Anime & Manga > D.Gray Man
Ricorda la storia  |      
Autore: Rota    06/11/2011    2 recensioni
Tuoni e lampi illuminavano nuvole nere gonfie di pioggia.
Grandine bianca si stava ingrossando tra le gocce che cadevano lungo il cemento del muro, rendendo il ticchettio sempre più forte e sempre più molesto. Infuriava una tempesta di vento che innalzava le onde del fiume sotto il dirupo e creava boati lungo le pareti rocciose del crepaccio.
Sokaro aveva gli occhi chiusi e il viso rivolto in alto, al nulla. Sentiva tutto questo sulla pelle come un grido che la Natura dedicava alla sua nuova libertà. Aprì le labbra per lasciare scivolare l'acqua gelida sulla lingua, assaporando quello che gli era stato precluso da mesi e mesi di prigionia – da quando lo avevano catturato e portato lì non era più riuscito a sentire l'odore del vento.
Dietro le sue spalle il Carcere era ancora in fermento. La falla che si era aperta nel versante Nord non era stata chiusa e molti carcerati erano sciamati fuori, alla ricerca di un'altra possibilità. In quel posto nessuno avrebbe voluto vivere gli ultimi giorni della propria vita, questo era certo. Molti di loro erano assassini, truffatori, dissidenti politici dalle gravi colpe, uomini che avevano firmato col sangue la propria condanna a morte e di cui la Giustizia Umana non aveva voluto aver la minima pietà.
Come lui, Sokaro Winters – alle spalle, le morti di un'intera Rivoluzione che ancora non aveva trovato pace nelle terre gloriose degli antichi Maya.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio , Marian Cross, Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'Every little thing'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
l'oro dei maya *Autore: Rota
*Titolo: L'oro dei Maya
*Fandom: D Gray Man
*Personaggi: Sokaro Winter, OC/Nuovo Personaggio, Marian Cross
*Genere: Introspettivo, Drammatico
*Avvertimenti: AU, One shot, What if...?, Linguaggio!
*Credits: Tutti i personaggi ivi descritti e mossi non appartengono alla sottoscritta ma alla mente assai brillante di Katsura Hoshino. Io non ricavo altro che immane soddisfazione dalla pubblicazione di questa opera (L)
Inoltre, la lyrics presente nel testo appartiene a "La chacarilla", un canto popolare boliviano
*Note iniziali: Ho in mente una serie di fanfic su Sokaro, serie che parte proprio da questa storia dedicata al suo background. Cosa sappiamo di Sokaro? Che è Messicano, che è un ex- condannato a morte e basta. Bene, io ho preso queste informazioni e le ho usate per la mia storia.
Non c'è Innocence, non ci sono Esorcisti e non ci sono Akuma. Ho però cercato di rendere al meglio questo personaggio che io adoro, integrando le informazioni che avevo con la mia personale interpretazione delle cose. L'ambientazione è circa dopo la Rivoluzione Messicana, diciamo nel primo dopo guerra – sul finire degli anni trenta del 1900. Giusto per.
Sappiate che i miei due protagonisti sono due pazzi, fanno cose da pazzi e dicono cose da pazzi. Certo, mantengono una certa ragione, ma sicuramente fanno molte cose al limite dell'umana comprensione. Non dico questo per giustificare ogni incongruenza – che spero non ci sia - ma per far capire meglio alcuni passaggi.
Tecnicamente, Sokaro dovrebbe avere all'incirca vent'anni. Sì, perché sennò quando incontra Allen è un vecchietto assurdo, ecco (L)
Detto questo, buona lettura (L)





L'oro dei Maya





Tuoni e lampi illuminavano nuvole nere gonfie di pioggia.
Grandine bianca si stava ingrossando tra le gocce che cadevano lungo il cemento del muro, rendendo il ticchettio sempre più forte e sempre più molesto. Infuriava una tempesta di vento che innalzava le onde del fiume sotto il dirupo e creava boati lungo le pareti rocciose del crepaccio.
Sokaro aveva gli occhi chiusi e il viso rivolto in alto, al nulla. Sentiva tutto questo sulla pelle come un grido che la Natura dedicava alla sua nuova libertà. Aprì le labbra per lasciare scivolare l'acqua gelida sulla lingua, assaporando quello che gli era stato precluso da mesi e mesi di prigionia – da quando lo avevano catturato e portato lì non era più riuscito a sentire l'odore del vento.
Dietro le sue spalle il Carcere era ancora in fermento. La falla che si era aperta nel versante Nord non era stata chiusa e molti carcerati erano sciamati fuori, alla ricerca di un'altra possibilità. In quel posto nessuno avrebbe voluto vivere gli ultimi giorni della propria vita, questo era certo. Molti di loro erano assassini, truffatori, dissidenti politici dalle gravi colpe, uomini che avevano firmato col sangue la propria condanna a morte e di cui la Giustizia Umana non aveva voluto aver la minima pietà.
Come lui, Sokaro Winters – alle spalle, le morti di un'intera Rivoluzione che ancora non aveva trovato pace nelle terre gloriose degli antichi Maya.
Avanzò di un passo, aprendo gli occhi e guardando di sotto. Un boato e un'alta onda bagnarono ancora di più l'aria, ruggendo con ferocia. Sapeva che là sotto, nel ventre panciuto dei pesci, giacevano i resti dei condannati come lui, la cui testa era rotolata mozzata per la mano impietosa di qualche boia particolarmente zelante. Sorrise ruggendo anch'egli e aprì le braccia al vento, come un uccello goliardico. Un tuono gli rispose assieme a una voce sottile che per qualche oscura ragione riusciva a farsi valere al di sopra di ogni turbine d'aria.
-Allora non ti butti?-
Sokaro si voltò di scatto, guardando con aria estremamente torva il malcapitato che aveva avuto l'ardire di interrompere quel momento particolare. Quando si rese conto di chi fosse gli sorrise con la sua solita aria arrogante e quel ghigno che tanto lo faceva sembrare un animale soddisfatto ma pronto al balzo.
Il giovane uomo – boliviano, se non si ricordava male – lo guardava senza accennare la minima paura. Era un suo simile: aveva gli stessi occhi folli di chi conosce perfettamente la Morte ma non ne ha un timore normale.
Rise, urlando nella tempesta.
-Non stavo aspettando certo il primo stronzo per farlo!-
L'altro nel sorridere gli si avvicinò, guardando il dirupo che sprofondava sotto i loro piedi. C'era soltanto la schiuma chiara dell'increspatura violenta dell'acqua e il riflesso abbagliante dei fulmini di tanto in tanto oltre a un nero soffocante. Se c'era una via pericolosa per inseguire di nuovo la libertà, sicuramente quella lo era a pieno diritto.
Eppure, con uno certo sforzo, sentiva gli schioppi dei fucili delle guardie che inseguivano quei disgraziati che erano corsi come ossessi oltre le mura, cercando sulla terra una via. Immaginava anche i cadaveri di tanti compagni di cella sparsi nel fango, dove il sangue si mescolava alla pioggia e la vita scivolava via proprio quando sembrava così facilmente conquistata di nuovo.
Con ogni probabilità, Sokaro aveva visto giusto – nel suo inseguire la vita con l'ardore di un moribondo e la forza di un disperato: non aveva altro scopo che quello – l'unica vera strada era quella più vicina alla Morte stessa.
Sokaro gli si fece in parte, sovrastandolo con la sua altezza spropositata. Lui certo non era da meno e guardò con una certa sufficienza le onde che quasi lo raggiungevano, di sotto.
-Tu non sopravviveresti dopo un balzo simile!-
I capelli sospinti dal vento gli andarono sulla faccia, creando una sorta di maschera mostruosa, ma il Boliviano non parve risentirne minimamente così come la sua voce calma e tranquilla.
-Se riuscirai a farlo, suonerò per te...-
Sokaro rise ancora, allargando bene le braccia. Non sentiva musica da anni se non quella dei propri avversari che chiedevano pietà lacrimando e gemendo – e per lui non c'era mai stata musica più bella di quella.
-Sai quanto me ne frega della tua musica di merda!-
Il Boliviano non lo guardò neppure e dondolò proprio al limite del cemento del muro. Anche lui allargò le braccia, portandole in alto, e per un istante parve quasi cadere giù. Poi ballò indietro e si affiancò al gigante del Messico.
-Dici così perché non l'hai mai ascoltata. Posso scommettere che ti piacerà...-
Sokaro rise ancora, schernendolo con un ghigno e un gesto volgare della mano.
-Cosa vuoi scommettere, pidocchio?-
Il Brasiliano sorrise, prendendo la rincorsa.
-La vita...-
Qualche istante dopo, entrambi erano stati inghiottiti da flussi neri d'acqua furiosa.


*******************************


Su e giù, la bocca di Winters Sokaro si riempiva di acqua sporca e se ne svuotava subito dopo, in un'altalena sempre più faticosa e sempre meno frequente. Il limite tra l'asciutto e il bagnato non sembrava neppure così netto e i movimenti sconnessi del suo avanzare incerto rendevano difficile la respirazione ovunque si trovassero naso o labbra. La temperatura non aiutava ad orientarsi: ovunque era freddo e non c'erano zone differenti le une dalle altre.
Sokaro si mosse come un pesce a cui mancava una pinna, più per istinto che per altra cosa.
Mai si era ritrovato a fare i conti con una situazione come quella. Sentiva l'aria mancare nei polmoni, il corpo farsi sempre più pesante e la mente sempre meno presente.
Si guardò attorno ma niente vide: né la luce riflessa di qualche astro né il movimento lontano di qualche essere vivente, perché era tutto così confuso nella tempesta che ancora ingrossava il cielo che niente pareva essere abbastanza sicuro.
Sokaro si mosse ancora, cercando un singolo punto di riferimento che lo aiutasse a dirigere il proprio corpo e la propria speranza. Non riuscì neppure a riconoscere dove fossero le pareti del dirupo da cui si era buttato.
Sapeva di essere stato sbattuto come uno straccio per diverso tempo. La testa gli doleva e a malapena riusciva a muovere la gamba sinistra che come un peso morto stava minacciando di trascinarlo giù, in un posto ancora più buio.
Avesse potuto, se la sarebbe strappata volentieri a morsi.
Non sapeva però dire quanto tempo aveva passato in acqua, cercando di galleggiare come un pezzo di legno non troppo marcio, collidendo contro pareti dure di pietra o semplicemente onde troppo forti per essere divise.
Un getto d'acqua lo capovolse con la testa sotto, lui allargò le braccia per riprendere l'equilibrio ma si trovò a rotolare nei fluttui. Il suo braccio cozzò con forza contro qualcosa di duro, spiegando l'arto e facendo dolere l'intero organismo – ma prima che fosse tardi Sokaro si assicurò al masso e riuscì finalmente a fermarsi.
Riemerse dall'acqua, facendo perno sulla pietra che lo aveva appena salvato. Riprese fiato a fatica e sputò tutta l'acqua che gli era finita dentro. Riuscì a guardarsi attorno e a vedere meglio. Alla sua destra il Boliviano lo guardava da un'insenatura della parete rocciosa, al sicuro dall'acqua e dal forte vento.
A qualche metro di distanza da lui.
Sokaro non dovette neppure pensare al da farsi, in quel frangente.


***********************************


Il flauto cominciò il suo movimento – di lato, ancora di lato nel verso opposto, una pausa in mezzo e poi di nuovo.
Nel buio della caverna, il suono pareva riempire ogni cosa. Rimbalzava sulle pareti, si ampliava in un frastuono tanto da sembrare un'orchestra in festa, viva com'erano vivi loro.
Ogni tanto il Boliviano staccava lo strumento dalle labbra e cantava anche, mimando un ballo strano tutt'attorno a Sokaro, come se fosse un rosso fuoco.
Il giovane uomo non diceva proprio nulla ma a occhi chiusi respirava ancora l'odore della pioggia.
In quel tutto, pareva di sentire voci allegre di gente che ballava e la gioia di una remota vita dimenticata in qualche villaggio costruito di paglia e di fango – come il suo, con quel profumo tipico dell'impotenza e della povertà.
Ma i malanni di una vita vagabonda non erano contemplati nel quadretto e Sokaro non si lamentò quando il Boliviano tornò a cantare con la sua voce un poco stridula note calde di passato.
Gli sembrava d'essere tornato a respirare dopo tanto tempo.


La chacarilla boliviana
de la nación que es muy hermana
quizás me quede para siempre
o retornaré yo mañana.(*)


********************************


Il Sole splendeva tra nuvole bianche e un nuovo giorno illuminava la valle in ogni suo angolo.
Risalita la parete del dirupo, Sokaro e il Boliviano si incamminarono verso Sud, usando come unico riferimento l'astro più luminoso di tutti. Senza un motivo ben preciso.
Il Carcere di detenzione da cui erano fuggiti era isolato da ogni centro abitato: qualsiasi fosse stata la direzione presa non avrebbe fatto la minima differenza ed entrambi lo sapevano. Quindi il Sud pareva una buona scelta, perché era dove il sole splendeva con più forza e più vitalità – dove attuava la sua prova di forza ultima.
-Cosa hai fatto al Mondo per guadagnarti il suo odio?-
Il Boliviano non stava mai fermo, era come un ragazzino eccitato che scalpitava perché felice per la gita appena intrapresa. Era buffo considerando il luogo da dove veniva.
Eppure, proprio come un bambino, aveva una schiettezza d'intenti e di parole per cui era impossibile sfuggirgli senza entrare prepotentemente in torto. A Sokaro poco importava questo ma era anche vero che non gliene fregava assolutamente nulla del giudizio di un pidocchio come quello – per cui, senza paura, la sincerità era anche lesta a rivelarsi nuda. O forse, semplicemente, lasciò parlare la brutalità al suo posto.
-Ho ucciso mio padre, mia madre e il bambino che si portava in grembo!-
Non aveva il minimo rimorso nella voce, non pareva rattristato dal crimine né aveva il minimo sentore di pentimento. Pareva, invece, sul punto di ridere come un pazzo.
Il Boliviano parve capirlo e infatti gli saltellò appresso, di fianco.
Sokaro lo guardò di traverso, cercando di convincersi che ucciderlo sarebbe stato più disonorevole che una vera e propria fatica. D'altra parte, lui aveva perso la scommessa e ora doveva ascoltare sia la sua musica che le sue parole.
Per questo gli ringhiò contro, sogghignando in maniera poco carina.
-E invece tu cosa hai fatto? Chi hai ucciso?-
L'altro fece una capovolta – il suo flauto era stato messo al sicuro in una piega del vestito sgualcito che indossava – e tornò a sorridergli, assorto.
Il colore scuro della sua pelle dava un tono di morbidezza alla sua figura, sotto quel sole calmo e riposato. Accerchiato da quella vegetazione così rada e poco verde, si trovava una piccola oasi nei suoi occhi scuri di pece.
Ed era un'oasi estremamente buia e profonda.
-Donne. Amanti. Signore.-
Ancora una capriola con la quale gli si piazzò davanti e lo bloccò, obbligandolo a guardarlo bene in faccia.
-Persone che ho amato...-
Sokaro lo prese molto sgarbatamente per le spalle e lo spostò, continuando a camminare come se nulla fosse. Era fragile e leggero, come una piuma bianca al vento. Non che questa cosa avesse poi così importanza ma non avere resistenza da vincere era qualcosa che irritava profondamente Sokaro – fin nelle viscere.
Il suono delle ossa che si spezzavano, così come la sensazione sotto le dita, cominciava a mancargli troppo.
-Quante ne hai uccise prima che ti catturassero?-
Il Boliviano contò, alzando le dita una a una. Sembrò esserci arrivato, ma l'attimo dopo ne aggiunse altre due. Alla fine la conta ebbe termine.
-Tredici... Un gran bel numero!-
Sokaro rise forte senza però degnarlo ancora di uno sguardo. Il Sole era ancora troppo bello per non essere fissato con tanta forza.
-Ne hai uccise tredici prima che riuscissero a fermarti?-
-Tu ti saresti fermato? Tu avresti rinunciato a cercare l'unica persona degna del tuo amore? L'unica che mai si sarebbe spezzata al tuo tocco?-
Il Boliviano sorrideva nello stringere le proprie mani al petto – forse in un gesto istintivo o forse semplicemente nel ricordo dell'ultimo delitto compiuto.
Profonda era la speranza nei suoi occhi: quell'uomo non avrebbe proprio mai rinunciato, neppure di fronte alla Morte.
E neppure Sokaro, che ora lo guardava finalmente in faccia.
-Mai! Io non avrei mai smesso di uccidere!-


************************************


Crack.
Il suono delle ossa che si rompono assomigliava a quello basso dei bongo – Sokaro lo sapeva bene, perché entrambi i suoni gli erano assai familiari.
Aveva visto la felicità spegnersi negli occhi di sua madre, giorno dopo giorno.
Aveva visto una vitalità reduce e arrogante nelle mani si suo padre, giorno dopo giorno.
Aveva visto come la tristezza di un'esistenza potesse avere connotati ancora più miseri e violenti data in mano a chi non aveva armi per vincerla e non aveva soldi per sfogarla in altro modo.
Tra le mura di una casa, erano accadute le cose peggiori che la morale non vuole fermare e la convivenza civile pacifica vuole ignorare. L'onore e una certa ragione valevano un pugnale infilato nel ventre e nessuno poteva fare nulla.
Però Sokaro si sorprese quando vennero a prenderlo – quando ci tentarono, tra le sue risa, prima di finire a terra in un lago di sangue arterioso. Perché la logica non riusciva a capirla, la logica di quegli uomini che avevano dimenticato cosa fosse la pietà quando i suoi genitori la chiedevano a gran voce e nel momento in cui c'era solo bisogno del più pio perdono si erano ricordati assurdamente la giustizia umana.
Fuori contesto – alcuni la chiamavano pazzia, semplicemente. Sokaro non poteva sopportare che in casa sua si morisse di fame, che sua madre fosse nuovamente incinta di un fratello che sarebbe morto entro qualche giorno da una nascita sfortunata e che suo padre venisse a casa ubriaco solo per picchiare entrambi.
Dal suo punto di vista, era stato solamente coerente con sé stesso.


********************************


Avevano trovato l'orto di un piccolo contadino – Sokaro e il Boliviano – e vi avevano fatto razzia senza l'obbligo d'uccidere nessuno: la gente pareva lontana dai campi abbastanza da non poterne salvaguardare tutti i confini.
Assaporare i frutti della terra raccolti con le proprie mani fu una gran cosa, per entrambi. Il Boliviano era rimasto imprigionato poco più di un anno, in attesa di un giusto giudizio che lo assegnasse o alla decapitazione o alla morte per asfisia; Sokaro aveva aspettato solamente qualche mese. Ogni cosa aveva il gusto del nuovo, come se neonati si riconsegnassero entrambi alla vita che la Natura offriva loro. Una vita che si erano guadagnati con le sole forze delle loro braccia.
Si erano fermati al ciglio di una strada battuta e dissestata, ai confini del mondo dell'uomo. Non un animale era ancora passato da quelle parti e la vegetazione tinteggiava di un verde vivace i contorni di quel quadretto.
Il Boliviano giocava con i fili d'erba, strappandoli e facendoli passare tra le dita. Pareva divertirsi molto.
Suonò anche lo stesso motivetto con cui aveva esaltato la loro fuga – e nel leggero fischio del vento la canzone sembrò più rilassata e tranquilla, senza niente che la rincorresse davvero o la incalzasse perché andasse avanti con furia.
O forse erano gli animi balordi di chi inciampa e non crede di aver la voglia di rialzarsi in corpo che la sentirono così.
Il Boliviano non era poi così stupido, alla fin fine.
-Cosa stiamo cercando?-
Sokaro sputò contro un sasso il torsolo duro di una mela, mangiando il resto ancora tra i suoi denti. Era da parecchio tempo che non mangiava qualcosa di così saporito e il fatto che l'altro giovane lo avesse interrotto proprio mentre sentiva il succo dolce del frutto passargli sulla lingua lo aveva reso davvero nervoso.
Ringhiò quasi, scorgendo dietro le spalle il suo profilo.
-C'è bisogno di una meta per iniziare un viaggio?-
Il Boliviano prese un fiorellino tra le mani, cominciando a staccarne i petali uno a uno – chissà poi cosa stava chiedendo, tra sé e sé, racchiudendo una tacita preghiera in un sospiro sfuggente.
-Sì, altrimenti non avrebbe senso chiamarlo viaggio...-
Sokaro guardò i petali chiari cadere a terra senza riuscire a staccare gli occhi dalle impietose dita dell'altro. Lui non pregava da tanto tempo, l'ultima volta che si era rivolto a Dio l'aveva fatto per poi pentirsene solamente: quel tanto misericordioso Onnipotente pareva farsi beffe di lui esattamente come tutti gli altri uomini. E allora aveva deciso che tanto valeva non credere più nelle tacite nuvole.
-Non ho casa e non ho nessuno che mi aspetta. Come posso avere una meta?-
Il Boliviano lo guardò sovrappensiero. L'ultimo petalo ancora lottava contro la brezza leggera per rimanere attaccato al suo fiore, forte e testardo.
La risposta definitiva vibrava lungo i suoi delicati fianchi e tremava assieme a lui, quasi d'incertezza. Era un sì o forse un no? Sokaro per un istante pretese di saperlo.
-Forse stiamo cercando la nostra meta?-
Il Boliviano staccò la risposta che andò semplicemente ad aggiungersi alle altre, tra la polvere – e la sua domanda trovò una tranquilla rassicurazione, che però non turbò né rassenerò la sua espressione corrucciata. Guardava Sokaro in viso e attendeva la sua risposta.
Sokaro addentò l'altro frutto che teneva tra le mani mentre volgeva lo sguardo altrove.
-Potrebbe essere davvero così...-
Anche il gambo del fiore andò perso sotto la suola della scarpa.
Tra le mani, il Boliviano ebbe di nuovo il suo flauto e lo suonò, accompagnando pensieri e infine invitando la mente al riposo.
-Allora andiamo avanti a cercare la nostra meta. Mi piace!-


************************************


Un villaggio in festa era sempre una bella cosa, a vedersi. Pieno di colori e di vita, pieno di suoni e profumi – dove due insoliti stranieri non erano mal visti e nel sorriso che rivolgevano alla gente parevano integrarsi perfettamente al contesto.
Il Boliviano ebbe modo di suonare ancora, mentre danzava con le donne del posto canzoni e balli conosciuti solo in quella terra calda.
L'odore buono dei capelli lunghi da signora impregnava la pista da ballo, ed era una cosa squisita almeno quanto lo erano gli aromi degli alcolici.
Sokaro non aveva mai avuto il vizio dell'alcool e poco si divertiva a ballare in mezzo alla gente; tuttavia, non fu per niente restio a mangiare quanto gli veniva offerto tanto gentilmente.
Cotto sotto il Sole, per due giorni aveva marciato senza sosta sopportando quel maledetto Boliviano e i suoi fischi melodici – voleva solo riempirsi la pancia il più possibile, magari fino a scoppiare. Quel villaggio era apparso tra i colli secchi di ghiaia scura quasi come un miraggio dovuto alla poca acqua in corpo. Ma poi, nell'odore del fumo e nella concretezza reale delle sue strutture, i viaggiatori avevano trovato rifugio.
Non fu un problema mescolarsi alle persone, per nessuno dei due. Non era tanto la vicinanza di carne umana a far loro scorrere più velocemente nelle vene, non avevano vissuto l'isolamento né sarebbe mai servito a loro.
La meta del loro viaggio era ancora assai lontana e non piaceva né all'uno né all'altro perdere tempo. Sarebbe stato come schiacciare un'insulsa formica, appagante quanto annegare un'ape in un bicchiere. Non era questa l'intenzione e mai si erano considerati assassini.
Una certa morale la conservavano anche loro.
Ad un certo punto il Boliviano si stancò di saltellare come un pazzo a destra e a sinistra, raggiunse Sokaro alla panca e gli si affiancò volentieri, continuando a battere il tempo con le mani e con i piedi, accompagnando il ballo di chi ancora si muoveva sulla pista.
Rideva forte, tutto contento.
Alla fine, rise tanto anche Sokaro.


*************************************


La musica accompagnò i pensieri e le menti dei due giovani uomini per quasi tutta la notte. Albeggiava lontano quando decisero di lasciare i balli per un riposo tranquillo.
Li fecero accomodare tra la paglia di una fattoria ai lati del piccolo borgo, assieme alle mucche placide e a qualche altro animale. Con una coperta, gli abitanti del luogo misero la propria coscienza a posto.
Ma ne le stelle né la Luna appena timida diedero davvero riposo a Winters, che mentre sentiva il compagno essere vinto pian piano dal sonno ancora teneva gli occhi ben aperti.
Qualche parola il Boliviano riuscì lo stesso a strappargliela.

-Cosa vedi al di là della Morte, giovane Messicano?-
-Non c'è niente al di là, solo un crepaccio nel quale buttarsi!-
-Come quando sei scappato dal Carcere? Così vedi la Morte?-
-Tu come la vedi, sentiamo!-
-Anche io la vedo così... Però io non ho paura del buio, Messicano... tu invece ne hai?-
-Non mi pare proprio!-
-Allora sei davvero un grande uomo, Messicano! Davvero grande!-

Sokaro pensò di non avere proprio niente da lasciare dietro di sé – per cui, senza rimpianti né rimorsi, avrebbe vissuto a contatto sia con l'una che con l'altra faccia della medaglia, senza concedersi totalmente alle altre ma trattenendo la maggior parte per sé stesso solamente.
Così e solamente così si sarebbe sentito davvero vivo.


*************************************


Sokaro aveva sbagliato – davvero.
Sokaro aveva abbassato troppo la guardia e aveva ancora una volta avuto troppo poco riguardo per la meschinità della natura umana. Perché lo sapeva che la viltà cede alla malizia molto spesso per raggiungere i propri scopi.
Lo sapeva bene anche il Boliviano, che con una pallottola in testa era stato sorpreso da un gruppo di uomini che cercavano proprio la sua taglia – un tozzo di pane in più, perché depredare piccoli villaggetti come quello pareva non essere poi così vantaggioso. Briganti o polizziotti che si chiamassero non faceva tanta differenza dal momento che una sola cosa facevano, entrambe le professioni. Sokaro aveva avuto solo il tempo di prendere il primo oggetto a sua disposizione e difendersi, in una dormiveglia della ragione che l'aveva portato a muoversi totalmente d'istinto.
Aveva visto di nuovo quel sangue rosso che tanto gli piaceva. Aveva ucciso perché era giusto così. Aveva trovato bellissimi i corpi che andava squarciando in quella furia.
Mentre il Boliviano agonizzava a terra, aveva inseguito gli aggressori e ne aveva uccisi quanti ne aveva potuto. Con la pistola rubata al primo, con semplicemente il rastrello che aveva preso – perché pareva tanto un mostro inarrestabile ché neanche le pallottole avevano speranza di fermare. Se ne beccò sei, due alle braccia e quattro nelle gambe, ma questo non lo fermò proprio.
Quando si era sentito il fiatone addosso, si era fermato ed era tornato indietro, a riprendersi il Boliviano o quello che ne restava. Sulla strada aveva trovato un nugulo di contadini armati di pala e di altri oggetti insanguinati, proprio davanti alla stalla dove avevano dormito.
Ne uccise uno prima di disperderli nei dintorni per non rivederli mai più. Del suo compagno non rimaneva che qualche pezzo di carne e un po' di vestiti tutti rossi.

E degli orecchini, d'oro scintillante. Proprio sopra il mucchio.


*****************************************


Sokaro sentì puzza di fumo, prima di vedere un uomo entrare nella capanna nel quale si era rinchiuso. Nessuno ci aveva fatto più ritorno, da quando si era messo a urlare come un pazzo.
Non di orrore, non di dolore, solo di pietà e di vergogna.
Aveva guardato male il nuovo arrivato e senza dire una parola aveva atteso i suoi movimenti. Non pareva intenzionato d'attaccarlo né d'avvicinarlo troppo, ma era palese che non fosse della zona.
Troppo chiara la pelle del suo viso.
Aveva l'aspetto d'essere uno di quegli uomini venuti dal Nord, come quelli che lo avevano catturato e rinchiuso al Carcere. Quelli bianchi, che si facevano chiamare Americani.
Dovette aspettare che pronunciasse qualche parola prima di capire che si stava sbagliando ancora.
-Tu sei Sokaro Winters, è così?-
Sokaro grugnì, ma non accennò risposta: non ne valeva la pena, avrebbe dovuto essere fin troppo evidente. Stava ancora studiando quell'essere, non poteva sprecarsi a farsi identificare meglio – sarebbe stato un altro errore fatale.
Ma l'uomo capì lo stesso, e gli si fece più vicino.
Si guardò attorno, per terra, notando tutto il sangue che impestava sia il suolo sia l'aria fetida del posto. Ghignò, disgustato.
-Hai fatto davvero un grande casino, Sokaro... mi hanno detto che hai ucciso un sacco di persone...-
Sokaro grugnì ancora una volta, ma assieme ai versi da animale braccato uscirono anche alcune parole confuse.
Non c'era neppure rabbia, nel suo tono. Solo la consapevolezza di far parte di un circolo vizioso che non aveva fine.
Non chiese neppure come facesse a sapere il suo nome.
-Ci hanno attaccato, io ho solamente risposto...-
-Immagino...-
L'uomo sorrise, avvicinandosi ancora di un poco. Per quanto sfuggente, Sokaro non riuscì davvero a trovarlo minaccioso – non di quel tipo che lo avrebbe fatto alzare dal suo posto e ingaggiare l'ennesimo combattimento: quella era una preda che necessitava di una lunga caccia.
-Deve essere stato difficile per te giungere fino a qui...-
Sokaro ghignò di perfidia, mettendoci tutta la cattiveria che aveva in corpo.
Ridicolo definire quello difficile. Difficile era stato invece non uccidere il Boliviano per più di tre giorni, considerando che diamine di tipo fosse.
-Ce la siamo cavata benissimo assieme!-
L'uomo lo guardò per la prima volta strano, cercando di scorgere qualcosa oltre le sue spalle – sembrava stesse tentando di trovare un vero filo logico alle sue parole, come se si sforzasse di trovarle reali ma non ci riuscisse nonostante tutti i suoi sforzi.
-Assieme... tu e chi?-
Sokaro rise tanto e si girò verso il corpo dilaniato del Boliviano. Gli orecchini li aveva già addosso, sarebbero bastati quelli per testimoniare l'esistenza dell'altro.
Ma quando lo cercò anche Sokaro, del Boliviano non era rimasta la minima traccia. Né un poco di sangue nella polvere, né alcun vestito, né un pezzo di carne tra la paglia gialla. Nulla, tranne che il ricordo lontano di qualche conversazione immersi nel profumo di un fiore di campo o nelle melodia di una musica familiare.
Sokaro cercò attorno a sé i resti di quella presenza ingombrante. Non capiva o aveva troppa fretta per farlo. Tentò anche di alzarsi, il dolore alla gamba destra lo fece solo tentennare e riuscì davvero a ergersi nella sua totale possenza – l'uomo dovette fare un passo indietro, scrutandone ogni minimo movimento.
Sokaro urlò quando si rese conto di essere totalmente solo, urlò e urlò raggomitolandosi in un angolo della stalla e prendendosi la testa tra le mani.
I suoi palmi toccarono per sbaglio le perle tonde degli orecchini, portandolo ad afferrarli con le dita per riflesso. E nel vortice di ricordi che ne seguì Sokaro ritrovò infine sé stesso.
Nella cella che aveva condiviso con quell'uomo dall'aria strana.
Nel Carcere che lo aveva isolato dal Mondo e da ogni umana sensazione.
Nella Morte che aveva preso molti di loro durante quella permanenza malata.
Nella sua testa che aveva visto rotolare ancora prima della Tempesta che gli aveva donato la libertà.
Nei suoi occhi – nei suoi occhi scuri nei quali si era semplicemente perso e non aveva visto più niente.
Tutto non era stato che un suo sogno.


-Per cosa vivi, Sokaro?-
-Io sono alla ricerca di una meta alla quale dedicarmi.-
-Sei riuscito a trovarla?-
-Non ancora, direi non ancora!-
-Posso dartela io, se vuoi... alcuni la chiamano Fede, tu chiamala come ti pare. Ti darà un sacco di motivi per uccidere ancora e ancora...-
-Ne sei sicuro?-
-Sicurissimo. E se così non fosse sei libero di venire a cercarmi per uccidere me.-
-Come ti chiami?-
-Io sono Marian Cross!-
-Marian Cross, la tua proposta è assai interessante...-




















*Note finali
Ho aggiunto queste note alla fine in quanto contenevano spoiler sul testo e in quanto la mia beta mi fece notare alcune incongruenze. Per quanto riguarda il Boliviano, dico solo questo, che spero possa risolvere tutti i problemi di logica e di sensatezza: è un "sogno", un'illusione mentale di Sokaro, e questo significa che non fa le cose come le facciamo noi e non ha i nostri problemi fisici e corporei. Quindi, per intenderci, può tirare fuori dal nulla un piffero e suonarlo (L) Se volete, potete interpretarlo come "la pazzia" di Sokaro, per riprendere il tema del manga da cui è tratto il mio pg ^^
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > D.Gray Man / Vai alla pagina dell'autore: Rota