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Autore: Yvaine0    02/11/2011    3 recensioni
Ero in treno da un'ora verso il nulla più totale.
Perchè? Probabilmente tutto era iniziato quando mio fratello aveva iniziato a parlare. Fin da subito aveva capito la sua vocazione: sparare stronz-...sciocchezze. E così, litigio dopo litigio, nostra madre era impazzita e aveva deciso di spedirci tutti e due a vivere da qualche parte lontani da loro.

Pan Fletcher, diciottenne, ragazza di città, si ritrova catapultata in un mondo a lei estraneo, caratterizzato da laboriosità, aria pura, e sentimenti sinceri. Armata di mp3, di un bizzarro interesse per le mucche e di un rassicurante manuale di sopravvivenza create da lei stessa, affronta questa avventura che la vita le regala senza ben sapere cosa pensare di tutto ciò che le sta per accadere.
"Che diavolo ci fai qui?"
"Che diavolo ci fai TU qui! Questa è casa di mio nonno!"
"Io qui ci vivo!"
Fissai il ragazzo in cagnesco per qualche istante. "Bè, anche io!"
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cows and jeans'
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Cows and jeans

20


 
"Ehi, ragazza?  Ti sei dimenticata la mia birra?"
Trasalii leggermente a quelle parole. Sorrisi all'uomo seduto al bancone, mentre il marito di Ginger sospirava, intento a riparare la macchina del caffè. "Certo che no! Eccola che arriva!" esclamai, prendendo un boccale da riempire alla spina. 
Ok, sì, me ne ero dimenticata, ma il problema non sussisteva, no? La sorte stava girando dalla parte giusta da un po' di tempo a quella parte e quel giorno ero così allegra che nessun errore avrebbe potuto scoraggiarmi. Inoltre avevo superato danni ben più grossi di una birra quasi non servita. 
Questa volta potevo giustificare la mia distrazione incolpando il caldo. Era il 31 Agosto e il clima afoso che ci aveva accompagnato per l'ultimo mese trascorso non se ne era ancora andato. Le alte temperature, quando era così umido, erano tra le tante cose che mi ingolfavano il cervello più di quanto non fosse mai capitato al motore del mio bistrattato ciao. 
Avrei volentieri trascorso il weekend precedente alla ricerca di refrigerio stesa sull'amaca in giardino (da me scovata nel capanno e montata dal nonno), totalmente KO. Tuttavia la mia ricerca di pace e fresco era stata bruscamente interrotta quando il gentilissimo Dean era uscito per nutrire i maiali e aveva ben pensato di ribaltare l'amaca (con me sopra, sì) e requisirmi l'mp3, quel venerdì mattina. "Solo perché sei riuscita a tenerti stretta un lavoro per un mese, non vuol dire che puoi startene con le mani in mano!" aveva detto, per poi stilare un elenco di tutte le faccende domestiche che aspettavano di essere svolte niente po' po' di meno che dalla sottoscritta. In fondo era giusto così, lo sapevo, ma una mia rispostaccia non gliel'aveva tolta nessuno.
Erano passate settimane da quando ero stata assunta al saloon e non avevo ancora combinato grossi guai. Potevo quasi ritenermi orgogliosa di me stessa! E, a proposito di orgoglio, erano passate settimane anche da quando il proprietario del furgone dei trasporti aveva telefonato a Cassie per informarla che all'ordinazione consegnata il giorno prima mancava un articolo da giardino: una zappa, che era rimasta nel magazzino dell'azienda a causa di un errore di chi aveva caricato tutto sul mezzo di trasporto.
Forse è inutile dire che quando Agatha fu mandata, accompagnata da Kameron, a comprare concime, mi offrii di accompagnarli per far loro compagnia e soprattutto rinfacciare quella storia alla diffidente e nevrotica Cassie, la quale mi cacciò fuori gridando che nonostante tutto non meritavo le sue scuse, meschina com'ero. Ero uscita dal negozio ridendomela della grossa e avevo aspettato fuori Aggie e Kam per aiutarli a caricare quegli stramaledetti sacchi puzzolenti sul cassone del pick-up. Avevo finalmente avuto la mia bella soddisfazione, dopotutto: avevo visto Cassie arrossire per la vergogna fino a sembrare sul punto di auto-tagliarsi a fette e gettarsi nell'insalata; l'avevo fatta infuriare come una bestia con i miei continui commenti impertinenti al punto giusto. Senza dimenticare, poi, la cosa più importante: tutto il paese sapeva della telefonata da parte dell'azienda da cui Cassie comprava il materiale. Una volta tanto la velocità con cui le si diffondevano in un paesino - rapidità inversamente proporzionale alle sue dimensioni - aveva fatto proprio al caso mio. 
"Senti, Pan", la voce del marito di Ginger mi richiamò alla realtà, al presente. 
"Sì?"
"Sono le tre e un quarto, puoi anche andare a casa".
Gli sorrisi grata e andai a stringergli la mano, per salutarlo. Non era una cosa che facevo abitualmente: questa volta era diverso. "Grazie mille. Non so come farei se non ci foste tu e Ginger con la vostra pazienza! Ci vediamo mercoledì prossimo!"
A partire dal giorno seguente non mi sarei presentata al lavoro per una settimana. Stavo per partire le vacanze in città, finalmente! Dovevo solo fare la valigia, salutare tutti e prendere il treno per la città, la mattina dopo. 
"Figurati. Alla fine sei una brava ragazza" mi sorrise.
Ricambiai il sorriso, mentre un assurdo pensiero -in assoluta autonomia- si faceva strada nella mia mente: E all'inizio no? 
Salutai tutti e uscii, mentre riflettevo sulla reputazione da assassina che probabilmente avevo. Come si poteva pensare che fossi una brava ragazza solo alla fine? A prima vista mi scambiavano per una psicopatica? E dire che pensavo di risultare veramente idiota solo a conoscermi bene.
La mia motoretta, pensai mentre vi montavo in sella, mi era mancata da morire durante il periodo in cui era stata dal meccanico per colpa di Johnny Lucas, nonostante avessi scroccato passaggi a destra e a manca per tutto quel periodo pur di non usare la bicicletta del nonno.
Faticavo ancora a credere che mancasse davvero così poco alla mia partenza. Inizialmente pensavo che quel percorso fino al mio temporaneo ritorno a casa sarebbe stato duro e difficile. Non potevo negare che in un primo momento fosse stato davvero difficoltoso, ma poi, presto, tutto aveva iniziato a correre liscio, fino a che quel giorno non era arrivato con una velocità sorprendente. 

 
Oddio.
Oddio, oddio, oddio.
Ero in treno.
Treno, treno, treno, casa. Città.
Stavo decisamente impazzendo.
Compra un verbo, Pan.
Ero in treno e stavo tornando in città. Nella realtà, non stavo sognando, no.
Non era come la notte precedente, quando, dormendo, avevo immaginato di essere sul treno che mi avrebbe portata in città. Era stato traumatico svegliarsi e trovarsi arrotolata nel lenzuolo umidiccio e sudaticcio sul punto di cadere dal letto. Avrei dovuto essere su un treno, e invece ero rovinata sul pavimento cercando di districarmi dalla stoffa leggera.
Effettivamente, pensai, avrei dovuto immaginarlo che non si trattava della realtà. Quale treno in partenza da un paesino -privo di una vera stazione- poteva essere popolato da studenti avvolti in sciarpe rosso-oro o in mantelli neri con ricamati gli stemmi delle Case di Hogwarts?
Non era importante, però. Ero lì, stavo partendo. Anzi, ero già in viaggio. Avevo contato già tre fermate dopo quella a cui ero salita, e ogni volta che il treno si fermava mi trovavo sempre più agitata ed entusiasta. Non ricordavo nemmeno perché avessi sempre odiato quella città e la gente che ci viveva, in quel momento.
Ogni campo che mi lasciavo alle spalle era una manna dal cielo. In realtà piovigginava, ed era acqua quella che cadeva dal cielo, ma lasciatemi pensare che fosse un miracolo.
Mi entusiasmavo sempre di più ogni secondo che passava, tanto che avevo iniziato a ridacchiare da sola per la gioia, attirando gli sguardi curiosi di alcuni passeggeri. Non che mi importasse molto di quegli sguardi, in fondo anche all’andata tutti mi avevano guardata (e male), ma se avessi continuato così, presto mi sarei fatta venire un infarto. Siccome non volevo morire prima di arrivare in città, né spaventare a morte i poveri pendolari che mi stavano fissando come fossi una folle psicopatica, causando così una strage, decisi, mentre il treno si fermava di nuovo, di fare un respiro profondo e calmarmi.
Avevo spesso letto di persone in grado di sembrare impassibile di fronte a tutto, ma diavolo se era difficile! La facevano facile quegli autori!
Un ragazzo biondo salì sul treno, lanciò uno zaino su di un sedile vuoto e si sedette in quello accanto. Si portò una sigaretta spenta alla bocca e prese a guardare dal finestrino con aria incurante di tutto e tutti.
Quell’atteggiamento così arrogante –che mi sembrava arrogante solo perché lui riusciva a rimanere tranquillo ed io no- mi ricordò Dean. Sì, la chioma bionda mi aiutò molto nell’associazione.
Con uno sbuffo infastidito mi misi a pensare a come le cose erano andate il giorno prima, giusto per smorzare l'entusiasmo.
Avevo passato il pomeriggio correndo per tutta la casa alla ricerca dei vestiti da portare con me in città. Qualcosa avrei dovuto indossare in città, ma dovevo anche riempire tutto il riempibile con gli indumenti invernali da portare a Sperdutolandia, o mi sarei congelata prima di poter arrivare a Natale, sospettavo. Non che quell'afa potesse in alcun modo ricordarmi che prima o poi sarebbe tornato il freddo, in realtà era stato il nonno a suggerirmi di portare a Sperdutolandia un po' di roba se non volevo camminare in mezzo metro neve con le scarpette da ginnastica, qualche mese dopo. Strano ma vero, a lui avevo dato ascolto, ecco perché avevo forzato dentro la tracolla di jeans i vestiti per una settimana e avevo lasciato vuoto il trolley. Quando avevo dovuto chiudere la zip, la borsa era talmente piena, che avevo ritenuto necessario pregare in tutte le lingue del mondo (o almeno tutte quelle che conoscevo e riuscivo ad inventare) che il cursore non saltasse via, poiché in quel caso avrebbe certamente cavato un occhio a qualche povero pinguino di passaggio in Antartide. Ecco perchè quando trovai la mia T-shirt preferita appesa ad asciugare sui fili del giardino l'avevo mandata al diavolo, decisamente offesa e le avevo annunciato che sarebbe rimasta a casa. Sì, quando sono entusiasta parlavo con gli oggetti. Avrei parlato con qualsiasi essere vivente o meno, quando ero di ottimo umore. Persino con mia madre. 
Quella era stata tuttavia la mia giornata fortunata, forse, visto e considerato che era andato tutto liscio e Dean non mi aveva riempito di insulti, nemmeno dopo tutte le volte che avevo rischiato sbattergli una porta addosso.  
Quella sera avevo preparato da mangiare, per farmi perdonare l'improduttività di quel giorno feriale, poi avevo lavato e asciugato i piatti rifiutando ogni aiuto -non che qualcuno avesse insistito per darmi una mano, precisiamolo.
Prima di andare finalmente a dormire avevo pensato che sarebbe stato carino salutare Dean, visto che non avrei visto nemmeno lui per i sette giorni seguenti. Magari sarebbe stata la buona volta buona per mettere da parte l'immotivato astio che nutriva nei miei confronti. 
In piedi sulla soglia della mia camera, mentre lui se ne stava steso sul proprio letto a fissare il soffitto, le braccia dietro la testa e la pretesa che spegnessi la luce e lo lasciassi dormire, avevo tentato quell'assurda impresa: la gentilezza nei confronti di un ragazzo indisponente. "Be', immagino che domani mattina non ci vedremo, per cui..." Dean mi aveva lanciato un'occhiata interrogativa e io mi ero messa a dondolare sui talloni, impacciata. "quindi ti saluto".
Lui era tornato al suo studio certosino della vernice sul soffitto. "Ciao" aveva risposto, disinteressato.
Era irritante, sempre e comunque. Quel comportamento mi aveva quasi fatto perdere le staffe, ma ero decisa ad essere gentile a far vedere che ero in grado di avere una conversazione civile anche con lui.  "Vuoi che ti porti qualcosa dalla città?" avevo proposto.
"Niente elemosina, grazie".
"Non è elemosina, è gentilezza. Ti ho chiesto se vuoi che ti compri qualcosa, non ti ho gettato degli spiccioli in un cappello!"
"Non cambia molto".
Al diavolo! "Bene, signor Niente-gentilezza-sono-allergico! Eviterò di spendere i miei soldi per te!" Ero andata in camera e avevo sbattuto la porta con stizza. 
Non sono in grado di avere una conversazione civile con lui, e va bene, lo ammetto! Al diavolo lui e la sua arroganza!
Profondamente irritata e nervosa per l'imminente viaggio, avevo scritto qualche riga sul diario e lo avevo riposto al sicuro nello zaino, poi mi ero infilata sotto il lenzuolo. Sentendo mio nonno dare la buonanotte a quell'arrogante, avevo bisbigliato una serie di coloriti epiteti potteriani poco carini a lui rivolti e mi ero chiesta per quale assurdo motivo si comportasse così. Si trattava ovviamente di una di quelle complicate domande sul senso della vita a cui non si riesce a dar risposta a meno che non si sia un tale Aristotele o Platone, ecco perché a metà ragionamento mi ero addormentata come uno Snorlax dopo una scorpacciata di bacche. 
Quella notte avevo sognato mio nonno che giocava al tiro a segno col fucile, usando Dean come bersaglio. Mi ero lamentata tanto, nel sonno, per quella barbarie, ma quando quell'irritante ragazzo era venuto a darmi il buongiorno -a modo suo- mi sarei volentieri mangiata le mani. Tornando indietro mi sarei limitata a correggere la mira del nonno.
“Alza il regale fondoschiena, principessa, è ora che lei se ne vada!”
“Ti hanno mai detto che la tua voce è anche più irritante del suono di una sveglia?”
 
Non che quei pensieri mi stessero calmando particolarmente. Avrei dovuto a pensare a qualcosa come canto di uccellini, soffio del vento e scrosciare dell’acqua di un fiume, ma optai per una più semplice e abbordabile risorsa. Inforcai gli auricolari e mi isolai dal mondo, concentrata sulle parole delle canzoni che scorrevano.
 
When I was younger 
I saw my daddy cry 
And cursed at the wind 
He broke his own heart 
And i watched 
As he tried to re-assemble it 

And my momma swore 
that she would never let herself forget 
And that was the day that I promised 
I'd never sing of love 
If it does not exist
 (*)
 
Mi stava per uscire il cuore dalle orecchie. No, dagli occhi.
Il freno stava rallentando, ero arrivata. Ero arrivata. In città. Da Emily, da papà. Dalla mia famiglia. Ero… tornata.
Non riuscivo a crederci ero tornata!
Il mezzo si fermò, presi tutte le mie cose e corsi verso le porte. Il cuore mi pulsava nelle orecchie nemmeno stessi per dare l’esame più importante della mia vita.
Respirai a fondo, cercando di darmi un contegno. Era difficile, avevo migliaia di pensieri per la testa, migliaia di immagini che si affollavano le une sulle altre senza lasciare che nessuna prevalesse sull’altra. Finché non la vidi.
Una ragazza dal viso grazioso, alta e sorridente, con un cappellino da baseball marrone sul capo. Mi guardava, sorrideva.
Esplosi.
“Emily!” strillai.
Le corsi incontro, trascinandomi dietro i bagagli e li gettai tutti a terra un attimo prima di abbracciarla, con tanto slancio che si sbilanciò indietro facendo cadere il cappello.
“Oh, mi sei mancata da impazzire!” le confidai, stringendola forte, ad occhi chiusi.
Ero a casa, a casa!, finalmente!
“Anche tu” ricambiò l’abbraccio.
 
 

 

In der Ecke - Nell'angolo:
(*) Paramore – The only exception

Ciao a tutte! Eccomi che torno, accolgo con piacere i vari ortaggi in faccia!
Anche questa volta vi ho fatto attendere un mese (sempre che ci sia ancora qualcuno ad attendere), ma è inutile dirvi che la colpa è della scuola. I professori spiegano decine e decine di pagine ogni giorno, con la scusa che quest'anno abbiamo un trimestre e un pentamestre, e quindi per la prima parte dell'anno meno tempo per dare/ricevere voti. Vabbè, vabbè, vabbè.
Questa volta mi sono corretta il capitolo da sola, spero di non aver fatto troppi disastri (la mia beta ora ha una vita sociale °A° ).
Va beeeeene. Allora. Questo capitolo è tutto un flashback, più o meno. Non è il massimo, ma l'ho riscritto due volte, perché non mi soddisfaceva. Questa seconda versione mi soddisfa un po' di più, è un po' più densa della precedente. Sto già lavorando al prossimo, sperando di riuscire a postarlo entro un secolo, zigzagando tra tutte le verifiche e interrogazioni varie. 
Grazie a tutte voi che mi seguite! :D
Spero di riuscire a farmi viva presto!

  
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