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Autore: mina_s    06/07/2006    5 recensioni
"Gli uomini mi possono anche punire, possono impiccarmi, bruciarmi, torturarmi. Ma come può Dio punirmi per quel che sono, se è stato lui a crearmi così?" Fanfic divisa in sole due parti. Rating PG13, anche se non penso sia adatta ai minori di 14 per la presenza di tematiche omosessuali e alcune parolacce.
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Don’t be afraid of God

Parte I

 

“Non dovreste fumare il tabacco in così grande quantità, tenente.”

La persona a cui era indirizzata la frase non si mosse né parlò, insofferente al consiglio ricevuto dall’amico; da quello che era qualcosa in più che un amico, in realtà.

Si tolse la pipa dalla bocca e guardò per qualche istante il fumo che, dalle sue labbra, si mescolava all’aria notturna e si condensava in essa, pensando che anche lui avrebbe voluto, delle volte, volatilizzarsi in quello stesso modo, e volare via, da qualche parte, dove sarebbe stato da solo… O meglio, solo con lui.

Si voltò lentamente, prendendo un’altra boccata.

Aveva l’aria quasi assente, del tutto disinteressata, ma per chi lo conosceva bene, bene come James, quello sguardo significava qualcosa in più.

Era rassegnazione.

“Vorrei che mi spiegaste il motivo per cui mi avete mandato a chiamare qui a quest’ora, signore.” Disse, osservando alcune sciabole sostenute con dei cardini alla parete, non volendosi prendere il disturbo di guardare in faccia il commodoro.

James trasalì. Estrasse l’orologio d’oro che custodiva in una tasca interna della casacca, e sussultò nel vedere che erano all’incirca le tre di notte.

Il tempo passava in fretta, e lui avrebbe voluto rimandare all’infinito quella conversazione e le sue spiegazioni, ma doveva farlo. Doveva parlare a Edward, o non si sarebbe mai tolto quel peso che gli stringeva lo stomaco da ormai troppo tempo.

Intanto l’altro aspettava ancora una risposta e aveva cominciato a battere nervosamente la scarpa sul pavimento, come segno di impazienza.

“Signore,” iniziò, avvicinandosi a passi ponderati verso un muro dove erano appesi dei piccoli quadri di un pittore fiammingo e iniziando ad osservarli “ammetto che l’aria serale giova alquanto al mio spirito, ma vorrei solo informarvi che, visto che ho a disposizione all’incirca cinque ore la notte per dormire, vorrei approfittarne, invece di stare qui a-“

“Edward…”

Il tenente trattenne il fiato e appoggiò il mento su una spalla, come se volesse guardare dietro di sé, cosa che non fece.

Per qualche istante regnò un silenzio a dir poco imbarazzato. Era da molto tempo che i due non si chiamavano per nome, e ora che il commodoro gli si era rivolto con il suo nome di battesimo, a Edward riaffiorarono molti ricordi nella mente.

Ricordi dolorosi, sebbene gli riportassero momenti felici, che lui si era deciso tuttavia a dimenticare, per una ragione che conoscevano entrambi bene.

Socchiuse per un attimo le palpebre, facendo un respiro profondo, poi tornò alla contemplazione dei quadri.

“Che cosa volete da me, commodoro?” chiese, ancora più freddamente del solito, aspirando nervosamente il tabacco dalla pipa, quasi come se fumare avrebbe risolto al più presto tutto quanto, quasi come se il tabacco potesse farlo tranquillizzare.

Il commodoro, vedendolo così, iniziò a contorcersi le mani dietro la schiena. Già sarebbe stato difficile intraprendere quella discussione, e il tenente non gli stava di certo facilitando le cose.

Non si era aspettato, in ogni caso, grande cordialità da Gillette, dopo quello che era successo fra loro.

Era stato un ipocrita, un egoista, aveva messo da parte l’amore-sincero e fedele- della persona che amava per potersi guadagnare un posto in paradiso e la figura di buon marito e padre, e per evitare la forca.

Ma ora tutto questo, di fronte allo stato d’animo del solo per cui avrebbe dato la vita, gli sembrava futile come un pezzo di carta che vaga nel fango.

“Edward…”iniziò, con la voce che gli tremava come non mai.

Tenente.” Lo corresse l’altro.

“Tenente,” si corresse subito Norrington, anche se un po’ deluso dalla freddezza di Gillette “vi ho mandato a chiamare dal momento che ci tenevo a mettere in chiaro alcune questioni alquanto private, e che sono rimaste in sospeso negli ultimi tempi.”

James riprese fiato, attendendo ansioso la reazione dell’altro.

Edward si voltò, con un sorriso sarcastico impresso sulle labbra. Era divertito dalla formalità delle parole del commodoro, delle stesso uomo che un tempo gli scriveva lettere così dolci e armoniose che avrebbero potuto perfino sciogliere il cuore di un bifolco di montagna.

I tempi, però, erano molto cambiati, come le relazioni fra loro due.

“Sentiamo.” Disse, con un tono stranamente sereno, anche se le sue considerazioni su James erano tutt’altro che felici.

Falso, falso e bastardo.

Norrington iniziò a sbattere le labbra, senza riuscire nemmeno a balbettare qualcosa.

Lo sguardo di Gillette, così divertito, e allo stesso tempo così deluso e accusatorio, gli aveva bloccato il respiro, e gli sembrava di essere inchiodato al muro da dei coltelli infilzati attorno le gambe e le braccia, che non gli lasciavano la minima libertà di movimento.

Non sapeva da dove iniziare, poiché erano davvero tante le cose che gli avrebbe voluto dire, e si pentì di averlo chiamato nel suo ufficio.

“Tenente, io…” deglutì, prima di continuare “so di non essere stato per nulla corretto nei vostri confronti. A dirla tutta, la mia condotta è stata da ipocrita, da egoista, ho pensato solo ai miei interessi e non mi sono minimamente curato dei vostri sentimenti, e…”

Non sapendo cos’altro dire al momento, alzò gli occhi verso Edward. Quest’ultimo aveva un angolo della bocca arricciato e le braccia incrociate al petto. La sua espressione, da quando aveva allontanato lo sguardo da lui, era del tutto cambiata, eppure ancora lo spaventava, lo faceva sentire insicuro e in colpa, e gli faceva ricordare quanto aveva fatto soffrire il suo tenente.

Sentendosi tremare le ginocchia, Norrington si disse che quelle stronzate non sarebbero servite a nulla, e che era meglio mettere da parte le formalità.

“Edward, ti prego, perdonami, sono stato davvero un bastardo." Lo supplicò, quasi come un bambino disperato che implora il padre di smetterla con le bastonate.

Gradualmente, quel sorrisetto ricomparve sulle labbra di Gillette, mentre le sue spalle iniziavano a sobbalzare e il tenente scoppiava a ridere.

Norrington corrugò la fronte. Non capiva il motivo di quella risata. Non credeva che le sue parole fossero divertenti.

“Non sei stato corretto nei miei confronti?”disse, canzonando le parole del commodoro. “Porca puttana, James, non mi avevi neanche informato della tua proposta a Elizabeth!”

Edward aveva notevolmente alzato il tono di voce, e a Norrington sembrò quasi che le pareti tremassero a causa di quelle parole rabbiose. Di certo, il suo cuore aveva tremato parecchio.

“Te l’avrei detto…” tentò di difendersi, ma sapeva che quella sarebbe stata una barriera che non l’avrebbe potuto difendere dalle accuse del tenente.

Perché il fatto era che Gillette aveva dannatamente ragione.

“Quando?!” fece l’altro, che nel frattempo aveva iniziato a camminare nervosamente su e giù per la stanza. “Il giorno del vostro matrimonio? O il giorno in cui sarebbe nato il tuo primo figlio? Ma vaffanculo!” ringhiò, facendo un gesto con le braccia, quasi come se volesse far volare in aria i mobili della camera.

Il commodoro iniziò a respirare affannosamente; gli sembrava che Gillette gli facesse mancare l’ossigeno a ogni singola parola.

Il tenente sapeva colpire esattamente nel segno quando voleva, per questo alcuni lo consideravano addirittura sadico, ma questa volta Norrington sapeva di meritarsi tutto, il che era ancora peggio, perché non avrebbe potuto ribattere in nessun modo.

Serrò le labbra e attese, attese che gli venisse in mente qualcosa di adeguato a rispondere, ma la sua mente era concentrata su Edward che imprecava e borbottava per la stanza, impedendogli di ritornare lucido.

“Già, James, hai ragione: sei stato veramente un gran bastardo.”concluse, ritornando alla finestra che dava sulla baia. “Ma la colpa più grande è mia, che continuo ad amare questo figlio di buona donna.”

Norrington percepì qualcosa di diverso nella voce dell’altro. Non era più rabbiosa e piena di rancore, c’era solo tristezza… e pietà.

Sentì il tenente che tirava su col naso. Forse stava piangendo.

Anche a James, in effetti, stavano cominciando a bruciare gli occhi, quasi come se qualcuno ci avesse versato dell’olio bollente sopra, ma si rifiutava di lacrimare.

Non aveva pianto quando, qualche anno prima, era morto suo padre, come non avrebbe pianto adesso, che l’uomo che amava lo stava respingendo.

Disperato, raggiunse da dietro le spalle il tenente e gli mise le mani sulla schiena, tentando di abbracciarlo, tentando di addolcirlo con quella tecnica che una volta usavano entrambi sempre l’uno sull’altro.

“Edward…”

“Non mi toccare.” Lo respinse subito l’altro, allontanandosi da lui, senza smettere di fissarlo negli occhi. I suoi erano gonfi e, così grandi e luminosi, erano più dolci del solito, pensò James.

“Dì un po’,” iniziò l’altro, versandosi dell’altro tabacco nella pipa “è iniziato tutto il giorno della messa, vero?”

Norrington abbassò le palpebre e lo sguardo, ripensando a quel giorno in cui era cambiato tutto.

A loro non capitava spesso di assistere alla messa, non tanto per il fatto che Gillette, essendo irlandese, era cattolico, ma semplicemente perché non ne avevano l’interesse e preferivano una preghiera solitaria, in silenzio, piuttosto che la predica del pastore.

E avevano scelto proprio quel giorno per andare in chiesa assieme agli abitanti di Port Royal.

Quel giorno, in cui il pastore aveva scelto di predicare il sacro dovere della famiglia e il peccato della sodomia, fu come se il cuore di James fosse stato svuotato del suo amore e della felicità e al suo posto si fossero aggiunte paura e vergogna.

Durante la predica, lui e Gillette si erano guardati, non sapendo bene cosa trasmettersi con lo sguardo; l’attimo dopo, quando Norrington ebbe voltato lo sguardo in direzione della schiena dell’uomo che gli sedeva di fronte, l’altro gli aveva preso la mano, di nascosto, fra la sua, come per dirgli che niente doveva cambiare fra di loro, che l’amore, sia fra un uomo e una donna sia fra due uomini, era comunque e sempre sacro.

Lui voleva credere al suo uomo, eppure, tutto a un tratto, ebbe paura di Dio e della sua collera, della forca e dell’inferno.

Gli comparve un’orrenda visione.

Edward che penzolava per il collo sul patibolo, e di fianco stava lui, nella stessa posizione, mentre tutti gli abitanti della cittadina osservavano i loro corpi da sodomiti venire mossi dalla brezza mattutina…

Lo aveva colto il panico ed ebbe l’impulso di vomitare in quell’istante la colazione; tuttavia, anziché ridurre in miseria la casacca dell’uomo di fronte, aveva stretto ancora di più la mano del tenente.

Da quel giorno, la sua coscienza fece si che James si comportasse in modo diverso.

Quando poteva, evitava Edward, e si inventava delle scuse talmente idiote per rimandare i loro incontri che solo il suo uomo, a causa del sentimento forte che provava per lui, avrebbe potuto credergli.

E Gillette gli credeva sempre, e sempre gli rivolgeva un sorriso, attribuendo quello strano di scostamento alla tensione dovuta all’imminente promozione di Norrington.

James, nel frattempo, passava intere notti in bianco, continuando a camminare per la sua stanza, buttandosi a letto, pregando, bevendo, vomitando, facendo incubi orribili…

Amava il suo Edward, eppure le parole del pastore avevano lasciato nel suo spirito un segno troppo profondo perché lo si potesse cancellare.

Non voleva vedere né se stesso né tantomeno il suo tenente al patibolo, come non voleva che finissero agli inferi… però, almeno, sarebbero stati insieme, nella vita come nella morte.

E tuttavia aveva paura.

Poi era giunta l’illuminazione: un matrimonio. Ah, sì, quello avrebbe sistemato tutto. Avrebbe sposato una brava donna che gli avrebbe dato dei bambini, e la sua natura sarebbe rimasta nascosta.

E chi poteva essere una moglie migliore per lui, se non Elizabeth Swann, che conosceva da otto anni e che aveva visto crescere? La sua natura non gli permetteva di amarla come un marito, ma almeno avrebbe avuto una buona compagna al suo fianco.

Si era proposto, lei aveva accettato, eppure James aveva fatto un enorme sbaglio: Gillette.

Se n’era dimenticato. O, meglio, non lo aveva preso in considerazione.

Lo amava, lo amava immensamente, ma c’erano in gioco le loro esistenze.

Aveva creduto, in un momento di pura follia, di fare la cosa più giusta per entrambi, e se n’era pentito amaramente quando Elizabeth aveva accettato la sua proposta quel giorno, sulla Dauntless, quando avevano appena salvato lei e Sparrow dall’isola.

Soltanto in quel momento Gillette era venuto a conoscenza dei fatti, e il suo cuore, in pochi attimi, si era pietrificato.

Era rimasto immobile sulle scale, poco più in alto di Norrington e, da un’espressione esterrefatta e disperata, ne aveva assunta una seria e composta, anche se James era riuscito a leggere la rabbia, la delusione e la gelosia nei suoi occhi.

Da quel giorno non si erano più parlati, se non per dare e ricevere ordini; Edward evitava di incrociare lo sguardo dell’altro, quasi come se James fosse Medusa in persona, e quest’ultimo tentava inutilmente di richiamare la sua attenzione con qualche occhiata. Ma Gillette era rimasto impassibile.

Norrington lo aveva ferito. Sapeva che, probabilmente, prima o poi si sarebbe dovuto sposare, ma non avrebbe mai immaginato che il suo James gli avesse potuto tenere nascosti i suoi veri sentimenti.

Cosa ci faceva lui al suo fianco, se non poteva ascoltarlo, consolarlo, amarlo?

Anche se Elizabeth in seguito lo aveva rifiutato, rompendo le speranze di Norrington e accrescendo l’odio di Gillette nei confronti della ragazza, le cose non erano cambiate, e i due avevano continuato a comportarsi come se non si conoscessero affatto.

Il commodoro deglutì, tornando al presente.

“Beh… sì, se proprio vuoi saperlo. Ho avuto paura.”

Gillette lo guardò con un’espressione così sconvolta che sembrò che James avesse detto chissà quale blasfemia.

“Paura?!” chiese, di nuovo vicino al confine che separa tono civile e incivile. “Paura di cosa? Cosa diavolo ti ha spaventato così tanto da trattarmi come il primo idiota che ti è capitato davanti?”

“Non volevo, Edward!” il commodoro stava quasi piagnucolando come una ragazzina. “Ma quelle parole del pastore… sulla sodomia, sul peccato… sull’inferno… Ho avuto seriamente paura per noi due.” Norrington fece qualche passo verso il tenente, con l’idea di abbracciarlo, ma poi si disse che non avrebbe ricevuto altro che un ulteriore rifiuto, e rimase dov’era, fissando quello che si chiedeva se fosse ancora il suo uomo, negli occhi.

“Se ti facessero del male…io…ne morirei. Volevo solo proteggerti.”

“Ho una notizia fresca per te: non sono una donna, ergo, non ho bisogno di protezione.” Rispose l’altro, freddo e duro come il ferro.

“Ma io ti amo!” replicò il commodoro, a gran voce.

Edward fissò l’altro per qualche istante, incerto su che cosa dire.

Le parole di James, sebbene le avesse dette a lui più di una volta, lo colpirono profondamente

Gli sembrò quasi di capirlo. Ma non poteva perdonarlo.

“Ti amo anch’io.” Disse, con voce assurdamente tranquilla. Per un attimo, sembrava che stesse per fare un sorriso, questa volta sincero, però si volatilizzò tutto con la frase che seguì: “E me ne pento.”

Norrington trattenne il fiato, leggermente ferito da quelle parole, anche se sapeva che l’altro aveva tutte le ragioni del mondo per odiarlo.

Detto ciò, il tenente si avviò verso la porta, con il suo passo deciso.

Il commodoro andò in panico. Non avevano ancora finito, non poteva andarsene.

“E ora dove vai?”chiese, seguendolo con gli occhi.

“Non abbiamo nient’altro da dirci, signore.”

Aveva già una mano appoggiata sulla maniglia quando l’altro, in preda a un’emozione a cui non avrebbe saputo dare un nome, si rivoltò.

“Sì, invece.” Disse, afferrando Gillette per un braccio e facendo voltare il tenente verso la sua direzione.

Il secondo dopo lo aveva già avvinghiato fra le sue braccia, e lo baciava teneramente.

Edward tentò di liberarsi da quella presa convulsa dimenandosi come un animale in una rete ma, dopo un paio di tentativi falliti, si lasciò cullare da quelle labbra, dimenticando tutto il suo rancore.

Quando Norrington staccò la bocca dalla sua, Edward non osò guardarlo in faccia, per paura di poter cedere.

Abbassò gli occhi sulla cravatta dell’altro, deciso a non mollare. Un bacio, per quanto bello, non avrebbe sciolto il suo cuore.

“Gli uomini mi possono anche punire,” iniziò, quasi bisbigliando, con l’aria di chi ne sa molto sull’argomento ”possono impiccarmi, bruciarmi, torturarmi. Ma come può Dio punirmi per quel che sono, se è stato lui a crearmi così?”

Detto ciò, scostò James da parte e tornò a guardare il mare, la sola cosa di cui pensava di potersi fidare.

L’altro, esitando, gli si fece di fianco, avendo paura della sua reazione. Appoggiò le mani tremanti sul parapetto e fissò a lungo e in silenzio Edward, tentando di trovare qualche indizio che gli dimostrasse lo stato d’animo del tenente.

Notò che quest’ultimo si passava la manica della casacca sulla guancia e che tirava su col naso più spesso. Nonostante questo, appariva del tutto tranquillo.

Era la prima volta che lo vedeva piangere. Avrebbe voluto fare qualcosa, consolarlo, prenderlo fra le sue braccia, ma sapeva bene che Gillette non glielo avrebbe permesso.

Quest’ultimo fece un lungo sospiro e alzò la testa in direzione della luna.

“Per una volta,” iniziò, con una voce tremante ma allo stesso tempo controllata e fredda “per una fottuta volta, sii sincero, James.”

Norrington lo guardò preoccupato, non sapendo esattamente cosa volesse il tenente da lui.

“Ammettilo che ti vergogni di me!”

Perdendo completamente il controllo, il commodoro lo afferrò per il risvolto della casacca e avvicinò il suo volto a quello dell’altro. “Come puoi dire una cosa del genere?” sibilò, con gli occhi che mandavano scintille.

Quello, quello non avrebbe dovuto dirlo.

“No,” iniziò l’altro, levando con uno strattone la mano di James dalla casacca “hai ragione, ritiro quello che ho detto. Tu ti vergogni di te stesso.” Disse, serrando le labbra e ricambiando lo sguardo.

Per un attimo, Norrington si sentì mancare e dovette di nuovo appoggiarsi al parapetto. La testa gli girava e la vista gli si era annebbiata. Deglutì, tentando di calmarsi.

“Edward,” iniziò, implorando come prima “mi dispiace, io non sono forte come te.”

Le sue emozioni si impadronirono di lui e iniziò a singhiozzare, liberando finalmente le lacrime dai suoi occhi, maledicendo se stesso per la sua debolezza d’animo.

Sorreggendosi la fronte con una mano, continuò a piangere, mentre i singulti gli impedivano di respirare normalmente.

Non sapeva se stava piangendo per essere quel che è, per il rifiuto di Elizabeth, per la sua dimostrazione di debolezza… o perché aveva tradito la fiducia dell’uomo che amava e ora lo stava perdendo.

Sentì i passi di Gillette; il tenente si stava dirigendo verso la porta. La consapevolezza dell’abbandono definitivo di Edward non fece altro che aumentare la sua disperazione, ma si sentì stranamente sollevato quando percepì il calore delle braccia del tenente attorno al suo corpo.

  
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