeno per qualcuno che non fossi io. Quello era il numero di telefono che aveva dato inizio a tutto, al mio cambiamento, a quella parte del mio cuore che non avevo mai utilizzato, che era rimasta atrofizzata fino a quando non si era scontrata con un paio di occhi azzurri. Fissavo lo schermo dell’iPhone da una buona mezz’ora, sperando succedesse qualcosa di tremendamente sconvolgente, ma la gigantografia della Curva Sud risplendeva nello wallpaper del telefono.
Muto.
Erano passate 13 ore da quando avevamo lasciato Il giardino segreto e Celeste non si era fatta sentire. Non che fossimo rimasti d’accordo per un’altra uscita – e soprattutto io non avevo la minima idea di come funzionassero queste cose – ma dalle poche informazioni in mio possesso, credevo di doverle telefonare.
Il problema era il come. Cosa le avrei potuto dire? Come avrei iniziato la conversazione? Era vero che la sera prima era successo qualcosa, finalmente si erano smosse le acque e Celeste non mi aveva preso a sganassoni, anzi, c’era stato anche l’happy ending. Ricordavo ancora il bacio che ci eravamo dati, il nostro primo vero bacio – senza ricatti o sotterfugi.
Ti rendi conto che stai pensando come se fossi in un romanzo della Austen? Cosa vuoi, una tazza di tè? Vuoi cominciare a fare il ricamo?
Il mio Ego alle volte faceva del sarcasmo la sua arma migliore. Scacciai via quei pensieri che avrebbero divertito il ‘vecchio’ Leonardo e sospirai, fissando lo sguardo sullo schermo del telefono. Di questo passo si sarebbe scaricata la batteria senza che concludessi un emerito nulla. Era una dannata telefonata, mica le avrei chiesto di sposarmi!
L’immagine di Celeste in abito da sposa ferma davanti all’altare di una chiesa mi solleticò la mente, e di punto in bianco inorridii. Leonardo Sogno fidanzato, Leonardo Sogno marito, Leonardo Sogno padre. Il salto era breve e immediato, mentre il panico cominciava già a serpeggiare nel mio cervello.
«C-Ch-Che f-fai?» La voce di Ruben mi riscosse dai miei timori, facendomi sobbalzare, poi decisi di darmi una regolata e mi sedei sul bordo del letto, lanciando il telefono il più lontano possibile.
«Niente.» Borbottai.
Il mio migliore amico non si lasciò ingannare tanto facilmente da quelle mie parole, ormai sapeva com’ero fatto, perciò entrò nella mia stanza e mi si accomodò vicino. Non disse nulla, almeno per il momento, e quel silenzio preludeva solamente un altro dei suoi consigli spassionati da “migliore amico”.
«L-Le-Leonardo,» iniziò, recuperando l’iPhone dall’altro capo del letto. «N-No-Non vo-voglio che t-tu-tu mi fraintenda. Q-Quando ti ho d-de-detto che a-avere una r-ra-raga-ragazza era s-so-solo una d-di-distr-distrazione, n-no-non p-pe-pensavo fossi c-co-così p-pre-preso.» Borbottò imbarazzato.
«Io non sono preso!» Sbottai, saltando subito sulla difensiva.
Gli occhi di Ruben si spalancarono dalla sorpresa, ma ormai era evidente che non riuscivo a ingannare nemmeno me stesso. Lo vidi spostare lo sguardo sullo schermo dell’iPhone, poi me lo passò gentilmente. «C-Chi-Chiamala.» Sospirò.
Rimasi immobile a tenere il telefono tra le mani, quasi come se mi avesse ipnotizzato.
«S-Se i-io ave-avessi una ragazza,» mormorò, alzandosi e facendo per andarsene dalla mia stanza. «N-No-Non esi-esiterei a s-se-sentire la s-sua v-vo-voce.»
Quelle semplici parole, forse dette nella più completa sincerità, mi diedero quella forza necessaria a comporre il numero di Celeste e a pigiare sul tasto verde della chiamata. Quando sentii il primo squillo, tutte le preoccupazioni che avevo avuto volarono via e mi sentii un vero idiota ad essermela fatta sotto solo per una stupida telefonata. Ruben aveva ragione, Celeste era la mia ragazza.
«Pronto?» La sua voce all’altro capo del telefono mi spiazzò di primo acchito, ma non potevo rimanermene in silenzio oppure riattaccare come un dodicenne.
«Bella!» Sputai, innervosito ed imbarazzato allo stesso tempo.
Bella? Hai davvero salutato la tua ragazza con ‘bella’?
«Ruben, sei tu?» Mi chiese lei perplessa.
«E chi, sennò? Il lupo mangia-frutta?»
Si udì un lungo sospiro ed io credei che mi avrebbe attaccato in faccia. «Finalmente ti sei deciso a chiamare, eh?» Bofonchiò infastidita.
Rimasi totalmente allibito. «Eh?»
«Ho detto: sei.finalmente.riucito.a.chiamarmi. Cos’è? Hai perso di nuovo il mio numero?»
La piega che quella conversazione aveva preso mi stava già facendo incazzare. Come al solito Celeste era acida come lo yogurt scaduto e mi stava trattando come una pezza da piedi.
Libera! Libera! L’Orgoglio di Leonardo sta tornando in vita!
«Io? Non potevi chiamare tu?» Sottolineai, poi, stufo di farmi mettere sotto da una ragazzina.
«Solitamente sono gli uomini che devono chiamare le proprie ragazze, il giorno dopo il primo appuntamento,» puntualizzò, ed ero più che sicuro che stesse agitando quel dito indice senza alcun freno. «L’ultima volta che ho controllato funzionava così, poi se tu, Mr. Egocentrico, vuoi stravolgere le regole del corteggiamento, fai pure.»
Ora era davvero arrabbiata.
Guardai il conteggio dei minuti della chiamata e l’orologio segnava 00.18. Non eravamo nemmeno arrivati a mezz’ora di telefonata e già stavamo litigando, che record perfetto.
Sospirai e decisi di abbozzare, per una volta. «Scfufaehm..» Bofonchiai, smozzicando le parole.
«Prego? Come hai detto?» Domandò subito Celeste, con una voce pressoché assordante.
«Lascialo parlare, dagli respiro!» Si sentì una voce di sottofondo.
Venera, quella santa donna. Alla fine di tutta quella storia avrei dovuto erigerle un monumento perché anche se avevo il sospetto più che fondato che stesse ficcanasando nella mia immensa rete di bugie, sapevo che ci teneva a questo rapporto.
«Ho detto che mi dispiace, va bene?» Brontolai. «È che…» E lì mi bloccai, perché non sapevo spiegarle il motivo per cui non avevo avuto il coraggio di telefonarle.
Scese il silenzio su quella conversazione già diventata di per sé imbarazzante, mentre la mia mente ancora non riusciva a partorire una scusa decente.
Ti sei inventato una vita non tua e non riesci a spiattellarle una cazzata?
«Ad ogni modo,» tagliò corto lei. «Perché hai chiamato? Spero non unicamente per dirmi “bella” come hai fatto prima…»
«Ti va di andare al cinema?» Sputai tutto d’un fiato, sperando la finisse di blaterare.
«Oh…» Disse solamente, spiazzata da quella richiesta.
«Sì, beh,» temporeggiai. «Avevo pensato ad un filmetto, così, per passare il pomeriggio.»
«Avanti, digli di sì! Cosa aspetti?» Udii di nuovo distintamente dall’altro capo del telefono.
«O-Okay, passi qui?» Mi domandò. «Devo prepararmi.»
«Perfetto, arrivo tra poco.» Le risposi, sorridendo di me stesso.
Avevo ottenuto una piccola vittoria personale facendo quel semplice gesto di ‘carineria’ che lei non si aspettava di certo da un troglodita come me. Alla fine ero riuscito a zittirla con delle semplici parole, cosa che non mi sarei mai aspettato da me stesso.
Prima di attaccare mi fermò con un «Ah, Ruben?»
«Sì?» Le chiesi, credendo dovesse aggiungere qualche insulto sottilmente velato.
«Speravo chiamassi.» Poi chiuse la telefonata senza nemmeno darmi il tempo di rispondere.
Fissai lo schermo dell’iPhone con la faccia da ebete, mentre sentivo il cuore che palpitava veloce nel petto. Possibile che mi sentissi così scombussolato dopo aver semplicemente udito la sua voce?
Speravo chiamassi.
Quelle due parole mi avevano ridotto le gambe alla stessa consistenza del burro e decisi di cominciare a vestirmi se non volevo ancora indugiare su quei pensieri smancerosi. Andai all’armadio e tirai fuori la tuta della Magica, quella blu scuro e rossa, poi ci abbinai una maglietta afferrata dal mucchio. Le air-max ai piedi e dopo nemmeno un quarto d’ora ero pronto. Un ultimo sguardo allo specchio, per fare un salutino al figo che mi restituiva l’immagine attraverso il riflesso, poi cercai le chiavi della 500 Abarth.
Certo non potevo presentarmi all’appuntamento con Celeste a bordo dell’Audi. Per la sera prima avevo avuto la scusa di Ruben, essendo lui Leonardo, ma se volevo passare da solo qualche momento con lei, avrei dovuto fare a meno del mio migliore amico.
«Dove sono le chiavi della Abarth, Ruben?» Urlai, sperando che mi sentisse.
Dopo poco lo sentii accorrere più di furia che di prescia alla porta della sua stanza, spalancandola e facendo la sua comparsa. Aveva un’aria arruffata e sconvolta, come se lo avessi sorpreso a farsi una pippa davanti ad un video porno.
«Che hai fatto?» Chiesi incredulo.
«N-Ni-Niente!» Rispose lui, appiattendosi i capelli sulla fronte e sistemandosi meglio gli occhiali.
Quel suo comportamento mi stava insospettendo non poco, soprattutto il suo modo maniaco-ossessivo di socchiudere la porta alle sue spalle. Era evidente che stava facendo qualcosa in quella stanza, ma non avevo idea di quale fosse il motivo per cui dovesse nasconderlo al suo migliore amico.
«Sicuro di non star combinando nulla di losco?» Gli domandai di nuovo, tentando di sbirciare oltre le spalle di Ruben ma riuscii solamente a vedere il suo iMac acceso.
«I-I-Io?» Tentennò, imbarazzato.
Ancora non mi convinceva il suo comportamento, ma avevo ben altre cose a cui pensare e soprattutto un bel paio di labbra soffici da baciare.
«Senti, dove sono le chiavi della 500?» Gli chiesi, sperando si sbrigasse a porgermele.
Ruben sgranò gli occhi e si portò una mano dietro alla nuca. «M-Mi p-pa-pareva di a-avertelo d-de-detto ie-ieri. L-le chi-chiavi se l’è p-pre-prese tuo cugi-cugino S-Si-Simone.»
D’improvviso una voce nella mia testa mi ricordò che effettivamente ciò che diceva Ruben era vero e imprecai una seconda volta. Quel cazzone non poteva restarsene in Inglesilandia? Possibile dovesse tornare a tormentarmi pure qui?
Calma, Leo. Basterà evitarlo come la peste.
«Uhm... okay.» Bofonchiai, incapace di pronunciare il nome di mio cugino.
Se la 500 era sparita dal box, come avrei fatto ad andare da Celeste? Quale altra cazzata mi sarei inventato per farle capire che non guadagnavo 30.000 euro al mese?
«Dannazione!» Imprecai, sotto lo sguardo confuso di Ruben. «E adesso come cazzo faccio con Cel?!»
«P-Po-Potrei a-averti p-pre-prestato la m-ma-macchina...» suggerì il mio amico, calandosi nella parte del calciatore facoltoso.
«No, non regge,» bocciai l’ipotesi. «Già sto camminando sul filo di un rasoio, poi c’è quella gnappetta che mi tiene per le palle e al primo passo falso capirà tutto.»
Stavo per proporre l’orribile ipotesi di prendere i mezzi pubblici, quando mi tornò alla mente la vespa scassata del mio migliore amico.
«Erika! La vespa!» Me ne uscii trionfante. «Damme le chiavi!»
«Ve-Veramente s-sa-sarebbe Eureka…» Mi corresse lui, ma lo fulminai con lo sguardo.
«Chiavi. Ora. Immediatamente.» Sillabai coinciso.
Ruben rientrò nella sua stanza, senza ovviamente farmi sbirciare nulla, poi riuscì mostrandomi il mazzo tintinnante nella sua mano.
«T-Tra-Trattamela b-be-bene.» Si raccomandò, poi afferrai di corsa i caschi e mi precipitai verso il garage.
Montai in sella al vespino e mi immisi immediatamente nel traffico della capitale – che la Domenica pomeriggio era infernale – ma fortunatamente, zigzagando tra le automobili con esperienza, riuscii a raggiungere il portone di Celeste in poco tempo. Parcheggiai la vespa sul marciapiede e mi tolsi il casco. Inspirai e mi avvicinai al portone dell’appartamento. Mi sentivo nervoso e non sapevo nemmeno il perché. In fondo, fin da quando io e Celeste ci eravamo conosciuti, avevo passato praticamente tutti i giorni sotto quel portone, attaccato a quel citofono, ma ora come ora mi sembrava di essere davanti alla gogna.
Dovevo stare calmo, dannazione, non potevo comportarmi come un cretino qualunque. Che il nome ‘Ruben’ mi facesse rincitrullire del tutto? Ero sempre Leonardo Sogno, porca zozza, il calciatore più affermato del momento, mica potevo stare imbambolato di fronte a quel citofono come un babbeo qualunque!
«Ehi, bello!» Mi sentii chiamare, poi voltandomi vidi la chioma fulva di Romeo.
«Ehi.» Mormorai, allontanandomi dal portone per non dovergli spiegare il motivo per cui non avevo ancora citofonato.
«Devi salire?» Mi chiese, tirando fuori il mazzo di chiavi dal giubbetto.
Non che avessi il fiuto di un segugio, ma quando il Rosso mi si avvicinò avvertii un certo profumo acre, qualcosa che avevo già sentito da qualche parte ma non ricordavo dove. Sembrava avesse fatto il bagno nello Chanel n°5.
«Magari, io e Celeste andiamo al cinema.» Bofonchiai, mordendomi all’ultimo la lingua e ricordandomi che Romeo poteva ancora essere incazzato con me per la storia della festa di Annalisa.
Gli occhi verdi di Romeo si scontrarono con i miei, ma non vi lessi invidia nelle sue iridi. Fu solamente sorpreso. «Ah, e cosa vi andate a vedere?»
Nel frattempo l’androne della palazzina si aprì di fronte al mio sguardo, mentre piano piano si avvicinava la diabolica macchina di cui avevo un fottuto terrore. L’ascensore del ’15-’18 mi fissava ed ero più che sicuro che stavolta non avrei avuto scampo se ci fossi montato sopra.
Dannata macchina infernale.
«Che hai?» Mi chiese il Rosso, pigiando il pulsante di chiamata.
Ingoiai il timore che le porte mi potessero intrappolare lì dentro, schiacciando tutto il mio futuro e il possibile pallone d’oro. «Nulla.»
I cigolii sinistri dell’ascensore mi fecero accapponare la pelle, ma decisi di entrare per non risultare ancora più imbecille di quanto già potessi sembrare. Da quando avevo conosciuto Celeste e Robbeo, era come se la mia dignità avesse deciso di farsi un bel giretto, lasciandomi a fare figure di merda una dietro l’altra.
«Allora? Che film andate a vedere?» Domandò di nuovo il Rosso, mentre quello strano profumo ancora mi tormentava la memoria.
Dov’è che lo avevo già sentito?
Tornai da quei pensieri insensati e mi decisi a dargli una risposta. «Non abbiamo ancora deciso, l’ho proposto poco fa.» Spiegai coinciso, infilando le mani nelle tasche della tuta.
Romeo non mi sembrò troppo soddisfatto di quella risposta smozzicata, ma non avevo voglia di tirarla per le lunghe. Era il primo appuntamento con Celeste da solo, da quando avevo deciso di imbarcarmi in quella specie di relazione che non aveva né capo né coda e non volevo cominciare a pestarmi i piedi da solo prima del previsto.
L’ascensore saliva lento, troppo lento, e i pensieri continuavano a vorticarmi in testa senza freno. Lo sguardo di Robbeo mi trafiggeva da parte a parte e se prima lo consideravo una specie di piattola che mi venerava, adesso cominciavo a vederlo sotto un’altra luce. Lui era il migliore amico di Celeste, innamorato di lei da chissà quanto tempo, e anche se il nostro rapporto si era logorato dopo la festa di Annalisa, sapevo che lui aveva reagito in quel modo soltanto per proteggere Cel.
«Uhm… senti,» smozzicò tirando calci immaginari con le sue AllStar. «Hai… hai deciso quando le dirai tutto?» Mi chiese, un po’ titubante.
«Tutto cosa?»
«Sì, beh… il fatto che tu non ti chiami Ruben e non sei un fioraio.» Completò la frase, senza però guardarmi negli occhi.
Eravamo giunti a quel punto e avrei dovuto immaginarmelo che sarebbe successo prima o poi. Ero fortunato ad averne parlato prima con Romeo, almeno lui sapeva la mia vera identità e potevo sentirmi ‘libero’ di parlarne. Certo, cosa avrei potuto rispondergli? Non sapevo nemmeno io se avrei mai detto la verità a Celeste. Volevo soltanto godermi quello che c’era tra noi, quello che ci sarebbe stato se lei mi avesse ancora voluto. Era strano a dirlo, ma quella vita normale non mi dispiaceva più di tanto adesso.
«Già,» soffiai. «Quel tutto.»
L’ascensore arrivò proprio quando le parole cominciavano a mancarmi, perché non sapevo nemmeno io come affrontare quell’argomento. Robbeo mi lanciò un ultimo fuggevole sguardo e uscì dalla cabina, raggiungendo il portone. Lo seguii a ruota, allontanandomi il più presto possibile da quel marchingegno pericolante e vidi il Rosso che infilava la chiave nella toppa. Entrammo nell’appartamento ed io ritrovai quelle forme familiari e quel tepore di casa che non avevo mai associato a Celeste.
Fino ad oggi.
«Si può? Siete vestite? Se ci sono tette in giro ancora meglio!» Sghignazzò Robbeo, poi si voltò verso di me e sbiancò, ricordandosi miracolosamente che dopo tutto Celeste era pur sempre la mia ragazza. «Cioè… ehm… volevo dire…»
«Tranzollo, Rosso. Non ti uccido mica.» Sorrisi, ritrovando un po’ di spensieratezza.
«Robbeo come sei idiota, certe volte…» Sospirò Celeste, uscendo fuori dalla sua stanza con una crocchia malmessa in testa e un vestitino grigio fuliggine da cui spiccava un evidente buco su un fianco.
Non appena i suoi occhi color dell’oceano incontrarono i miei, si spalancarono dallo stupore e tutto il suo corpo si immobilizzò.
«Ciao.» Le dissi sorridente.
Mi fissava ancora con un’espressione di puro terrore in volto, così mi controllai addosso se per caso mi fossi dimenticato di indossare i pantaloni prima di uscire. A quanto pareva, dopo un’attenta revisione, c’era tutto, ma Celeste sembrava ancora imbambolata.
«Che cazzo ci fai qui?» Tuonò, poi sparì nella sua stanza sbattendo la porta e facendo tremare i muri, mentre io e Robbeo rimanemmo sconcertati.
Gli occhi verdi del rosso mi cercarono ed insieme sospirammo quasi all’unisono. «Donne,» mugugnò lui, trascinandosi verso la cucina. «Chi le capisce, è un genio.»
Tirò fuori dal frigo due birre fresche e me ne porse una. La accettai di buon grado, anche se dopo avrei dovuto guidare, visto che un po’ di quel nettare fresco avrebbe stemperato la tensione che si era annodata attorno al mio stomaco. Ci dirigemmo in salone, dove Robbeo si sbracò letteralmente sul divano e accese pigramente la televisione, mentre io preferii sedermi sull’ormai familiare poltrona.
«Chissà cosa le è preso.» Dissi pensieroso, sovrastando il rumore della voce di Fabio Caressa che commentava la partita di campionato della Magica.
Romeo mi rivolse una rapida occhiata. «Quando finisce la squalifica?» Mi chiese, facendomi tornare improvvisamente con i piedi a terra. Da quant’era che non pensavo più al calcio, alla mia squadra, ai compagni e al Mister? Dopo l’espulsione – e anche prima, a dire il vero – la mia mente era stata ottenebrata dal pensiero di Celeste, ma adesso che stavamo insieme avrei potuto continuare da dove avevo interrotto.
«Sono pronta!» Annunciò una voce alle nostre spalle.
Mi voltai di scatto e per poco non presi davvero uno stiramento ai muscoli del collo nel vedere Cel. I suoi capelli biondi le ricadevano sulle spalle, mentre il vestito bucherrellato era stato sostituito da una gonnellina di jeans e un maglioncino giallo.
Era stupenda.
Scattai in piedi come una molla, quasi come se la poltrona si fosse incendiata all’improvviso e finii col rovesciarmi un po’ di birra addosso.
«Porca troia!» Sbottai, notando con crescente imbarazzo che era finita proprio sul cavallo dei pantaloni.
«Sempre Mr. Finezza tu, eh?» sbuffò Celeste, seguita a ruota dalla tappetta.
«Voi puffi uscite anche di giorno? Non siete creature notturne?» Sghignazzò Romeo, riferito alla mora.
Quella si accigliò subito e lo fissò inviperita. «Tappati la bocca, Robbeo!» Ringhiò. «Tu sei l’ultimo della tua specie che può parlare. Il colore dei tuoi capelli è individuabile anche dal satellite della NASA; sei come la muraglia cinese!»
Celeste si recò in cucina a prendere uno strofinaccio e tornò di corsa tamponandomi i pantaloni con ferocia, quasi a voler smaterializzare la macchia.
«Sembra che me so’ pisciato sotto.» Mi lagnai.
«Sta un po’ fermo, Ruben. Non fare il bambino!» Mi apostrofò lei, continuando a frizionare.
Al principio non mi ero accorto dell’effetto che le attenzioni della mia ragazza – seppur involontarie – stessero provocando al mio povero corpo semifrustrato, ma quando avvertii un certo calore al basso ventre, tentai in tutti i modi di spostarmi.
«Ruben, la vuoi finire?» Sbottò esausta.
«Basta così!» M’imposi e tentai di sgusciare via come un’anguilla.
«Ehi, non ho finito!» Si lamentò lei, rincorrendomi. «Si vede ancora la macchia, un po’ di pazienza!»
Romeo stava intonando cori tribali in favore della riuscita della mia fuga, mentre Venera dava manforte alla sua amica. Sembravamo quattro imbecilli ubriachi, senza contare che la birra non l’avevo quasi nemmeno toccata perché era finita interamente sui miei pantaloni.
Tentai di rinchiudermi in bagno, ma Celeste fu abbastanza fulminea da sgattaiolare dentro e chiudere la porta a chiave.
«Ora bagno un po’ lo strofinaccio e leviamo via quella macchia.» Disse con un tono esasperato nella voce.
Lo sapevo io che era una maniaca dell’igiene, ma tutto quello era decisamente esagerato. Ero più che sicuro che con Celeste non ci si annoiasse mai, forse era anche questo il motivo per cui volevo che il nostro legame si rafforzasse ancora di più.
«Senti, non mi pare il caso.» La pregai.
«Perché?» I suoi occhioni blu si spalancarono e mi inghiottirono completamente per quanto erano chiari. Alle volte la sua ingenuità mi spiazzava, i suoi modi e il suo comportamento erano una continua novità per me.
Deglutii a fatica, indeciso se dirle o meno il vero motivo per cui era meglio lasciar stare i piani bassi. Feci appello a tutto il mio self-control per non arrossire, poi finalmente Celeste si arrese.
«Fai un po’ come vuoi, testone!» Poi riaprì la porta e si dileguò, lasciandomi come un fesso.
«Ehi. E il film?» Le dissi, facendo capolino dalla porta del bagno.
Cel era impegnata a prendere una giacca di pelle e un foulard, poi mi fissò. «Un attimo, stavo prendendo la borsa.»
Il sorriso che mi si dipinse in volto mi uscì spontaneo, non riuscii a fermarlo. Non fu uno di quelli sghembi, quelli che usavo per ammaliare le pollastre, fu piuttosto un sorriso sincero, di puro coinvolgimento.
«Vuoi il casco di Vale?» Le chiesi, alludendo all’oggetto che aveva scatenato il nostro secondo incontro.
Celeste sgranò gli occhi quando comprese che saremmo andati al cinema con la vespetta di Ruben, ma non avevo altro mezzo di locomozione che costasse meno di 28.000 euro.
«Io non salgo su quel trabiccolo con questa,» e si indicò la gonna. «Non voglio mica mostrare la Iolanda in giro, eh? E poi tu dovresti essere il mio ragazzo, cosa ti salta in mente?»
Okay, mi aveva colpito e affondato in meno di tre secondi.
Romeo allora fece il suo ingresso nel corridoio e si appoggiò con una spalla al muro fissandoci con uno sguardo ammaliatore.
«Stai male?» Gli chiese Cel, preoccupata di quegli occhi a mezz’asta.
«No! Era un momento di suspense, e tu l’hai rovinato.» Si lagnò, poi si frugò le tasche dei jeans e mi lanciò un mazzo di chiavi. Le afferrai al volo ed esaminai un leone panciuto con scritto una ‘R’ gigantesca.
«Prendete il bolide, ve lo lascio per questa serata.» Disse in tono plateale.
«Il macinino?» Sbottai io, incredulo che dovessi anche solo salire all’interno di quella trappola mortale datata 1850.
Romeo s’indispettì subito, staccandosi dal muro e irrigidendosi, poi Celeste arrivò in suo soccorso. «Va be’, è sempre un mezzo di locomozione sicuro.»
«Sulla sicurezza non ci giurerei…» Puntualizzò Venera, beccandosi un’occhiataccia dal Rosso.
«Ce lo faremo andare bene.» Tagliai corto io, aprendo il portone e invitando Celeste ad uscire.
Prima di andare, però, la biondina annusò l’aria e si voltò a fissare Romeo. «Da quando ti metti lo Chanel?» Gli chiese, mentre il rosso divenne paonazzo.
Venera si avvicinò e insieme lo spinsero contro il muro. «Avevo notato un odore strano.» Disse la moretta.
Gongolai del mio olfatto. Evidentemente non ero l’unico che aveva notato quello strano odore nell’ascensore. Romeo nascondeva qualcosa, lo diceva il suo colore che variava dal verde marcio all’arancio più intenso, ma di questo passo avremmo visto lo spettacolo dell’una di notte.
«Andiamo?» Ghiesi a Cel, che per un momento non sembrò dell’avviso di uscire, poi si lasciò convincere da Venera.
«Arrivo.» Disse, poi si mise la borsa a tracolla e uscì sul pianerottolo.
Rivolsi un ultimo sguardo al Rosso che sembrava sull’orlo di una crisi isterica, poi mi chiusi il portone alle spalle.
Primo intoppo: dannata macchina infernale.
«Romeo è strano.» Sospirò Celeste, chiamando l’ascensore e cominciando a mettermi ansia.
«Perché non prendiamo le scale?» Suggerii.
Cel sgranò gli occhi e mi fissò come se avessi detto chissà quale blasfemia. «Sei impazzito? Sono quattro piani a scendere!»
Decisi di starmene zitto, tanto era inutile parlare di movimento con lei. Eravamo spalla a spalla, uno vicino all’altra. Potevo sentire il suo profumo da qui, il profumo della sua pelle e mi piaceva. Mi stavo totalmente rincoglionendo, ormai era un dato di fatto.
«Non ti sembra diverso?» Continuò a chiedermi, mentre l’ascensore raggiungeva il quarto piano.
«Chi?» Domandai confuso.
Celeste sbuffò e mi fece cenno di entrare per primo. Dannata macchina infernale. «Intendevo Romeo. È come se fosse su un altro pianeta, poi esce sempre ed è strano.»
Mi gettai quasi di peso all’interno dell’abitacolo, poi Celeste chiuse le porte e pigiò il tasto ‘T’. L’ascensore cominciò a rumoreggiare, poi scese col suo solito cigolio.
«Non l’hai notato anche tu?» Mi domandò, specchiando quegli occhi chiari nei miei.
Romeo non era certo il mio primo pensiero in quel momento, soprattutto quando ero sospeso a diecimila metri da terra, comunque Celeste riuscì a distrarmi.
«Quell’odore è strano, mi ricorda qualcosa.» Le confessai, cercando di rimembrare.
Quando incontrai nuovamente i suoi occhi, lei mi sorrise e il mio cuore smise di battere per un secondo. Mi tese la mano e aprì le porte dell’ascensore, ormai fermo.
«Andiamo.» Disse ed io intrecciai le dita con le sue, uscendo in strada e venendo investito dal freddo pungente di quel pomeriggio inoltrato.
Ci guardammo intorno alla ricerca del rottame di Robbeo e il color ruggine del pandino non sfuggì ai miei occhi attenti nemmeno se fosse stato coperto da un treno merci. C’era ancora lo spago che reggeva il parafango anteriore e lo scotch che teneva in piedi quello posteriore.
In poche parole: un catorcio.
«Eccola!» Trillò Celeste, indicando la Panda rosso mattone.
«Evvai…» Bofonchiai sarcastico, sperando che nessuno vedesse il grande Leonardo Sogno a bordo di quella scatoletta di acciughe.
Aprii la portiera e ne uscì un suono stridente, simile a quello che si ode nei film dell’orrore più scadenti, poi mi sedetti al posto del conducente. Una nuvola di polvere si alzò dal sedile ricoperto di stoffa e non potei fare a meno di tossire.
«Che hai?» Mi chiese Cel, abituata a tutta quella sporcizia che ricopriva la macchina.
«Nulla.» Soffiai, per la seconda volta.
Infilai la chiave nel cruscotto e tentai di accendere quel trabiccolo. Ovviamente il primo tentativo andò a vuoto, così come il secondo e come il terzo.
«Guarda, Robbeo gli da un piccolo colpetto mentre gira.» Affermò Celeste con sicurezza, cominciando a riempire di ceffoni il parabrezza della Panda.
Per chiunque passasse da fuori, sembravamo due deficienti alle prese con una lotta greco-romana con la macchina che non voleva saperne di accendersi. Al quattordicesimo tentativo e dopo tre Vaffanculo strillati al vento, il pandino decise di accendersi e ci guardammo soddisfatti.
«Si parte.» Sospirai esausto.
«Finalmente.» Ridacchiò Celeste.
Misi in moto e la macchina cominciò a lagnarsi. Mi chiesi cosa ci fosse di non cigolante in quell’ammasso di ferraglia, ma decisi di non pormi più domande così ovvie. Nonostante avessimo imboccato la Roma-Fiumicino e la quinta marcia ormai era ingranata, il contachilometri non andava a più di 70 e le macchine dietro di noi ci avevano suonato almeno una decina di volte.
«E passate!» Si scaldò Celeste, abbassando il finestrino e urlandolo fuori a chiunque usasse il clacson in maniera inappropriata.
«Era meglio la vespa.» Commentai infastidito.
«Perché andava a più di 70 chilometri orari?» Mi fece notare lei.
La guardai sorpreso, poi mi feci una sana e liberatoria risata. «Che razza di primo appuntamento!» Sghignazzai, mettendo la freccia per imboccare l’uscita per il cinema The Space, vicino Parco De’ Medici. Anche Celeste dopo un primo momento si unì alla risata e insieme al macinino cominciammo a trovare parcheggio. Un tappeto infinito di macchine si stagliava di fronte a noi e pensai che il pomeriggio non poteva andare peggio di così.
«Eccone uno lì!» Gridò Celeste tutta eccitata.
«È troppo lontano, me lo inculeranno!» Me ne uscii, senza pensare.
Celeste mi incenerì con lo sguardo ed io le sorrisi, sperando non mi uccidesse. «Niente più parolacce, intesi?» Poi scese dalla macchina e corse in direzione del posteggio.
Si piazzò proprio nel mezzo del buco lasciato tra due macchine e chiunque arrivasse cominciò immediatamente a linciarla, lanciandole apprezzamenti molto poco carini. Celeste rispondeva loro a modo e sotto il mio sguardo incredulo teneva testa a tutti quanti.
Riuscimmo a parcheggiare poco dopo, con soddisfazione da parte della mia ragazza e invidia da tutti coloro che non era riusciti a trovare un posteggio succulento come quello. Prima di uscire, mi curai di indossare un berretto di lana ben calcato sulla testa e una sciarpa avvolta tutta attorno al collo. Inforcai anche i Ray-Ban e sperai che nessun ragazzino deficiente rovinasse il mio primo appuntamento ufficiale con Celeste.
La raggiunsi mentre il suo sguardo color dell’oceano mi trafisse, e la Celeste modalità investigatrice-sospettosa entrò in azione.
«Perché ti sei conciato così? Sembri un mio ex quando si preparava per andare allo stadio, faceva parte di quegli… come si chiamano… Ultreri? Ultrarioni? Eltras?»
«Ultras,» risposi, quasi senza pensare. «Comunque ho freddo e mi fa un po’ male la gola, quindi mi premunisco.» Aggiunsi, soddisfatto di quella mezza cazzata.
Continuò a guardarmi poco convinta, mentre ci incamminammo lungo la salita che ci avrebbe condotti al cinema. Mi fissava di sottecchi, mentre io mi guardavo intorno nella speranza di non attirare troppo l’attenzione, poi sentii la sua mano che sfiorava accidentalmente la mia. Fu un contatto che mi diede i brividi, un calore che non avevo mai provato prima e che volevo a tutti i costi. Allungai le dita e le intrecciai con le sue, di nuovo.
Fu meraviglioso.
Celeste sorrise a quel mio gesto spontaneo, poi si aggrappò letteralmente al mio braccio, schiacciandosi a me con tutto il suo corpo caldo e profumato. Sapeva di stella alpina, il suo odore era identico.
«Comunque non me la racconti giusta.» Insistette lei, fissandomi con quei suoi occhi azzurri al di là della mia spalla.
«Cioè?» Feci il finto tonto.
Si prese qualche momento per osservarmi ed io cominciai a sudare freddo. «Sembra quasi tu voglia camuffarti…» Buttò lì, mentre cominciava a fare un caldo boia sotto quella dannata sciarpa.
«M-Ma che dici?!» Esclamai subito, mettendo le mani avanti.
Celeste era troppo perspicace per i miei gusti ed io camminavo sempre sull’orlo di un precipizio, in attesa che la sua arguzia mi avrebbe dato la spinta definitiva per cadere nell’oblio.
Sembrò poco convinta della mia risposta fintamente sorpresa, ma ci passò sopra non appena i suoi occhi incontrarono la libreria del cinema The Space. Afferrò la manica della mia tuta e mi trascinò letteralmente all’interno, senza nemmeno il tempo di dire ‘A’.
«Corri!» Trillò, entrando e fiondandosi sul primo scaffale disponibile.
Premesso che in tutta la mia vita ero entrato sì e no due volte contante dentro una libreria – o biblioteca –, non lo ricordavo nemmeno, perciò mi trovai come un pesce fuor d’acqua lì dentro. Le luci erano intense e all'interno si crepava di caldo, ma io non potevo togliermi tutto quell’accrocco, altrimenti chiunque mi avrebbe riconosciuto.
«Non dovremmo prendere i biglietti?» Le chiesi con ovvietà, sperando le passasse la mania da shopping maniacale.
Celeste non mi diede per nulla ascolto, anzi, continuò imperterrita a scorrere con il dito indice – quello che usava per pungolarmi – lungo le copertine colorate dei vari volumi. Era su di giri, eccitatissima, e non l’avevo mai vista più felice di così. Avevo capito che era una secchiona, una di quelle casa e università, ma non fino a questo punto.
«Questo l’ho letto, quest’altro anche, quello la giù non mi è piaciuto per niente, invece questo è molto carino. Dovresti leggerlo, sai?» Mi disse ed io storsi il naso.
Leonardo Sogno che leggeva? Magari davanti ad un camino sprofondato in una poltrona d’altri tempi? Era un’utopia.
«Non sono un topo da biblioteca» Tagliai corto, sperando di riuscire ad uscire il più presto possibile da lì.
Celeste borbottò qualcosa d’incomprensibile, poi passò ad un altro scaffale. Il ricordo improvviso di quel francese di merda mi colpì non appena la mia ragazza fece scendere due volumi tra le sue braccia, intenzionata ad acquistarli. Quella volta con J. lei mi aveva chiuso la porta in faccia e lo aveva lasciato salire perché gli doveva prestare un libro.
Dannato mangia-lumache
.
«Ti aiuto.» Le dissi, afferrando un volume che lei aveva adocchiato ma a cui non arrivava.
«Grazie!» Rispose, mentre le guance le si imporporarono lievemente.
Era maledettamente carina quando non mi sbraitava addosso.
«Finito?» Le domandai, con la vana speranza di poter vedere un film –e magari pomiciare al buio –, ma Celeste scosse la testa.
«L’ultimo scaffale, lo giuro!» Ridacchiò, facendo parola di boyscout.
Sbuffai ma la seguii subito dopo, anche perché non riuscivo più a stare lontano dal suo buonumore. Era contagiosa e insieme a lei riuscivo perfino a dimenticarmi che Domenica prossima sarebbe scaduta la squalifica.
«Guarda qui,» commentò sarcastica, indicando le biografie dei più grandi campioni di calcio. «Sanno anche scrivere ‘sti rinoceronti
Sgranai gli occhi non appena vidi poco più in là, proprio sotto il faccione di Wesley Sneijder, il mio volto sorridente che diceva “leggimi”. Quando avevo scritto una biografia? Per quale motivo l’avevo scritta, poi?
In quel preciso istante avrei volentieri ucciso Ruben e quella sua mania di riempirmi l’agenda di appuntamenti fino all’orlo, poi tentai di portar via Celeste, prima che tutto il teatrino che avevo messo in piedi crollasse per colpa di uno stupido libro.
«Dai, che il film inizia.» La spronai.
«Ma se nemmeno sappiamo cosa dobbiamo vedere?» Osservò arguta.
Era in questi momenti che desideravo che Celeste somigliasse più ad una modella decerebrata piuttosto che ad una laureanda in Lettere.
«Se mai andiamo a vedere gli orari, mai sapremo quando inizia.» Risposi di getto e mi complimentai con me stesso per la scelta della frase ad effetto.
Celeste assottigliò le palpebre, fissandomi con quelle pagliuzze color zaffiro attraverso le ciglia chiare. Dopo poco fece spallucce e si avviò alla cassa per comprare i libri.
Ero. Salvo.
«Questi due?» Disse il commesso, un ragazzetto di quasi diciotto anni o giù di lì.
«Sì, grazie.» Mormorò Cel, tirando fuori il suo portafoglio.
In quel momento fui talmente veloce che lei nemmeno se ne accorse, poi porsi una banconota da 50 euro al ragazzo che mi fissò stralunato.
«Ma no, dai,» insistette Celeste. «I libri sono miei, non voglio che li paghi tu!»
La osservai da dietro i Ray-Ban e le sorrisi – per quanto la sciarpa potesse mostrare quel gesto. «Sei la mia ragazza, quindi pago io.»Risposi autoritario e la vidi arrossire ancora.
Il commesso afferrò la banconota rimanendo con lo sguardo fisso sul sottoscritto e scrutandolo attentamente. Il cuore pompava incontrollato sotto la tuta della Magica e sapevo che prima o poi quel marmocchio mi avrebbe riconosciuto.
«Ecco a lei,» disse, porgendo la busta a Cel «Ma tu non sei…?»
La afferrai sottobraccio e mi trascinai letteralmente fuori dal negozio prima che potesse urlare ai quattro venti che Leonardo Sogno era al cinema The Space. Inspirando l’aria fresca del crepuscolo cominciai ad ossigenare il cervello, mentre non mi accorsi dell’ennesimo sguardo di sospetto della mia ragazza.
«Devi spiegarmi qualcosa?» Domandò, incrociando le braccia al petto.
«No,» risposi semplicemente. «Ero solo ansioso di vedere quali film ci fossero in programmazione.»
Non potevo prenderla ancora in giro, era troppo sveglia. Mi ero illuso di poter gabbare Celeste Fiore, ma non avevo fatto i conti né con la sua perspicacia, né con quella tappa della sua amica che sembrava il detective Conan.
«Va bene,» sbuffò infine. «Andiamo a scegliere ‘sto film.»
Tirai un lungo sospiro di sollievo e ci avvicinammo al cinema, constatando quanto la fila fosse chilometrica. Di questo passo ci sarebbero rimasti soltanto i posti davanti, quelli che facevano venire il torcicollo dopo due ore intere passate a fissare verso l’alto.
«Che ne dici di quello?» Mi chiese, indicandomi un tabellone pubblicitario dove c’era un’attrice piuttosto bona e quell’idiota di Justin Timberlake.
«Amici di letto?» Lessi ad alta voce, un po’ perplesso.
Nel frattempo ci mettemmo in fila ed io mi beccai altre occhiate sospette da parte di tutti i ragazzi che invece di uscire o sbronzarsi, erano venuti a rompermi l’anima in quel dannato cinema.
Appunto per il futuro: affittare un film e slinguazzare la tua ragazza sul divano.
«Non ti piace? È così romantico!» Sospirò lei, fissando lo sguardo nel vuoto.
«Che stai a guardà?» Le chiesi, seguendo la sua attenzione.
«Niente!» Sbottò infastidita.
«E perché fissavi dellà
Celeste sospirò di nuovo. «Era uno sguardo sognante, come a dire “vorrei vivere anch’io una storia d’amore così bella”, capito?»
Feci cenno di sì con la testa, poi la fila avanzò e ci trovammo quasi di fronte al botteghino dei biglietti. Avrei preferito di gran lunga un film come Blood Story, terrificante fino al midollo, in modo che Celeste mi si artigliasse al petto ed io avrei goduto come un riccio. Era scientificamente provato che la paura aumentasse l’eccitazione sessuale ed io non potevo chiedere di meglio che una bella scopata clandestina nei bagni del cinema. Purtroppo salutai quella bella prospettiva quando sentii la voce di Celeste.
«Due per ‘Amici di letto’» Sorrise, mentre la commessa fissava lo sguardo sul monitor di un computer.
«Centrali davanti o laterali il tredicesima fila?» Shiese.
«Laterali.» Risposi, evitando almeno di beccarmi il torcicollo.
Stampò i biglietti e ce li porse, poi ci dirigemmo verso il banco dei popcorn e delle schifezze varie. C’erano gli hamburger, i nachos, gli hot-dog e quelle sfiziosissime praline di cioccolata con dentro le noccioline che adoravo tanto.
«Vuoi qualcosa?» Chiesi a Celeste, mentre intrecciavo di nuovo le mie mani con le sue.
Lei fissò il tabellone con i cibi e le bevande, poi storse il naso. «Se mangiassi quelle cose, diventerei una balena,» commentò. «Poi usciresti con Moby Dick.»
Le passai un braccio attorno alle spalle e l’avvicinai al mio petto, facendole posare la testa e posandole un bacio sui capelli. «Mi piacciono le donne con le curve.» Commentai, avvicinandomi al bancone degli snack.
«Posso servirvi?» Disse il commesso brufoloso.
«Cosa vuoi? Una CocaCola? Aranciata?» Chiesi alla mia ragazza che fissava il menù con gli occhi spalancati.
Era indecisa e allo stesso tempo tenerissima.
«Intanto fai tu.» Mi disse, dando un’ultima occhiata alle pietanze.
Mi rivolsi al commesso e inspirai. «Allora, vorrei un hot-dog con la senape, una porzione di nachos, un panino con bacon e formaggio fuso, una CocaCola grande e quel pacchetto di m&m’s.»
Celeste per poco non si strozzò con la sua stessa saliva, fissandomi con gli occhi praticamente fuori dalle orbite, poi tentennò. «Una bottiglietta d’acqua.»
«Nient’altro?» Le chiesi dubbioso.
«No.» sbuffò contrariata.
«Bene, sono 28 euro e 33 centesimi.» Rispose l’adolescente brufoloso, porgendoci i piatti e infilando le cannucce nei bicchieri.
Alzai lo sguardo sullo schermo dove diceva quanto mancasse all’inizio del film e vidi l’omino verde che correva vicino all’orario del nostro spettacolo. Si poteva entrare finalmente.
«Ma dove te la metti tutta questa roba?» Mi chiese Celeste mentre porgevamo i biglietti al tizio che li strappava e ci dirigevamo verso la sala 18, in fondo al corridoio.
Feci spallucce e le sorrisi. «Metabolismo invidiabile.»
Celeste ridusse gli occhi a mezz’asta, evidentemente invidiosa della mia linea, ma non replicò perché arrivammo alla sala. Entrammo e cercammo subito i posti nella penombra della stanza, e quando li trovammo – con mio immenso rammarico – scoprimmo che erano a tre a tre, e il terzo posto disponibile era occupato da…
«Nonna!» Sbottai, con gli occhi fuori dalle orbite.
«Chicco, tesorina, che bello vedervi qui!» Trillò tutta eccitata.
Di tutte le persone che abitavano a Roma, di tutti quelli che erano andati al cinema quel pomeriggio e di tutti i cinema esistenti nella capitale, proprio mia nonna dovevo incontrare lì dentro?!
«Signora Annunziata!» Sorrise Celeste, sedendole accanto e salutandola con calore. «È un piacere vederla!»
Quelle due sembravano amiche da una vita e se non avessi avuto le mani piene di roba da mangiare, avrei chiaramente intimato a mia nonna di sloggiare. Tutti i piani sulla pomiciata con conseguente scopata clandestina erano andati a farsi friggere quando la nuvola di capelli bianchi e vaporosi di mia nonna erano apparsi all’orizzonte.
«Chicco, ma quanta roba hai preso?» Mi rimproverò Annunziata, nemmeno avessi ancora cinque anni.
«Ho fame no’» Borbottai, cominciando a trangugiare il panino.
Celeste e mia nonna mi fissarono disgustate. «È un pozzo senza fondo,» commentò la mia ragazza. «Non so davvero dove possa mettersi tutta quella roba.»
«Ragazza mia, gli uomini sono fortunati, ma tu dagli tempo,» sghignazzò. «Suo nonno era uguale da giovane, tutto bello e muscoloso, ma una volta sposato… zacchete!» E fece uno strano segno con la mano. «Gli è venuta una panza tanta.»
Celeste cominciò a ridere a crepapelle, seguita da quella stramba di mia nonna, mentre io me ne stavo buono e zitto sprofondato nella poltrona del cinema. Che barba. Stavo schiattando di caldo con quel bardamento e fino a quando le luci non si fossero spente, potevo dire addio a qualche momento di intimità con Cel.
Quasi come se si fossero esaudite le mie preghiere, la sala piombò nell’oscurità e la proiezione delle pubblicità cominciò. Posai le diverse cose da mangiare e mi liberai da quella sciarpa, dagli occhiali e dal berretto, cominciando finalmente a respirare.
Mi stiracchiai le braccia – fingendo uno sbadiglio – e tentai di passare un braccio attorno alle spalle di Celeste, attirandola a me nel più vecchio dei modi per rimorchiare.
«Ehi, tu, giovanotto!» La voce di un’altra vecchia mi fece sobbalzare sul sedile.
Io, Celeste e mia nonna ci voltammo all’unisono, fissando una signora di circa settanta e passa anni che sprizzava saette dagli occhi mentre vicino aveva la nipote, una ragazzina fastidiosa come la nonna, che ridacchiava.
«C’è una minorenne, eh? Cosa avevi in mente di fare?» Tuonò. «Questi giovani d’oggi, sempre a pensare al sesso, qui ci sono anime innocenti.»
Perché? PERCHÉ? PERCHÉ capitavano tutte a me?
Rinfoderai il braccio allontanandolo dalla mia ragazza e affogai il mio dispiacere nel pacchetto di m&m’s. Eravamo usciti insieme per avere un po’ d’intimità, per goderci il nostro primo appuntamento, invece eravamo finiti a condividere il posto con mia nonna e un’altra vecchia rompicoglioni e impicciona.
«Vuoi?» Chiesi a Celeste, porgendole il pacchetto.
Lei mi fissò divertita, poi fece per prendere un confetto ma io la fermai. «Aspetta.»
Ne afferrai uno e me lo misi tra le labbra, chiudendo il resto della bustina e sporgendomi verso di lei. Cel sorrise e s’imbarazzò, poi diede uno sguardo fugace alla nonna che fissava intensamente lo schermo.
Via libera.
Si avvicinò mettendo le labbra a cuore e chiudendo gli occhi, mentre io pregustavo il sapore delle sue labbra e quel profumo di stella alpina che m’invadeva le narici. Ogni cellula del mio corpo ormai aveva tatuato il nome di Celeste Fiore sopra, ed io non potevo fare altrimenti che desiderarla con tutto me stesso.
«Ehi, voi!» Gridò l’altra vecchia, dando un calcione alla poltrona di Celeste e facendomi ingoiare dalla sorpresa l’m&m’s.
Cominciai a tossire e a strozzarmi, mentre la mia ragazza e mia nonna mi davano dei colpetti dietro la schiena per farmi sputare il confetto. Li mortacci di quella stronza! Per poco non mi aveva ucciso.
Con le lacrime agli occhi, cominciai a mettere in lista una serie di insulti che avrei voluto rivolgere a quella mummia del cazzo, quando il film incominciò e fui costretto a starmene zitto. Celeste cercò la mia mano e vi intrecciò le dita, infondendomi calma, e mi rammaricai che fino a quel momento, l’unico contatto che avevamo avuto era stato quell’innocente tocco.
Neanche vivessimo nell’800.
I titoli di testa cominciarono a scorrere davanti allo schermo, mentre una voce fuoricampo spiegava le vicende dei protagonisti e le disavventure che li avevano portati a diventare amici di letto. Cercai di scacciare dalla mente la profonda convinzione che quel film fosse una gigantesca cazzata, quando avvertii dei calcioni al mio sedile.
Dapprima pensai fosse accidentale, non fatto assolutamente di proposito, ma al quinto colpo ricevuto quasi nel fondoschiena mi agitai leggermente.
«Che hai?» Mi domandò Celeste, fissandomi preoccupata.
Sbirciai tra le due poltrone e scoprii che l’artefice di quella tortura non era altro che la nipote di quella vecchiaccia rompicoglioni. Continuava imperterrita ad ammollarmi una scarica infinita di calci, senza che la nonnetta le dicesse nulla.
«La figlia di Satana è all’opera.» Bofonchiai, progettando una serie di insulti da urlarle contro.
Cel mi strinse la mano e si voltò anche lei, ricevendo comunque la vibrazione dei calci. «È solo una ragazzina.» Commentò, tentando di fare la persona matura.
Ingoiai tutta la rabbia accumulata fino ad ora e cominciai a trangugiare qualcos’altro con nervosismo, pur di non pensare al genocidio. Il film andò avanti e la trama s’infittì, suscitando qualche risata tra il pubblico femminile che invece, al sottoscritto, non smosse un benché minimo nulla.
Dopo aver ripulito tutto, ma proprio tutto, quello che mi ero comprato, fui costretto ad ingannare il tempo in qualche modo.
Io un modo per far passare i minuti ce lo avrei in mente.
So bene qual è, ma c’è sia mia nonna sia la vecchiaccia dietro di noi. Non posso mica ficcarle la lingua in bocca senza preavviso!
Beh, basta avvicinarsi un po’. Il cinema è immerso nell’oscurità e Annunziata è presa da Justin.
Il mio Ego aveva espresso in maniera molto esplicita quale fosse il mio più recondito desiderio. Era vero che la sera prima il bacio c’era stato, ma ormai io e Celeste uscivamo insieme ed era mio diritto di fidanzato pretendere quel genere di smancerie. Cosa ce l’avevo a fare la ragazza se non potevo pomiciarci quando mi pareva?
Sprofondai nella poltroncina del cinema, pendendo leggermente verso il corpo di Cel che era assorta nella contemplazione del film. Sciolsi l’intreccio delle nostre mani e tentai di far risalire un braccio attorno alle sue spalle. Sperai che la vecchia dietro di noi non mi colpisse con un’ombrellata, ma per fortuna fui veloce come una faina e riuscii ad avvicinare Celeste al mio petto.
Lei sussultò a quella repentinità del nostro contatto, ma io le sorrisi attraverso l’oscurità. Lentamente mi avvicinai, strusciando il naso sulla sua guancia imporporata dall’imbarazzo, poi Celeste tentò di fermarmi con un debole «Non è il caso.»
Aveva posato una mano sul mio petto, nel tentativo di respingermi, ma io gliel’avevo afferrata e l’avevo stretta tra le mie. La distanza tra le nostre labbra era minima, sarebbero bastati pochi centimetri per sfiorarle.
«Ehi!» Tuonò la voce stridula della signora dietro di noi. «Che vi avevo detto?!» E cominciò a picchiare sulle teste delle poltrone col suo ombrello rosso.
«Ma lasciali in pace, vecchia megera!» Intervenne mia nonna, più agguerrita che mai.
Celeste ed io fummo costretti a separarci, imbarazzati all’ennesima potenza, mentre la ragazzina frignona continuava a darci i calci dietro al sedile e la gente inneggiava ad un ‘silenzio’ nei rispetti della programmazione del film.
«Si dovrebbero vergognare, di fronte ad una bambina!» Continuò quella pazza inferocita.
«Ma lei si dovrebbe vergognare!» Tuonò Annunziata. «Quella marmocchia sta tirando calci alle nostre poltrone da quando è iniziato il film. Questa è maleducazione!
«Devi andare in bagno?» Mi chiese Celeste, travolta da quel frastuono.
«No, perché?» Chiesi, ingenuo.
«Sicuro di non dover andare in bagno?» Continuò, marcando la parola “bagno”.
In quel momento non afferrai l’allusione sottilmente velata, ma quando mi specchiai in quelle iridi blu scuro, rese ancora più tenebrose dall’oscurità del cinema, compresi fin dove volesse arrivare.
«Ao’, me la sto a fa’ sotto!» Sghignazzai, aspettando che si alzasse e poi seguendola fuori dalla sala di proiezione.
Una volta fuori da quella gabbia di matti, ci appoggiammo contro il muro tappezzato di poster e cercammo l’uno lo sguardo dell’altra. In poco tempo scoppiammo a ridere come due scemi.
«Cioè, tua nonna è una forza!» Ridacchiò.
«Ma quella vecchia non si reggeva, dai…» La seguii a ruota.
«E perché? La ragazzina? Le avrei volentieri mollato un ceffone!»
Nel frattempo cominciammo ad incamminarci verso i bagni, visto che effettivamente un po’ di pisciarella – dopo tutto quello che avevo mangiato e bevuto – mi era venuta e ci fermammo proprio di fronte alle porte che dividevano le nostre strade.
In un attimo ci guardammo e le nostre risate si spensero, quasi avessero pigiato il tasto muto sul telecomando della televisione. Quello era il nostro primo appuntamento, la prima volta che uscivo seriamente con una ragazza senza avere l’unico intento di portarla a letto. Mi sentivo strano, non sapevo cosa fare.
«Scusami.» Dissi solamente, portando una mano dietro la nuca.
Celeste sgranò gli occhi e mi fissò sorpresa. «Di cosa?»
«Di questo appuntamento caccoso,» smozzicai, riferito all’intervento di mia nonna e a quella vecchia ciabatta che stava ancora in sala. «Il fatto è che non sono pratico di queste cose, non ho mai… beh… mai avuto una ragazza fissa. Non so come si fa.»
Lei mi sorrise, inaspettatamente, poi si alzò sulle punte degli stivali e mi baciò. Fui sorpreso da quel suo gesto, in genere mi picchiava o mi insultava. Invece fu una cosa semplice. Mi afferrò il viso con entrambe le mani e posò le sue labbra sulle mie, finendo poi per incrociare le braccia dietro la mia nuca alla ricerca di un contatto più profondo. In quel preciso istante mi risvegliai, allacciando le mani attorno alla sua vita e spingendola delicatamente contro il muro, incuneandola in una nicchia che ci avrebbe nascosto agli occhi indiscreti dei passanti.
Il contatto con il marmo fece rabbrividire Cel tra le mie braccia, ma io tentai di sovrastarla col mio corpo e di scaldarla con il mio respiro. Intrufolai la lingua nel suo palato, subito alla ricerca della sua, mentre le mie mani viaggiavano avide lungo la sua schiena flessuosa. Quel profumo di stella alpina mi inebriava le narici, mi ottenebrava i sensi, ed io non sapevo più dove prendere altro ossigeno. Non mi era mai successo con nessun’altra tutto quello, era la prima volta. Nonostante avessi la lingua nella sua bocca e le mani quasi sotto la sua gonna, il sesso era quasi l’ultimo dei miei pensieri.
Sarei rimasto così, a baciarla, per ore intere, senza fare nient’altro.
Risalii lungo il suo stomaco, spostando di poco la sua maglietta, e insinuai una mano al di sotto della stoffa, raggiungendo la coppa del reggiseno. Non attesi oltre e strinsi con forza, facendole inarcare la schiena e staccare le labbra dalle mie.
Uscì soltanto un mugolio dalla sua bocca, mentre gli occhi azzurri, grandi come due piattini, mi fissavano stralunati e pieni di desiderio. Le posai un bacio sulla punta del naso, poi andai a lambirle la porzione di pelle sensibile dietro l’orecchio.
«Oh… Ruben…» Sospirò, in preda all’estasi.
Sentirle pronunciare il nome di un altro in quelle circostanze, mi fece ribollire il sangue nelle vene, ma cosa potevo fare? Ero stato io stesso a dirle una menzogna, a presentarmi per il ragazzo che non ero. Per la prima volta in tutta la mia vita avevo mentito sulla mia identità e non avevo giocato la carta della fama.
Non potevo, non con lei.
Tutto ciò che c’era stato fino ad ora, bugie a parte, era stato qualcosa di totalmente autentico per me, qualcosa che non avevo mai provato. Con le altre simulavo, fingevo di essere felice, di essere appagato, ma non mi ero mai sentito così completo come ora.
«Cel,» soffiai, ma poco dopo mi ricordai che non voleva essere chiamata in quel modo, non da me perlomeno. «Cioè… volevo dire Celeste.» Sorrisi.
Lei mi passò una mano tra i capelli e cominciò a delineare i contorni del mio viso con i polpastrelli delle dita. Era come se stesse contemplando un’opera d’arte, come se fossi il David di Michelangelo.
«Cel va bene,» mormorò imbarazzata, posando ancora una volta le sue labbra sulle mie e specchiando le sue iridi. «Sei bellissimo.» Mi confessò e mai quell’apprezzamento era valso di più per me.
Non c’era l’Ego a parlare, non avevo l’orgoglio gonfio e nemmeno m’importava di gongolarmi. Sentivo soltanto un dolore al petto, un fastidio che s’intensificava ma che, allo stesso tempo, era piacevole.
«Cel, io…» Tentai di dirle. Quegli occhi sarebbero stati la mia maledizione e non riuscivo più a sopportare questo peso delle enormi bugie che mi portavo dentro. Anche se mi sarei scavato la fossa da solo, dovevo dirglielo.
«Devo dirti una cosa.» Mormorai.
Celeste mi guardò sorpresa, poi intrecciò le dita con le mie. «Dimmi.»
Era arrivato il momento della verità, il momento in cui avrei affrontato tutto pur di districarmi da quella fitta rete di bugie. Okay, ero stato bravo, alla fine né Celeste né tutti gli altri avevano mai scoperto i miei altarini, ma la posta in gioco ora era troppo alta ed ero ancora in tempo per salvare quello che ci sarebbe stato tra di noi.
«Riguardo al mio lavoro…» E dopo queste parole le orecchie di Celeste si drizzarono come quelle di un cane lupo.
Era davvero così difficile per me dirle la verità? Non avevo mai avuto problemi a parlare della mia professione, anzi, era un marchio di garanzia. Leonardo Sogno non era solo un nome, era il nome. Abituato a ricevere valanghe di complimenti, richieste di autografi, fotografie e numeri di telefono da qualunque ragazza mi incontrasse, con la piccola biondina di fronte a me era successo tutto il contrario. Ci eravamo odiati all’inizio, era nato tutto come una sfida, un giochetto da ragazzini, ma a mano a mano che il tempo era passato, nonostante non avessi mai voluto ammetterlo a me stesso, il nostro legame si era intensificato e adesso era come se potessi vedere un lungo filo d’argento legato doppio attorno ai nostri cuori.
«Ruben, cosa vuoi dirmi?» S’insospettì lei ed io mi bloccai.
Era come se le parole si fossero calcificate attorno al mio palato, aggrappandosi alla lingua senza riuscire a venir fuori. Sull’altro piatto della bilancia – che ormai si equivaleva a quello stracolmo di menzogne – c’erano troppe cose che avrei perso raccontandole la verità. Ma quanto ancora sarei potuto andare avanti? Avrei tanto voluto condividere le gioie del mio lavoro con Celeste, la mia ragazza. La nomina per il pallone d’oro 2011 era ufficiale e sarei dovuto andare alla cerimonia di premiazione.
Per la prima volta in tutta la mia vita, odiai me stesso e la mia stupidità. Qual era stato il motivo di crearmi una vita fittizia, quando quella vera era centomila volte meglio? Sì, magari all’inizio le avevo mentito per convincerla ad uscire con me, quale ragazzo non l’avrebbe mai fatto? Ma se soltanto avessi lasciato fare allo scorrere degli eventi, magari a quest’ora le avrei potuto chiedere di accompagnarmi alla serata per il pallone d’oro.
«Ruben?» Chiese di nuovo, vedendomi indeciso.
Il giorno in cui dalle sue labbra sarebbe uscito il nome Leonardo, era ancora lontano ma io desiderai con tutto me stesso di poter avverare questo piccolo sogno egoistico. In fondo eravamo Leo e Cel, Leonardo e Celeste.
«Eccovi qui, ragazzi!» Trillò la voce di mia nonna, che ci sorprese alle spalle.
Non poteva esserci interruzione migliore in quel momento e ringraziai tutti i santi in Paradiso per avermi fornito una nonna così impicciona.
«Signora Annunziata.» Sorrise Celeste, lasciando le mie mani e raggiungendola.
Presi un bel respiro e le seguii, curandomi di indossare nuovamente berretto, sciarpa e occhiali da sole – nonostante fosse sceso il buio. Uscimmo fuori dal cinema e una folata di vento freddo ci investì, facendomi rabbrividire, fino a quando non ci ritrovammo al centro della piazzetta di fronte alla sala di programmazione.
«Dove andate adesso, ragazzi?» Ci domandò la nonna.
«Uhm… a casa?» Risposi tranquillo, non vedendo l’ora di avere qualche altro momento appartato con la mia donna.
Annunziata mi guardò con un sorrisetto malizioso, poi strinse entrambe le mani di Celeste e inchiodò gli occhi azzurri nei suoi. «Perché non venite a cena da me? Ho preparato tante cosette sfiziose e da sola non riuscirò mai a mangiarle tutte!» Propose.
Non sapevo il motivo, ma non appena finì di parlare il sangue mi si gelò nelle vene. Quando mia nonna faceva delle proposte, queste non erano mai prive di un secondo fine.
«No.»
«Sì.»
Rispondemmo all’unisono io e Celeste, poi guardandoci di sottecchi. Avrei voluto farle capire che quella che Annunziata ci stava proponendo non era affatto una cenetta nonna-nipote-ragazza, ma un vero e proprio interrogatorio.
«Suvvia, Chicco.» Mi pregò la nonna.
«È una cena, Ruben. Non ti ha mica chiesto la luna!» Sbottò Celeste, infastidita da quella mia scortesia.
Lei non sapeva mica con chi aveva a che fare. Annunziata io la conoscevo ormai da ventidue anni e sapevo bene quando dribblare un suo interrogatorio, abilmente camuffato da invito a cena.
«Magari serve la macchina a Romeo, non pensi? Gliel’abbiamo requisita da oggi pomeriggio…» Ipotizzai, sperando mi desse man forte.
Celeste ridusse gli occhi a fessure e sbuffò. «Robbeo non esce, te lo garantisco. E poi, anche se fosse, prenderà i mezzi pubblici per una volta…»
La mia ragazza era una negriera e in certe occasioni mi spaventava la sua risolutezza. Non c’era verso di convincerla. Celeste era testarda come un mulo.
«Su Chico, ho una bella sorpresina per te…» Sorrise la nonna, facendomi l’occhiolino.
Quella serata non prometteva nulla di buono. Il nostro primo appuntamento si era trasformato in una specie di cena familiare, anche se l’unico membro del clan Sogno era Annunziata. Tutto ciò che mi ero immaginato, dalla pomiciata al sesso sfrenato nel bagno del cinema, si era sgonfiato come un palloncino bucato ed era stato, infine, calpestato dalle scarpe da ginnastica di mia nonna.
La sorpresina, poi, mi fece venire i brividi.
«Allora, andata?» Chiese Annunziata, prendendo sotto braccio la mia ragazza.
Non c’era alcun bisogno che rispondessi. Celeste aveva già deciso per conto suo e in quel preciso istante notai quanto le due donne della mia vita fossero simili. Che in un futuro prossimo, anche Celeste si sarebbe imbucata al primo appuntamento dei nostri nipoti?
Era tutto da vedere.

Nonostante l'enorme differenza di età tra me e la signora Annunziata, sentivo che tra di noi c'era un bel feeling. Quella signora con una nuvola di capelli bianchi e lo sguardo vispo mi aveva letteralmente conquistata con i suoi modi di fare e il suo caratterino tutto pepe. Magari avessi avuto io una nonna del genere! Non che non sopportassi la mia, anzi, le volevo un gran bene, ma era una signora d'altri tempi, all'antica, che voleva maritarmi quando avevo solo diciotto anni dicendomi che ero già in età da marito e che se non mi fossi trovata un uomo prima dei ventuno anni sarei rimasta zitella per sempre. Fino a quel momento avevo davvero creduto che mia nonna mi avesse tirato addosso una maledizione, che fosse una specie di fattucchiera che mi aveva fatto la fattura perché avevo rifiutato in malo modo il fidanzato-futuro-marito che mi aveva presentato. Secondo lei era un ottimo partito, nipote di alcuni suoi amici del circolo della briscola e sarebbe stato perfetto per me. Ma, tralasciando il fatto che era più largo che alto, preferiva anche il Walter alla Iolanda e mia nonna era l'unica a non averlo capito. Era chiaro perfino alle capre che fosse gay! Portava i maglioni come vestitini ed era tanto se non si mettesse anche i tacchi.
Annunziata era tutto il contrario di mia nonna. Mentalmente aperta, consapevole del fatto che vivessimo nel 2011 e non nel dopoguerra. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa e ci sorridemmo all'unisono.
«Andata!» Esclamai.
«Io preferirei andare a casa,» intervenne Ruben, nervosamente «Sai, il mal di gola.» E arrochì la voce per convincermi che stesse davvero male.
Assottigliai lo sguardo e lo fulminai. Quando mi mettevo in testa qualcosa, cascasse il mondo, dovevo portarla a termine. E quella sera avremmo cenato da nonna Annunziata, a costo di tramortire il mio ragazzo e trascinarlo per tutta Roma. Mi sembrava ancora strano associare il nome Ruben a il mio ragazzo. Avevo sempre pensato che al mio fianco avrei avuto un uomo colto, magari in procinto di laurearsi o già laureato che si apprestava a prendere un master. Ed invece mi ritrovavo ad essere la ragazza di un troglodita che era un miracolo se sapesse dire il suo nome senza incepparsi. E non potevo essere più felice di così. Almeno con Ruben mi divertivo e non avrei passato tutti i miei giorni seduta su un divano a discutere di filosofia o politica con uno che magari era anche più secchione e saputello di me.
«Ho detto Andata,» scandii acida «Per cui io e te andremo a cena da tua nonna.»
Ruben sbuffò sonoramente, scostandosi gli occhiali da sole per potersi passare indice e pollice sugli occhi.
«Stasera c'è un film che non posso perdermi!» Se ne uscì poco dopo, sorridendo soddisfatto come se avesse trovato la scusa più geniale del mondo.
Incrociai le braccia al petto e alzai un sopracciglio, ingoiando tutto il nervoso che quelle scuse banali mi stavano creando. Il mio ragazzo si avvicinò a me e mi strinse un braccio, trascinandomi lontano da nonna Annunziata e rivolgendo un sorriso alla signora.
«Ci ha fatto piacere il tuo invito, nonna, ma dobbiamo andare.» Disse e non capivo il perché non volesse accettare l'invito di Annunziata.
«Ma dai Chicco! Non vuoi rendere felice la tua adorata nonnina?» Gli domandò puntando sul senso di colpa. Gran donna! Annunziata si stava per guadagnare un posto nella mia breve lista di miti personali. Se non contavo la dolce vecchietta, c'era solo Ven a riempire quell'elenco.
«Non cominciare con i mezzi subdoli.» Bofonchiò Ruben.
«Orsù, Chicco mio,» continuò la signora «Non farti pregare!»
«Dai, Ruben! Vedrai che ci divertiremo!» Mi unii anche io alle suppliche. «E poi non ho intenzione di mangiare quello che prepara Robbeo. Una volta mi ha servito i ravioli della Quattro salti in padella ancora congelati.»
Ruben sollevò il berretto e si grattò la testa, poi fece ricadere le braccia lungo i fianchi sospirando rumorosamente.
«Va bene, va bene! Veniamo.» Si arrese finalmente ed io, di slancio, mi aggrappai al suo collo abbassandolo verso di me per poterlo baciare, anche se non nel modo spinto in cui era successo nel bagno del cinema. La signora Annunziata sorrise soddisfatta, poi ci guardò con aria sognante mettendosi una mano sul cuore.
«Va be’, vado a casa a sistemare le ultime cose per la cena e a vedere se la sorpresina è arrivata.» Disse, e vidi il mio ragazzo deglutire a fatica come se fosse spaventato da qualcosa. Che cosa poteva esserci di così terrificante in casa di una vecchietta? Sì, Ruben era strano e me ne rendevo conto ogni giorno di più. Annunziata ci salutò rapidamente e montò sulla sua macchina d'epoca bianca, quasi coetanea di quella di Robbeo e il motore di quel rottame gracchiò prima di partire. Fece retromarcia per uscire dal parcheggio e una macchina, un Suv enorme, le sfrecciò accanto rischiando di travolgere il macinino.
«Che razza di cafone!» Esclamò Annunziata, tirando fuori la testa ed inveendo contro il guidatore che si stava allontanando. «Per poco non mi ammazzavi! Cosa credi che solo perché tu hai il macchinone sei il re della strada? Lo sai vero che chi compra auto così grosse è per compensare qualche altra mancanza?» Continuò imperterrita ed io scoppiai a ridere, mentre Ruben abbassò il viso scuotendo il capo.
Il rottame ripartì, emettendo una nuvola di fumo nero dalla scarico – forse anche tossico –   mentre la nonna continuava a borbottare tra sé e sé ed aspettai che uscisse dal parcheggio del cinema per acchiappare la manica della tuta di Ruben e trascinarlo verso il pandino scassato di Robbeo. Non era per nulla contento di andare a cena da sua nonna a differenza di me che ero quasi elettrizzata. Ogni tanto anche io potevo mangiare qualcosa di decente e non i soliti pasti precotti o ordinati da qualche fast food cinese che ingurgitavamo io e Robbeo. Nessuno dei due era in grado di cucinare qualcosa di decente e il più delle volte ciò che preparavamo diventava pasto per la spazzatura.
Salimmo sul macinino con i sedili più polverosi del cervello di un calciatore, che di solito era ancora bello incellofanato da quando il Signore l'aveva donato loro e da allora era rimasto nella scatola cranica a raccattare acari. Ero una maniaca delle pulizie e avevo tentato più di una volta di pulire quel marciume che si annidava in quel rottame ma Robbeo mi aveva sempre impedito di farlo, manco quella polvere facesse parte della carrozzeria. Per mio enorme dispiacere mi ero abituata a convivere con centinaia e migliaia di piccoli acari fastidiosi e facevo finta di non vedere i covoni di polvere che si annidavano in ogni angolo di quel macinino.
Ruben inserì la chiave nella fessura e la girò, facendo piagnucolare il motore che tossiva ma non aveva la minima intenzione di partire.
«E che palle!» Sbottò il mio ragazzo, grugnendo.
Ogni volta con quella macchina era una lotta in cui i nervi erano messi a dura prova. Sospirai e mi allungai verso il parabrezza. Gli avevo già spiegato come farla partire, ma a quanto pareva non mi aveva ascoltato per niente. Tipico degli uomini! Non appena stavo per prendere a scappellotti la macchina, Ruben mi sorrise e picchiò quella carretta al posto mio.
«Basta dare un piccolo colpo mentre si gira la chiave.» Disse guardandomi e mi dispiacque non poter vedere i suoi occhi in quel momento. Non capivo perché diavolo si fosse dovuto conciare come una spia in incognito. Era come se cercasse di nascondersi da qualcosa o qualcuno e non capivo perché del suo strambo atteggiamento. Anzi, strambi atteggiamenti visto che erano più di uno. Ma pazienza! Se c'era qualcosa che doveva dirmi, lo avrebbe fatto ne ero più che certa. Mi fidavo di lui ed io raramente mi fidavo delle persone.
«Pensavo che non mi avessi nemmeno calcolata, mentre te lo spiegavo.»
Ruben inserì la frizione e si tolse quel suo travestimento, lanciando cappello, sciarpa e occhiali da sole sul sedile posteriore.
«Ti ho ascoltata, non sono mica scemo,» ridacchiò divertito «Se non lo avessi fatto sarei andato incontro a morte certa.»
«Noto che hai capito con chi hai a che fare.» Replicai assottigliando lo sguardo e guardandolo in tralice. Se c'era una cosa che non sopportavo – anche se la lista era talmente lunga che nemmeno il rotolone Regina avrebbe potuto contenerla – era che le persone non mi ascoltassero, che mi ignorassero. Fortunatamente Ruben sembrava averlo capito. Lui sembrava aver capito un sacco di cose di me mentre io, ancora, sguazzavo in un mare di dubbi ed incertezze, come se in realtà non lo conoscessi affatto, come se avessi davanti tutt'altra persona. Si allungò verso di me e sfiorò le labbra con le sue, per poi allacciarsi la cintura e sfrecciare con il bolide di Robbeo fuori dal parcheggio.
«Che cosa volevi dirmi poco prima?» Domandai, ricordandomi quello che ci eravamo detti in bagno.
«Quando?» Chiese di rimando, rimbalzando con lo sguardo da me alla strada che scorreva lentamente davanti a noi. Se fossimo andati a piedi saremmo arrivati sicuramente prima che con quel macinino che si reggeva a stento su due ruote.
«Prima che tua nonna ci interrompesse,» gli rimembrai e puntai il mio sguardo su di lui. «Riguardava il tuo lavoro.»
Le mani del mio ragazzo tremarono sul volante e i suoi occhi si incollarono all'asfalto. In quel momento ogni congettura mi passò in testa. Poteva essere una banalità come poteva essere che lui mi aveva mentito e che in realtà non lavorasse al negozio di sua nonna. Ma perché farlo? Faceva un lavoro talmente ignobile da aver paura perfino di confidarlo alla sua ragazza? Che, se in caso mi avesse mentito, la sua professione sarebbe passata in secondo piano. Mal digerivo le bugie, le prese per il culo e soprattutto essere illusa.
«Oh sì,» esclamò senza particolare entusiasmo. «Beh...insomma...» Tentennò e quella sua insicurezza mi preoccupò.
«Sappi che se mi hai mentito puoi dimenticarti di Celeste Fiore.» Misi le mani avanti, per mettere in chiaro il mio pensiero.
Ruben stiracchiò le labbra in un sorriso forzato e prese un respiro profondo.
«Figurati se ti ho mentito,» disse seriamente ed io tirai un sospiro di sollievo. «No, è che... stavo pensando che... forse,» esitò qualche altro secondo e tutte quelle pause tra una parola e l'altra era un battito cardiaco perduto «È il caso che lasci il negozio di fiori.» 
«E perché?» Domandai subito cercando il suo sguardo che, però, continuava a sfuggirmi.
Ruben boccheggiò e cominciò a tamburellare nervosamente l'indice sul volante della Panda.
«Mi stai per caso nascondendo qualcosa?» Lo aggredì e il mio tono non era di certo dei più dolci. E la mia domanda, il mio dubbio non ebbe una risposta immediata ma solo un sospiro che nascondeva nella sua semplicità qualcosa, qualcosa che Ruben non aveva il coraggio di confidarmi.
«Mi sono rotto di lavorare in quel negozio! I fiori non mi piacciono e non mi sono mai piaciuti,» sbottò tutto d'un tratto. «Voglio trovare un lavoro che mi soddisfi, oh!»
Sbattei le palpebre più volte, stupita dall'esplosione improvvisa del mio ragazzo. Quel senso di incredulità si trasformò ben presto in un piccolo focolaio di felicità. Era la prima volta che Ruben mi parlava delle sue frustrazioni, che si confidasse con me e interpretai quel suo sfogo come un passo avanti per il nostro rapporto, per noi. Appoggiai la mano sulla sua, posizionata sul cambio della macchina e lui si girò a guardarmi.
«E come mai eri così timoroso nel dirmi questa cosa?» Domandai.
«Perché... perché,» cominciò titubante. «Perché credevo che mi avresti ostacolato, in un certo senso. Insomma ho un lavoro sicuro che mi permette di campare ed invece aspiro a fare tutt'altro. Credevo che magari mi avresti giudicato come uno che non si accontenta, che chiede troppo, che sputa sopra al lavoro che ha.»
«Oh, ma figurati!» Esclamai ridacchiando «È vero, sono peggio di un leone tenuto a dieta per mesi, certe volte...»
«Certe volte...» Ripeté scettico il mio ragazzo.
«Sempre!» Rettificai. «Ma non giudico mai le persone per le loro scelte.»
«A parte i calciatori.» Puntualizzò lui.
Sbuffai scocciata, sistemandomi la gonna di jeans e giocherellando con il foulard che avevo legato al collo.
«Ma perché sono esseri privi di materia grigia, capaci solo di sbraitare e correre come dei bufali. Non hanno un'utilità nella società, se non quella di assassinare ogni volta la lingua italiana,» sbottai infastidita. «E sono tutti uguali,» scandii inviperita «Sempre e solo a pensare alle Iolande di qualche sgallettata, oca, senza cervello.»
«Non tutti sono così,» disse, lanciandomi uno sguardo di sfuggita. «Totti, ad esempio è sposato e ha anche dei figli. Del Piero idem. E potrei farti tanti altri nomi per dimostrarti che i calciatori non sono i mostri che dipingi tu.»
Forse con quell'affermazione avrebbe potuto mettermi a tacere. Non proprio tutti erano dei Walter ambulanti imbottiti di ormoni e testosterone. Ma Ruben non mi avrebbe fatto cambiare idea. I calciatori per me erano e sarebbero sempre stati degli inutili cazzoni che sarebbero stati molto più utili in un campo di grano che in uno di calcio.
«E del tuo amico Sogno che mi dici?» Bofonchiai, guardandolo in tralice «In Università parlano sempre di lui e ogni giorno ne ha una diversa. Anche se mi risulta difficile da credere...»
In effetti, con tutte le ammiratrici che quel deficiente aveva mi immaginavo che fosse molto più attraente di quella talpa rachitica. Era più sensuale una patata lessa di quello scherzo della natura. Ma molto probabilmente erano tutte attratte dal fascino del calciatore, dal fascino del conto in banca che aveva quel bufalo. Ruben fermò la macchina tutto d'un tratto, arrestandosi ad un semaforo rosso e per poco non mi spiaccicai contro il parabrezza. Lo guardai in cagnesco, pronto a sbranarlo per avermi quasi ucciso, ma lo trovai assorto a guardare la strada davanti a sé.
«È vero. Leonardo cambiava ragazze più frequentemente delle mutande,» ammise con un sospiro «Ma ora è diverso. Faccio fatica a riconoscerlo perfino io. Diciamo che si sta rimettendo in gioco.» Si voltò verso di me e sorrise.
«Si è trovato la pischella?» Domandai, con un sopracciglio abbassato, credendolo quasi impossibile. Quello era un ossessionato di Iolande, figurarsi se rinunciava alle varie starlette che gliela presentavano per accontentarsi di una sola.
«Sì. Strano a dirsi, eh,» ridacchiò nervosamente. «Per cui credo che tu debba cominciare a ricrederti sui calciatori.»
«Mai!» Esclamai. «È una questione personale.» Tagliai corto e scivolai lungo il sedile, incrociando le braccia.
Ruben ridacchiò, ma ebbe la decenza di non chiedere ulteriori spiegazioni, così, in pochi secondi, il silenzio piombò su di noi. Avrei voluto accendere la radio e magari allontanare la mia mente da quel discorso, ma il macinino di Robbeo non era dotato nemmeno di autoradio. Era già tanto se avesse un motore funzionante, quella carretta.
Una macchina si affiancò a noi e il ragazzino che era seduto al posto del passeggero indicò la nostra auto con un dito tremante e lo sguardo illuminato quasi avesse visto la Madonna, come se avesse avuto qualche illuminazione divina. Il padre, che gli era accanto, si sporse in avanti e sbirciò anche lui nella Panda. Non sapevo se quei due ci stessero fissando perché andavamo in giro con un catorcio tenuto insieme con dello scotch oppure perché mi era spuntato, improvvisamente, un brufolo di proporzioni cosmiche sul naso. Mi sfiorai la punta con le dita, passando a rassegna tutto il viso alla ricerca di quel brufolo-vulcano che credevo di avere ma che in realtà non era spuntato. Il bamboccio tirò giù il finestrino e il padre cominciò a strombazzare con quell'odioso clacson che mi perforò i timpani e il cervello. Con la manopola – e uno sforzo disumano – abbassai il vetro e mi sporsi fuori, alterata.
«Ma che modi!» Esclamai indignata. «Cosa vuole? Ridere di questa carretta? Prenderci per i fondelli perché andiamo in giro con una scatoletta di tonno con le ruote?» Mi inalberai subito ed ignorai anche il mio ragazzo che tentava di fermare il mio monologo contro cafone senior e cafone junior.
«Ehi, tu, ragazzo!» Esclamò l'uomo occhialuto indicando Ruben, non calcolando per nulla le mie urla.
Il mio ragazzo si portò un indice sotto il mento spiazzato e il tizio annuì, insieme a suo figlio che era quasi in estasi. Molto probabilmente aveva le stesse tendenze del marito che voleva appiopparmi mia nonna, dato che sembrava così attratto da Ruben.
«Tu per caso non sei...» Tentò di dire l'uomo ma il mio ragazzo sbiancò tutto d'un tratto e mise di nuovo in moto la macchina, partendo senza attendere nemmeno che il semaforo diventasse verde. Fortunatamente le macchine all'incrocio erano già ferme sennò, in quel momento, ci saremmo ritrovati a spalare nuvole in Paradiso.
«Che diamine ti è preso?» Grugnii, fulminandolo con gli occhi resi a due fessure.
«Storia lunga. E anche drammatica, non vorresti saperla.» Tagliò corto lui, sfrecciando per le strade di Roma. Sfrecciando... insomma andava a 80 km/h, un record per quel rottame che, stranamente, non stava nemmeno tossendo per lo sforzo.
Ruben non aveva tutte le rotelle a posto, anzi forse gliene mancava anche più di una. E mi faceva arrabbiare quando faceva così il misterioso, quando si bardava nemmeno andasse a fare una spedizione in Antartide o quando rischiava di ucciderci solo perché un tizio ci aveva affiancato, perché era come se stesse cercando di nascondermi qualcosa. Non sopportavo i misteri, soprattutto quando riguardavano il mio ragazzo. Stavo per controbattere con il mio solito tono mansueto, quando, per la seconda volta in quella serata, Ruben frenò bruscamente. Solo che non c'era nessun semaforo rosso, nessuna macchina davanti a lui. Eravamo in una via tranquilla in cui c'erano solo palazzi per cui non capii che cosa gli fosse preso. Finché il suo dito indice non mi passò sotto al naso per indicare un'auto parcheggiata poco più avanti.
«La vedi anche tu quella macchina?» Domandò quasi avesse visto un fantasma.
«La Peugeot verde rancido?» Chiesi di rimando, abbassando entrambe le sopracciglia.
«No, quell'altra,» puntualizzò, indicandola con più enfasi «Quella dietro.»
«La 500 blu notte?» Risposi scettica.
«Sei sicura che sia una 500? Blu notte?»
«Ma ti si è fritto il cervello, oggi?» Sbottai infastidita senza sapere perché era così terrorizzato da quella piccola macchina. «Sì, è una 500 blu notte! Vuoi che chiamo anche un esercito che ti confermi che auto è?»
Sbatté una mano contro il volante, poi ingranò di nuovo la prima marcia infilandosi nel primo parcheggio che incontrò. Era stranamente turbato e tutto questo per aver visto una stupida macchina. Come se non avesse mai visto un modello come quello! Molto probabilmente gli si era fuso anche l'ultimo neurone attivo, non c'era altra spiegazione. Scendemmo dall'auto e Ruben si avvicinò furtivo alla 500. Sfiorò la carrozzeria, la scrutò attentamente – anche all'interno – e ci girò intorno senza perdersi nemmeno un minimo particolare.
«Ehi, senti,» lo richiamai, incrociando le braccia e tamburellando un piede sul marciapiede. «Siamo venuti qui per fare CSI scena del crimine oppure possiamo salire da tua nonna?»
«Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo,» bisbigliò passandosi entrambe le mani sul viso e in quel momento pensai davvero che il mio ragazzo fosse completamente impazzito. «Lo sapevo che non dovevo fidarmi di quella volpe di Annunziata.»
«Stai bene?» Domandai preoccupata. «O vuoi fare un salto dallo psichiatra?»
Ruben sospirò e si avvicinò a me, intrecciando le sue dita con le mie. Camminammo mano nella mano fino al portone di vetro di una palazzina signorile color grigio chiaro. Citofonò al cognome Dell'Abbiati, pigiando il pulsante ad intermittenza e poco dopo una voce scocciata ci rispose.
«Who is it?»
«Il lupo mangia frutta,» borbottò il mio ragazzo «So' Le...» S'interruppe e mi guardò di sottecchi. «So' io.»
«Holy shit!» Imprecò il ragazzo dall'altra parte e il portone scattò con un suono sordo.
Che cosa ci faceva un ragazzo a casa di nonna Annunziata? Subito cominciai a fantasticare su chi potesse essere il misterioso giovane, pensando inizialmente che fosse un malvivente che teneva in ostaggio Annunziata, ma ricredendomi subito dopo, dato che Ruben non aveva fatto la minima piega quando lo aveva sentito. Per cui o era il fratello perduto del mio ragazzo, del quale non mi aveva mai parlato oppure il nuovo fidanzato di nonna Annunziata.
«Ma chi è il tizio che ha risposto?» Domandai mentre eravamo sull'ascensore per raggiungere il secondo piano.
«Uno che non avresti mai voluto conoscere.» Rispose spicciolo ed enigmatico Ruben.
Assottigliai lo sguardo ed analizzai il mio ragazzo. Aveva le mani nelle tasche della felpa, era stretto nelle spalle e guardava con insistenza il led sul quale appariva il numero del piano. Sembrava contrariato, spaventato e deglutì a fatica quando arrivammo al secondo e le porte metalliche dell'ascensore si aprirono. Mi aspettavo di trovarmi davanti, dato il timore di Ruben, una specie di serial killer, un mostro, una specie di Frankstein, un Robbeo in mutande ad aspettarci sulla soglia di casa di nonna Annunziata. Ed invece, attaccato allo stipite con una spalla, c'era un ragazzo moro, un bellissimo ragazzo con uno sguardo vispo e un sorriso accattivante, vestito con un paio di jeans che sembravano molto costosi e una maglietta a maniche lunghe a righe dal quale si intravedeva il fisico sodo e sviluppato. Il suo viso era estremamente delicato, con lineamenti sottilmente marcati, ma di una elegante finezza. Zigomi alti, labbra piene e ben disegnate, un viso, insomma, che sembrava essere uscito dal pennello di uno dei grandi maestri dell'arte. Se quello era davvero il fidanzato di Annunziata, la nonna aveva molto più gusto della sottoscritta. Non che Ruben fosse brutto, ma tutti i miei ex fidanzati non brillavano per bellezza.
«È arrivata la sorpresina, nonna.» Bofonchiò il ragazzo con un leggero accento inglese rientrando in casa.
«Nonna?» Domandai dubbiosa rivolta al mio fidanzato e lui annuì sconsolato trascinandomi all'interno della dimora di sua nonna.
Fui subito investita da un buonissimo odore, un profumo di antico che mi ricordò vagamente quello squisito delle pagine di un libro. Quel posto era stato elegantemente arredata  con mobili antichi ma era tutto molto sobrio, molto tranquillo e mi sembrava quasi di essere a casa mia, con la mia famiglia e fu una strana, ma stupenda, sensazione. Mi tolsi la giacca, inserendo il foulard nella tasca e Ruben lo appese all'appendiabito vicino alla porta di ingresso.
«Oh Celeste!» Esclamò Annunziata spuntando dalla cucina trotterellando verso di noi mentre si puliva le mani nel grembiule bianco. «E il mio Chicco!» Aggiunse dopo accarezzando un braccio a suo nipote. Sembrava che non ci vedesse da secoli talmente tanta era a felicità di averci lì a cena da lei. Sorrisi nel vederla così contenta e nel percepire quanto affetto ci fosse tra lei e suo nipote, ma una risata interruppe quel momento.
«Oh God!» Esclamò il misterioso ragazzo, stravaccato su divano in stile Robbeo, anche se quello sconosciuto era un milione di volte meglio del mio coinquilino. «Ti fai chiamare ancora Chicco? Quanti anni hai, cinque?»
«Ho sentito come il ronzio di una mosca,» fece il finto tonto Ruben, grattandosi un orecchio. «Dovresti aprire un po' le finestre nonna, così magari se ne vanno questi fastidiosi insetti.»
«Ti dà fastidio il mio ronzare, Chicco?» Lo provocò quello, scoppiando a ridere nuovamente.
«Smettila Simone,» intervenne nonna Annunziata. «Non vorresti che dicessi alla nostra ospite il tuo di soprannome.»
Si zittì di colpo e fulminò la donna con i suoi intensi occhi color nocciola, mentre il mio ragazzo cominciò a sghignazzare.
«Pisellino.» Gli ricordò Ruben, trattenendo a stento una risata e vidi Simone arrossire di colpo e scivolare lungo lo schienale del divano per l'imbarazzo. Io non ci trovavo nulla di così divertente ma ogni ragazzo trovava spassoso qualsiasi parola legata al Walter e alle sue dimensioni.
«Comunque Celeste,» la nonna richiamò la mia attenzione e la guardai nei suoi vispi occhietti. «Lui è mio nipote, Simone, il cugino del mio Chicco.»
Il ragazzo, sentitosi chiamare in causa, si alzò ancora rosso in viso e si avvicinò a me, tendendomi una mano.
«Nice to meet you.» Disse, scandendo le parole come se io non capissi l'inglese. E cominciava anche a darmi sui nervi il fatto che parlasse così per chissà per quale motivo.
«Non sono cretina! Lo conosco l'inglese,» gli feci presente acida. «Celeste, comunque.» Dissi stringendogli la mano e per poco non gliela stritolai.
«So strange,» mormorò pensieroso e mi squadrò da capo a piedi, grattandosi il mento. «Pensavo che mi saresti saltata addosso. Sai com'è, di solito le ragazze scalpitano per incontrarmi e per avere anche un piccolo bacio da me. Invece tu non hai fatto nemmeno una piega.»
«Cosa ti sei fumato? Il basilico di tua nonna?» Domandai inacidita dalla megalomania di quel ragazzino. Solo perché era piacente, credeva che strisciassi ai suoi piedi per ricevere delle sue attenzioni? Giammai! Nemmeno se fossi stata single avrei ceduto al suo fascino. A pelle non riuscivo a digerirlo, forse per la sua arroganza e la sua vanità, forse per il benvenuto poco cordiale che ci aveva riservato.
«Vuoi dire che non sai chi sono?» Chiese quasi sorpreso. Aveva avuto la stessa reazione di Ruben la prima volta che lo avevo incontrato. Molto probabilmente era tipico della loro famiglia il fatto che tutti li conoscessero solo perché erano fighi.
«Sei un usuraio e ti devo dei soldi per caso?» Ironizzai, anche se ne avevo già fin sopra ai capelli del cugino del mio ragazzo.
Simone sghignazzò incredulo e si passò una mano tra i capelli castano chiaro. Sorrise sornione e mi parve di essere Alice nel paese delle meraviglie al cospetto dello Stregatto. Il ghigno di Simone era lo stesso di quel gattaccio a strisce violacee e mi sentivo stranamente in soggezione. C'era qualcosa dietro quel sorriso, come una risposta a un qualche mio dubbio.
«Ma io sono Simone S...» Tentò di dire ma Ruben gli si fiondò addosso, stringendolo a sé e spiaccicandogli la faccia contro il suo petto.
«Mamma mia quanto parla questo mio cuginetto!» Ridacchiò nervosamente, scompigliando i capelli del povero Simone che cercava di divincolarsi dalla stretta di Ruben senza rischiare di essere strangolato. «È un sacco egocentrico!»
Guardai quella scenetta patetica con sufficienza, incrociando le braccia e picchiettando il dito indice contro l'avambraccio. Sospirai sconsolata e decisi di raggiungere nonna Annunziata in cucina e lasciare i due ragazzi da soli a disquisire o uccidersi, a seconda di quello che avevano intenzione di fare. Non mi sembrava che si sopportassero, anzi, c'era rancore nei loro sguardo, astio e non ne capivo il motivo. Erano tante le cose che non comprendevo e che non sapevo di Ruben.
In cucina respirai immediatamente un buonissimo odore che proveniva dal forno e che stuzzicò il mio appetito, facendomi venire l'acquolina in bocca. Vidi Annunziata stendere una delicata tovaglia bianca sul tavolo posizionata al centro della cucina e la aiutai ad apparecchiare la tavola piegando i tovaglioli che aveva lasciato sul banco vicino ai fornelli.
«Oh no, Celeste! Tu sei l'ospite e non dovresti apparecchiare.» Esclamò subito la donna apprensiva.
«Tranquilla Annunziata!» La calmai con un sorriso e posizionai i quattro tovaglioli a coppie in modo da essere due per lato. «Per me è un piacere aiutarti.»
La nonna mi sorrise dolcemente e sistemò anche i bicchieri mentre io mi occupavo delle posate.
«Sono così felice che il mio Chicco abbia trovato una ragazza, finalmente,» sospirò con aria sognante. «Sinceramente ero stufa di vederlo accompagnato sempre ad una modella diversa ogni giorno. Da quando ti ha conosciuto, mi sembra tutt'altra persona e non posso che esserne felice. Magari è la volta buona che metta un po' la testa apposto.» Disse e mi guardò di sottecchi con i suoi occhi chiari e vispi.
«Puoi starne certa!» Esclamai sogghignando. «Gliela smonto io quella capoccia, anche a suon di sberle se fosse necessario.»
Magari riattivo anche qualche neurone, mi ritrovai a pensare ma mi morsi la lingua. Lei era sempre sua nonna e avrebbe potuto offendersi se parlavo così del suo adorato nipote.
«Il mio Chicco è un così bravo ragazzo, anche se molti lo giudicano senza nemmeno conoscerlo.» Soffiò Annunziata ed io le sfiorai una spalla. Io rientravo nella categoria di quelle persone che lo avevano additato, catalogato subito nella lista Trogloditi-malati-di-Iolanda, non appena lo avevo incontrato. A poco a poco, giorno dopo giorno, dopo che avevo iniziato a conoscerlo veramente, avevo cambiato idea sul suo conto, anche se lo ritenevo ancora un troglodita.
Avremmo continuato a parlare tra donne molto probabilmente, a mantenere intatta quella complicità femminile che si era creata tra di noi, se non fosse stato per i due ragazzi che entrarono insieme dalla porta, ostacolandosi a vicenda con spintoni e occhiate fulminanti. Era come vedere due bambini al parco giochi che litigavano per chi dovesse salire per primo sullo scivolo.
«Stavo entrando io per primo!» Ringhiò Simone, avvicinandosi a suo cugino per guardarlo dritto negli occhi.
«Ma se sono stato io a scattare dal salotto per primo!» Ribatté subito Ruben, pungolandogli il petto con l'indice. Probabilmente lo avevo tormentato così tanto con quel gesto che anche lui aveva iniziato, inconsciamente, a farlo.
«Sei una lumaca,» gli fece la linguaccia quell'altro e mi ritrovai a pensare che Simone avesse più o meno vent'anni d'aspetto fisico ma che il suo cervello fosse rimasto ancora all'infanzia. «Ed io sono più veloce di te! Lo sono sempre stato! Ci sarà un motivo se mi chiamano Sonic
«Perché sei fastidioso come un riccio nelle mutande, ecco perché!» Ribatté a tono Ruben.
Mi stupivo di come gli uomini non riuscissero ad allontanarsi dalla fase infantile, a preferire di rimanere degli eterni Peter Pan piuttosto che maturare. Io ed Annunziata ci scambiammo uno sguardo d'intensa, sospirando poco dopo mentre quei due continuavano a digrignare i denti come se fossero dei cani affamati che si contendevano un succulento pezzo di carne.
«Su, basta ragazzi!» Intervenne Annunziata, spegnendo il forno. «Che le lasagne al pesto sono pronte!»
Simone si voltò a guardare sua nonna e gli si illuminarono gli occhi. Trotterellò verso l'anziana donna e la strinse forte a lui, sbaciucchiandola su tutto il viso.
«Ha preparato il mio piatto preferito!» Cantilenò rivolgendo uno sguardo soddisfatto a Ruben.
«Solo perché tu abiti in Inglesilandia e vieni a Roma con la stessa frequenza con cui la Lazio gioca una partita decente. Cioè... MAI! Ti ha voluto solo accontentare.» Replicò il mio ragazzo, sedendosi a tavola.
«Si dice Inghilterra, ignorante!» Lo rimbeccò Simone, accomodandosi di fronte a suo cugino e fulminandolo con lo sguardo.
«Non mi dire!» Disse sarcastico Ruben. «Mi hai davvero illuminato con la tua saggezza!»
«Su ora basta!» Intervenne perentoria Annunziata, appoggiando la teglia fumante su uno straccio precedentemente sistemato sulla tovaglia. Mi sedetti accanto al mio ragazzo e la nonna cominciò a riempire i piatti con la lasagna dall'aspetto e dall'odore invitante «Abbiamo un ospite, non vorrete mica che scappi.» Aggiunse porgendo il piatto a Ruben.
«Ma chi saresti? Sai, non l'ho ancora capito.» Mi chiese, specchiandosi sulla superficie deformante della forchetta.
«Lo spirito del Natale passato.» Bofonchiai.
Era talmente preso da se stesso e da suo cugino che non si era nemmeno posto il problema di chi io fossi. Potevo essere una pazza isterica che voleva fare una strage! Anche se pazza isterica lo ero davvero, ma quello era tutto un altro discorso.
«È la mia ragazza.» Rispose per me Ruben e ci fu un attimo di silenzio, colmato solo dalla sedia di nonna Annunziata che strisciava sul pavimento. Simone ci guardò entrambi ad intermittenza, poi scoppiò in una fragorosa quanto fastidiosa risata. Resi gli occhi a due fessure e lo guardai in cagnesco, sentendo la strana voglia di prendere il coltello ed improvvisarmi una circense sbadata che, per puro caso, colpiva il suo insopportabile assistente.
«Cosa c'è di così spassoso?» Domandai brusca.
«Mio cugino che ha una ragazza? Che peraltro non è una modella o una tizia famosa e gnocca?» Disse sprezzante, asciugandosi una lacrima. «It's impossible!»
«A quanto pare ti devi ricredere, Sonic,» risposi con il suo stesso tono utilizzando anche quello stupido soprannome che lui stesso aveva usato per definirsi. «Non sono modella, non sono famosa e non sono nemmeno gnocca. Ma, sorprendentemente, sono la ragazza di Ruben.»
«Ruben?» Ripeté scettico Simone, guardandomi dubbioso. «Ma di che dia...» E anche questa volta venne interrotto dal mio ragazzo che gli diede un calcio da sotto il tavolo, facendolo sobbalzare e facendogli sbattere un ginocchio. «Damn shit!» Imprecò con una smorfia di dolore dipinta sul volto, massaggiandosi la gamba dolente. «Che cazzo ti è preso, deficiente!» 
«Non l'ho fatto apposta!» Disse mortificato Ruben, ingoiando un pezzo di lasagna. «Mi stavo solo sistemando.»
«Sì, certo! Volevi mettermi fuori uso, eh, Le...» E il mio ragazzo gli rifilò un altro calcio sotto il mio sguardo sempre più perplesso. Si voltò verso di me e mi sorrise nervosamente, tornando a divorare la sua lasagna mentre Simone si lagnava e continuava ad imprecare in inglese. Nonna Annunziata si alzò in piedi e afferrò per un braccio il suo nipote “ferito”, facendolo alzare.
«Andiamo un attimo in salotto, così ci mettiamo un po' di ghiaccio.» Disse e rivolse un'occhiataccia a Ruben, che si strinse nelle spalle con sguardo colpevole.
Simone zoppicò fino al salotto e la nonna lo seguì a ruota fuori dalla cucina, munita di qualche cubetto di ghiaccio avvolto in un tovagliolo di carta. Sbocconcellai un po' di lasagna – squisita, tra l'altro – guardando di sottecchi il mio ragazzo che sembrava stranamente turbato.
«Che ti è preso, Ruben?» Domandai cercando di controllare il mio tono di voce ed il mio disappunto.
«Non l'ho fatto apposta, davvero!» Si giustificò, sfuggendo al mio sguardo indagatore. «Ho solo mosso le gambe. Non è colpa mia se sono così lunghe!»
«Due volte consecutivamente.» Continuai, sempre più dubbiosa da tutto quel mistero che si celava nelle mura di quella casa.
«So' sbadato, che te devo di'?» Fece spallucce e continuò a mangiare la sua porzione di lasagna. Magari gli assistenti del circense erano due, uno di riserva nel caso il primo fosse stato messo fuori uso e Ruben poteva ben adattarsi alla parte del sostituto dell'assistente deceduto per una disgrazia. Perché doveva essere sempre così ambiguo? Sembrava sempre che mi stesse nascondendo qualcosa, eppure riusciva a mascherare i suoi segreti con maestria e cominciavo davvero a dubitare che i suoi misteri non esistessero e fossero solo creati dalla mia mente iperattiva e che cercava guai ovunque.
In quel momento il mio cellulare squillò e Shakira cominciò a cantare Waka Waka. Odiavo quella canzone, ma Robbeo mi aveva obbligata a metterla come suoneria perché era innamorato della cantante colombiana e il suo cellulare – il Nokia indistruttibile del dopoguerra – non poteva supportare il formato della canzone. Presi il telefonino dalla tasca e sul display lampeggiò il nome del mio migliore amico. Premetti il tasto verde e subito Robbeo mi  investì con la sua voce preoccupata.
«Celesteeeeeeeeee! Dove sei finita?» Piagnucolò disperato.
«Mi hanno rapito li alieni.» Borbottai sbuffando.
Dall'altro capo della cornetta udii un gridolino, poi il mio migliore amico abbassò il tono della voce.
«E come sono gli alieni? Brutti e verdi?» Mi chiese. «Oppure sono delle ragazze gnocche?» «Cavoli, Robbè! Quanto sei stupido!» Lo apostrofai stizzita. «Sono a casa della nonna di Ruben. C'è pure suo cugino.»
Un altro urlo provenne dalla bocca di Robbeo, ma questa volta fu di stupore, di gioia e subito dopo la sua voce tremò.
«Si-Si-Si-Simone?»
«Leonardo ti ha contagiato?» Ridacchiai. «E come conosci il cugino di Ruben, tu, eh?»
Ci furono alcuni secondi di silenzio in cui lo sentii sospirare e più di una volta cercò di rispondere, ma ci ripensava subito dopo.
«Me lo ha presentato lui.» disse infine.
«Ma se sta a Londra!» Sbottai infastidita. «E poi non capisco perché tu ti sia esaltato così tanto per il cugino di Ruben.»
Altra pausa, molto più lunga della precedente. Attesi che lui mi rispondesse, giocherellando con la forchetta nel piatto ma sembrava quasi che Robbeo fosse morto.
«Ciuccio ci sei o sei deceduto d'infarto?»
«Robbeo è dovuto scappare in bagno!» Rispose la voce squillante di Ven. «Abbiamo mangiato la pasta al sugo. E il ragù faceva schifo. Ha messo anche l'origano e qualche altra strana spezia dentro. Faceva schifo. Per cui adesso sta rimettendo tutta l'anima.»
Non mi stupiva il fatto che gli fosse venuto un attacco di nausea. I suoi piatti erano indecenti e più di una volta anche io ero stata male per giorni per le schifezze che cucinava il mio migliore amico.
«Vado a sincerarmi delle sue condizioni,» disse e mi sembrò strano che Ven si preoccupasse per Robbeo. «Divertiti con Ruben.»
«Grazie.» Mormorai e non fui sicura che lei lo sentì perché la chiamata fu interrotta pochi secondi dopo. Guardai il mio cellulare dubbiosa, con le labbra arricciate con la strana sensazione che tutti fossero complici in uno scherzo ai miei danni. Scrollai le spalle con noncuranza e rimisi il telefonino nella tasca della gonna.
 Simone e nonna Annunziata rientrarono in cucina subito, buttando il ghiaccio nel lavandino. Il ragazzo si sedette al suo posto sistemandosi il tovagliolo sulle gambe e sorridendo come lo Stregatto. Guardò prima Ruben, rifilandogli un'occhiata fin troppo furba, poi rivolse i suoi occhi color nocciola a me.
«Allora, Azzurra.»
«Celeste.» Lo corressi subito, stizzita.
«Azzurra, Celeste, Turchese... un colore vale l'altro,» scrollò le spalle e bevve un sorso d'acqua. «Cosa fai nella vita?»
«Studio lettere,» risposi. «E non tipo A, B, C... ma letteratura, casomai il tuo cervello british annacquato dal ponch non ci arrivasse.»
Simone mi guardò con sufficienza ed ero sicura che avrebbe voluto saltarmi al collo solo per aver ferito il suo ego, solo per aver preso in giro un'opera perfetta come lui. Dal canto mio, sorrisi soddisfatta continuando a gustarmi la prelibatezza di Annunziata.
«E dopo che farai? Chiederai l'elemosina oppure ti farai mantenere dal tuo ragazzo?» E quella, più che una domanda, mi sembrò una provocazione.
«Voglio diventare una scrittrice,» risposi risoluta, senza innervosirmi per la spocchia di quel ragazzino venuto da Inglesilandia. «Dico voglio, e non vorrei, perché sono sicura che riuscirò nel mio intento. Moccia ha pubblicato più di due libri, per cui anche la sottoscritta riuscirà a vedere le mie opere sugli scaffali delle librerie.»
Scrivere era sempre stata la mia passione, fin da quando avevo quattro anni e avevo preso in mano una penna. All'inizio scarabocchiavo solo i fogli, ma crescendo ed imparando a scrivere quelle linee senza senso si erano trasformate in parole inizialmente banali, da bambina ingenua quale ero fino a quando non si erano trasformati in versi, in sonetti, in storia in prosa che raccontavano una parte di me. E diventare una scrittrice affermata era il mio sogno nel cassetto. Ogni volta che mettevo piede in una libreria, mi immaginavo quanto sarebbe stato bello ed appagante vedere una mia opera esposta sugli scaffali.
«E tu, invece, di cosa ti occupi?» Chiesi e lo guardai insistentemente attendendo una sua risposta. Lui ci meditò su, ridendo sotto i baffi che non aveva e guardando distrattamente suo cugino.
«Lo stesso lavoro di Ruben.» Rispose, calcando inspiegabilmente il nome del mio ragazzo.
«Ah, quindi vendi fiori?» Domandai corrugando la fronte.
«Esattamente! E il nostro negozio a Londra è uno dei migliori. Ovviamente perché ci sono io.» Gongolò soddisfatto.
«Ma se non avete mai nemmeno vinto nessuna competizione... ehm... fioristica.» Rispose con arroganza il mio ragazzo.
«Floreale, Ruben, floreale.» Lo corressi con voce flebile e lui mi sbolognò con un gesto della mano.
Simone sembrò spesato da quello che aveva detto Ruben, ma poco dopo sogghignò annuendo appena.
«Intendi quelle competizioni,» disse con un mezzo sorriso. «Perché non mi sfruttano abbastanza. Hanno un talento come me e mi tengono troppo spesso nel retrobottega
«Mai stato nel retrobottega in tutta la mia carriera da fioraio.» Si pavoneggiò Ruben, provocando il cugino e con uno sguardo fin troppo furbo. Io ascoltavo, senza in realtà capire che cosa stesse succedendo, alternando sguardi dubbiosi sui due contendenti.
«Non capiscono un cazzo in quel negozio. Io sono il migliore in mezzo a quel branco di inutili fiorai incapaci perfino di calciare un pallone. Meriterei perfino di diventare il capo del personale, sarei in grado di trascinare la squadra verso la vittoria, non come quello spagnolo esaltato del cazzo. Che vada a mangiarsi la paella!»
«Non si parla così del proprio capo del personale. Bisogna portare rispetto!» Lo rimbeccò subito Ruben, fulminandolo.
«Parli proprio tu,» bofonchiò contrariato Simone. «Sta di fatto che io sono il migliore. Solo quando ci sono io in negozio riusciamo a vincere qualche competizione floreale,» si esaltò e questo non fece altro che confermare il fatto che fosse un egocentrico megalomane. «Mi meriterei anche il Tulipano d'oro
«In famiglia c'è sempre e solo un talento e in questo caso sono io,» Ribatté orgoglioso Ruben, allargando le braccia come per mostrarsi in tutta la sua bellezza e in tutto il suo talento. «E quello che quest'anno vincerà il Tulipano d'oro sono io. Perché solo i veri talenti lo meritano, non gli scalda retrobottega come te.»
Simone contrasse la mascella e stritolò tra le mani il suo tovagliolo.
«Ma avete sentito che cosa ha fatto Leonardo Sogno?» Domandò tutto d'un tratto ed io sbuffai, mentre Ruben ed Annunziata si sistemarono sulle sedie come se fossero a disagio. «Quello che ha fatto a Borriello è davvero riprovevole. Parla di rispetto, di gioco di squadra e poi tira un cazzotto ad un suo compagno,» scosse la testa con disappunto, socchiudendo gli occhi. «Che brutta persona.»
Ruben prese un respiro profondo e sbatté un pugno contro il tavolo. Potevo capire quella sua reazione, in fondo Leonardo era un suo amico ed anche io mi sarei arrabbiata se qualcuno avesse dato della Brutta persona a Robbeo oppure Ven. 
«Ha avuto i suoi buoni motivi per farlo,» ringhiò Ruben. «E lui tiene davvero alla sua squadra, non come qualche altro calciatore che sta nell'Arsenal.»
«Il suddetto bravissimo e talentuoso calciatore dell'Arsenal tiene ai suoi gunners!» Rispose Simone per le rime, stringendo la forchetta fino a farsi diventare le nocche bianche. «È solo un po' frustrato perché lo tengono in panchina dopo quel dannato infortunio. Credono che sia fatto di cristallo, ma in realtà è una roccia e vuole tornare a giocare come faceva prima.»
Ruben stava per ribattere nuovamente a quell'elogio che Simone aveva fatto al calciatore dell'Armagheddon, dell'Arenale, o qualunque fosse quel nome strano, ma Annunziata si alzò di scatto dal tavolo e raccolse i nostri piatti sporchi e completamente vuoti.
«Che ne dite di mangiare il dolce, eh?» Domandò e il suo fu un chiaro tentativo di stemperare la tensione.
La nonna ci servì una porzione di succulento tiramisù che era già invitante solo dall'odore. Mentre consumavamo il dolce, nessuno di noi aprì bocca – se non per mangiare quello squisito tiramisù –, ma tra i due cugini continuarono a volare occhiate assassine. C'era una strana tensione tra di loro, un rancore che sembrava si portassero dentro da anni.
Non appena finimmo di mangiare il tiramisù, Ruben decise che era il momento di andare ed io non mi opposi. Si trovava a disagio con Simone e potevo comprenderlo. Quel ragazzo era insopportabile, più irritante dell'ortica e sperai con tutto il cuore che se ne andasse a Londra e che non tornasse più.
«Ha cominciato a piovere.» Notò Annunziata, guardando fuori dalla finestra.
«It's raining cats and dogs!» Commentò Simone, appoggiandosi al vetro della finestra con una tazza fumante di tè retta tra le due mani.
«Vado a prendere la macchina, allora,» annunciò Ruben, schioccandomi un fugace bacio sulle labbra. «Così non ti bagni.»
Sorrisi e forse arrossii anche per la sua apprensione.
«Ah, quel bolide rosso risalente al Paleolitico,» ridacchiò Simone, lanciando un'occhiata divertita a Ruben. «A quanto arriva? 30, forse 40 km/h?»
«Fino agli 80, per la cronaca.» Ribatté infastidito il mio ragazzo.
«Addirittura! Potresti competere con Schumacher.» Sogghignò e subito dopo sorseggiò un po' di tè caldo.
Il mio ragazzo gli riservò un'ultima occhiata omicida prima di uscire di casa per andare a prendere la macchina. Intanto io indossai di nuovo il giubbotto di pelle e il foulard, per poi salutare con una stretta e un bacio Annunziata che era intenta a sciacquare i piatti.
«E così Ruben si è messo la testa a posto.» Sospirò Simone, senza staccare lo sguardo dalla finestra.
«Così pare.» Borbottai, spostando il peso dalle punte ai talloni.
«Come vi siete conosciuti?» Domandò curioso. «Più che altro perché Ruben non è il tipo da frequentare luoghi da intellettuali. Il suo habitat naturale sono le discoteche, gli eventi mondani.»
«Mi ha schizzata con una pozzanghera. Poi da lì si sono susseguite alcune coincidenze che ci hanno fatti incontrare ancora.» spiegai spicciola e senza la minima voglia di parlare con lui.
«Oh, I understand,» annuì e mi guardò con i suoi occhi furbi e magnetici. «Se fossi in te farei un giro su Sky sport. Una partita ogni tanto non ti farebbe male.» mi consigliò ma declinai l'invito con un gesto della mano.
«Odio il calcio, e di più chi lo pratica. Esseri unicellulari privi di qualsiasi attività cerebrale.» dissi con un sorriso compiaciuto.
«Mah, sarà,» Simone scrollò le spalle e sospirò. «Ma le partite riservano un sacco di sorprese, you know?» Aggiunse, avvicinandosi a me e mormorandomelo nell'orecchio.
E in quel momento un brivido mi percorse la spina dorsale. Ma non un brivido di freddo e nemmeno d'emozione. Era stato un fremito strano che non presagiva nulla di buono.


Finalmente avete avuto l'ONORE di conoscere Simone, l'adorabile cuginetto di Leonardo. Fino ad ora è stato solo accennato, ma da questo momento diventerà na figura importante per la storia. C'è un nuovo Sogno in circolazione, molto più vanitoso di Leonardo, cento volte più egocentrico, bambino, immaturo e calciatore anche lui.
Ovviamente quando i due parlano di negozio, retrobottega ecc sono solo modi per non far capire a Celeste un bel niente. Annunziata ha avuto l'accortezza di dire a Simone del casino in cui si è cacciato il cugino e sembra che per adesso stia al gioco. Si crede il migliore e non solo della sua squadra, ma anche di Leonardo e di qualsiasi altro calciatore. Un po' montato il ragazzo, no?
E insomma Leo e Cel finalmente sono usciti insieme, anche se ancora non riescono a trovare un po' di tempo da passare da soli -a fare porcherie- e Leuccio è ''lievemente'' frustrato porello. L'amara notizia che suo cugino Simone è tornato in città lo ha messo letteralmente con il morale a terra, anche perché Roma è da sempre la sua città, la sua squadra, e non permetterà mai a nessuno di portargliela via. Per quanto mi riguarda, adoro questa competizione familiare, perché c'è in ogni famiglia, per quanto si possa nasconderlo. Tra fratelli, tra cugini, ma anche tra padre e figlio, è normale. Fa sempre bene un po' di sana competizione, basta che il ragassuolo non voglia competere con Leo anche in campo affettivo! O.O''

Beh, direi che possiamo anche lasciarvi ai commenti. Ringraziamo le 11 persone che hanno recensito lo scorso capitolo (ç___ç pensavo che ormai fossimo sulla via delle 18.. vabbé) e a tutti quelli che hanno messo la storia tra i preferiti *costruisce la statua*, ringraziamo anche i lettori silenziosi che gli danno uno sguardo. Fa sempre piacere essere presi in considerazione.

Ed ecco a voi il momento tanto atteso.... *rullo di tamburi*
SIMONE SOGNO:                                                 LEONARDO SOGNO:


E i SOGNO BOYZ:


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