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Autore: Natalja_Aljona    29/10/2011    2 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Centodiciassette - The Lovers That Never Were

If we can’t be lovers we’ll never be friends


No one around you

Will carry the blame for you

No one around you

Will love you today and throw it all away

Tomorrow when you rise

Another day for you to realize me

Or send me down again


Nessuno di coloro che hai intorno

Si assumerà la colpa per te

Nessuno di coloro che hai intorno

Ti amerà, oggi, e butterà via tutto per te

Domani, quando ti alzerai
Avrai un altro giorno per farmi capire

O buttarmi giù di nuovo

(Run of the mill, George Harrison)



Anuket, 9 Ottobre 1828


-Quattordicimila kuruş-

La voce del turco arrivò ad Audrey quasi per caso, facendola rabbrividire.

La ragazzina distolse lo sguardo dall’Egeo, scuotendo la testa.

Si voltò lentamente verso il ponte, incontrando disgraziatamente gli occhi infuocati del fratello.

Voltati, Jenny.

Si morse il labbro inferiore con forza, aumentando disperatamente la stretta febbricitante sul parapetto.

Via, Jenny. Di chi diamine vuoi avere paura?

Ma aveva un modo di guardarla, Stephen, che celava dietro all’apparente affetto fraterno una lama calata sugli occhi, forse a nascondere qualcosa che, no, un fratello non avrebbe fatto.

-Quattordicimila kuruş e un sorriso di Azniv-

Già, lei era Azniv, per il turco dagli occhi azzurri.

Dava un nome turco-armeno a tutti, lui, dava un nome turco-armeno anche ai bambini greci, il meraviglioso ragazzo bizantino di cui Mickaël Chantefleur, l’Alsaziano, il mercante di schiavi, suo padre, più di ogni altro si fidava.

Stephen si comportava proprio come se lo conoscesse da sempre, Rajit.

Gli piaceva, quel ragazzo, gli piaceva il suo modo schietto, fin troppo, di ragionare, il suo fare talvolta un po’ brutale, lo sguardo sfrontato, da vero uomo.

Stephen, forse, temeva di non esserlo, un vero uomo.

Audrey avrebbe concordato, se solo avesse potuto.

Stephen, per lei, era sempre stato molto più, maledettamente di più, disperatamente di più di un vero uomo.

Suo fratello, il ragazzo che, per quanto le voltasse le spalle, non l’avrebbe mai tradita davvero.

Suo fratello, il ragazzo che, sebbene le avesse voltato le spalle ogni giorno, da quando erano lì, lei ci credeva, un sorriso per lei l’aveva ancora, e ancora e ancora l’avrebbe avuto.

Ancora, ma ancora e ancora quando, Jenny?

Il mare, il mare, il mare.

Doveva guardare il mare, Audrey.

Era tutto quello che le rimaneva, il mare.

Il mare che, da Strasburgo a Liverpool, aveva aperto a suo padre tutte le strade del mondo, del suo piccolo mondo infame, compresa quella maledetta strada che l’aveva portato al numero 13 di Victoria Street, dove allora viveva sua madre.

Janice Jennifer Hannover, Jane.

JJ, la Liverpooliana.

Da Strasburgo a Liverpool in un volo di sguardi, uno schiaffo su un volto, diciassette anni di cristallo.

Il cristallo degli occhi dolci, dello sguardo fragile di sua madre, sbriciolato in uno schianto, oltre la leggenda dell’immenso, eterno eppure insufficiente coraggio di Jane, la vera Jane.

Lei era Audrey Jane, la piccola Jenny, Azniv, l’ultimogenita, quella che sarebbe anche potuta non nascere.

L’amava davvero, Jane, la sua piccola Jenny, la sua quasi omonima, la bambina dai capelli troppo lunghi e sempre intrecciati da qualche zingara disposta a pettinarla “alla popolana” per un pugnetto di pence, la ragazzina un po’ ribelle un po’ disperata, che giurava: “sposerò uno straniero, ma uno straniero che somigli a me”.

E anche Jean-Claude, Veronique, e prima di ogni altro Stephen, il suo Stephen, le avevano voluto bene, un bene grandissimo.

Suo padre… Suo padre l’adorava.
Adorava la gente che stava ai suoi ordini, lui.

E lei, lei nei primi tempi non capiva, non sapeva quanto i suoi ordini fossero sbagliati, quanto poco innocenti fossero i silvestri occhi turchini di suo padre.

E di colpo, come nel fumo delle ciminiere, le ciminiere che dominavano la periferia liverpooliana, da cui lui l’aveva sempre tenuta lontana, era svanita la sua adorazione nei suoi confronti.

Perché non obbediva più, Audrey.

L’aveva capito quando Rajit aveva firmato il contratto davanti ai suoi occhi, quel maledetto contratto stilato da Stephen e da suo padre, ma Stephen aveva diciassette anni, era ancora alle prime armi, si ostinava a credere, suo padre no.

Aveva capito che quel suo obbedire, seppur non al livello dei bambini greci dell’Anuket, era o sarebbe diventata schiavitù, e con la schiavitù non avrebbe più fatto un solo passo avanti, la piccola Jenny degli Chantefleur.

Aveva compreso il prezzo dei passi avanti degli Chantefleur, un prezzo che lei non avrebbe saputo e potuto far pagare nemmeno al peggiore di tutti, nemmeno per un brandello in più di libertà, nemmeno per un metro in più d’immeritato campo d’azione, e mai se la sarebbe tenuta dentro ad avvelenarle il sangue, Jenny, quella schiavitù.

Era stata costretta a riconoscere che, no, non era una caratteristica degli Chantefleur, quello straziante modo di calpestare gli altri, quella maledetta abitudine.

Ad alimentarla erano e sarebbero stati solo in due.

Mickaël e Stephen.


Era cominciata molto prima, quella storia, molto prima di lei.

Mickaël Chantefleur, ventiquattro anni e un sogno che per avverarsi avrebbe dovuto bruciare mille altri.

I sogni degli altri.

Un giorno, un giorno qualunque in uno di quei mari che solcava tutto l’anno distruggendo in una mano l’eterna attesa di Janice.

Un ragazzino biondo un po’ distratto che sorrideva sul ponte, l’impotenza d’uno sguardo di timorosa gentilezza nel verde brillante dei suoi occhi belli e stanchi, una poesia firmata Z. K.

Un vecchio trattato sulle colonie greche in Ucraina, il ritratto d’una ragazza slava dai capelli raccolti e un anello al dito, gli occhi d’una tonalità un poco più chiara dell’azzurro, un poco più fragile.

Warszawa, 1823 - Krasnojarsk, 1825, c'era scritto in un angolo, parole quasi interamente leggibili sotto la firma del pittore.

L’Anuket dei primi anni, una nave che con l’irriverente libertà delle maree ci giocava, una nave che, pur non stagliandosi nel riflesso costante del sole, si sentiva arrivare.

Audrey non sapeva cos’era successo laggiù.

Non sapeva a chi avesse fatto chinare lo sguardo suo padre.

Ma da quel viaggio Mickaël era tornato con il sangue sul coltello e una luce quasi selvaggia negli occhi, nel sorridere a Janice.

Eppure, quanto era successo laggiù era scritto sul contratto, con un pennino veloce e un inchiostro denso che assorbiva rapido sulla pergamena, forse tra le righe, il sangue delle vittime di quel viaggio.


Per un sorriso di Azniv.

Sorrise, sorrise, sorrise mille volte, lei.

Sorrise a Rajit, il ragazzo di Ankara, con il suo serafico cambiare le carte in tavola, mandare all’aria tutto e sfoggiare sul bel volto diciottenne tutte le ombre di quel caldo sole turco che gli bruciava negli occhi più dell’incoscienza che l’aveva spinto a firmare quel contratto.

Sorrise a Rajit, e non sapeva che il suo matrimonio era finito con quattro schiaffi e un sorriso di quelli che fanno pensare che ti chi sorride così forte in quella ferita forse bene non te ne ha voluto bene.

Gli sorrise senza sapere quanto anch’egli fosse bravo a calpestare.

Gli sorrise senza prevedere, forse.

A quel sorriso frammentato nella penombra serale dell’Anuket, sul legno del ponte, sull’unica, forse, certezza del parapetto, Audrey teneva maledettamente.

Il sorriso che rivolgeva a lui, il sorriso di Rajit.

Un sorriso che sapeva calpestare e che l’avrebbe fatto ancora, un sorriso che sarebbe morto, poi, alla fine del 1829, tra l’Egitto e la Turchia, tra il mare eterno e l’Inghilterra, l’Inghilterra da cui non sarebbe più ripartita, mai più.


Non si vince mai niente, per amore.
E adesso dimmi cosa ho vinto io, con il tuo amore.

Il Convento, Rajit.

Audrey Jane Chantefleur


Ogni carezza della notte è quasi amor

(I Maschi, Gianna Nannini)



Anuket, 1 Novembre 1828


Geórgos dei Kléftes era un ragazzino coraggioso, e forse per questo aveva ottenuto, su quella nave di pazzi, l’ammirazione e la protezione di Rajit.

Rajit con Geórgos parlava in turco, Audrey stava semplicemente a guardarli, ma sorrideva.

Poi un giorno, passando davanti alla cabina socchiusa di Mickaël Chantefleur, aveva intravisto il ritratto della ragazza slava.

Stava facendo il giro della nave sulle spalle di Rajit, il piccolo greco, ed era cascato sul ponte come un’albicocca matura, sbucciandosi le ginocchia in una ragnatela di graffi quasi artistica.

-Stupidi si nasce- aveva commentato il turco dagli occhi azzurri, divertito.

Poi l’aveva scaraventato di nuovo a terra con una relativamente amichevole pacca sulla spalla, interrompendo qualsiasi lagna nascente -così le aveva definite- con un brusco: “Passa tutto, bello di Pascià”.

Ma a Geórgos non poteva importare di meno dei graffi, di qualche stilla di sangue sui pantaloni già abbastanza malridotti per conto loro.

S’era rialzato aggrappandosi alla mano di Audrey, che in qualche modo si trovava sempre nei paraggi di Rajit.

-I sýzygos tou filosófou, i sýzygos tou filosófou!-, aveva ripetuto.




Note


Kuruş: Moneta in uso all’epoca in Turchia.

I sýzygos tou filosófou (greco): La moglie del filosofo.

The Lovers That Never Were [...] If we can't be lovers we'll never be friends: Gli amanti che non sono mai stati [...] Se non saremo amanti non saremo mai amici. The Lovers That Never Were, Paul McCartney.


Non so davvero cosa potrei dire di sensato, a questo punto.

Audrey e Rajit...è da tanto che voglio scrivere su di loro.

Doveva essere il capitolo 111, il loro.

Eppure è difficile, scrivere di questi due.

Lo farò ancora, perché la loro storia è maledettamente importante per arrivare al nodo principale di tutti i misteri -è inquietante, la cosa, me ne rendo conto ;)-, e perché li adoro, a modo mio.

C'è troppo da spiegare, su questo capitolo, e c'è troppo che non posso ancora spiegare.

E collegate questo capitolo al 62, al 72 (dove si parla per la prima volta della colonizzazione dell'Ucraina da parte dei Greci tra il VII e il VI Secolo a.C. Non sarà determinante, questo, non del tutto, ma per un dettaglio, che poi si collegherà anche a Shtorm, sì), al 101 e al 103 (dove sono nominati due particolari del ritratto, sebbene apparentemente poco collegati tra loro), al 107 (Più sottintesa comparsa del "ritratto di Julyeta" -indubbiamente la moglie del filosofo, anche se nel 1828 non ancora, sebbene Harold la considerasse già tale-, che non è il ritratto di Julyeta, però) e al 114, soprattutto.

Gli indizi nel 62 e nel 114 li lascio trovare a voi. ;)

E, tanto per fare una pseudo-battuta fuori luogo, Sic e i suoi misteri si potrebbero riassumere nella citazione Vecchioniana “E invece non finisce mai”. ;)

Che ci volete fare, l'ho cominciata con Tolstoj che mi strizzava l'occhio dal mio adorato, mastodontico Guerra e Pace sulla scrivania, questa pseudo-epopea!

E sommando la meravigliosa prolissità di Lev, l'adorabile, straordinaria, contorta mentalità di Fëdor Dostoevskij -e Dio solo sa quanto amo quel ragazzo- e la splendida vena tragica-architettonica di Victor Hugo (in mia difesa posso dire che, pur amando oltremodo il caro Vic, l'architettura essenzialmente l'ho lasciata all'immaginazione, considerando anche le mie discutibili competenze in materia), cosa volete che ne venga fuori? ;)

Niente, niente, dovrei solo stare zitta, nelle note.

Teoricamente.

Giusto per non riprendere un'altra arringa su questa “teoria”, vi saluto! ;)


A presto,

Marty





  
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