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Autore: Neal C_    09/11/2011    3 recensioni
[Con la partecipazione straordinaria di David Bowie e Matt Bellamy ]
Raccolta di One-shots su Brian Molko, sprazzi di vita, pallide impressioni che affiorano da foto, video, interviste, dall’ immaginazione più o meno fervida dell’autrice e naturalmente dalla musica.
Filo conduttore: il cambiamento.
Ch-ch-Changes
Just gonna have to be a different man
Time may change me But I can't trace time
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Molko, Un po' tutti
Note: Cross-over, Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Luxembourg 1988





“Brian,
dove cazzo è questo posto?!”

Il ragazzo biondo al fianco di Brian comincia ad essere stanco di andare in giro così, senza meta, rincorrere gli autobus, camminare per i larghi viali del centro, guardato in malo modo da tutte le vecchine del quartiere che li squadrano e borbottano qualcosa sulla “gioventù moderna, sfaticata e perditempo”.  Se fosse per lui probabilmente nessuno farebbe caso alla sua presenza;
è alto per la sua età, può passare tranquillamente per un giovane universitario, occultando semplicemente lo stemma dell’uniforme dell’American International School of Luxembourg, con una  semplice tracolla di tela blu scuro, la camminata lunga e decisa e una maturità stampata in faccia che non si trova tutti giorni in una classe di sedicenni in erba.
Ma il suo compagno non può assolutamente passare inosservato, in gonna corta di tartan rosso con apertura a portafoglio da cui spuntano le calze nere spesse ravvivate da scaldamuscoli di lana color panna e oro, e sopra l’immancabile chiodo di pelle.
A guardarlo di sfuggita sembra una graziosa ragazzina, forse una quindicenne, che ha marinato la scuola e che a stento riesce a stare dietro alle lunghe falcate del suo ragazzo.
Ogni tanto il biondo è costretto a rallentare per consentire a Brian di stargli dietro, anche perché non ha la più pallida idea di cosa gli frulli nella testa.
A Brian piace tenerlo sulle spine, ha eluso tutte le sue domande fino ad ora e ancora gongola perché è riuscito facilmente a distoglierlo dalla prospettiva di un’altra noiosa giornata di scuola.
Oggi non c’era nemmeno il laboratorio di teatro e poi era da tempo che il moro voleva farlo.

“Mi sono rotto! È da stamattina che siamo in giro, che cazzo!”

Il biondo si pianta come un palo della luce in mezzo alla strada e sembra non avere nessuna intenzione di proseguire. Brian è costretto a fermarsi e  sfoggia il solito broncio che affiora sul viso ogni qualvolta che qualcosa non va come dovrebbe andare.

“Siamo arrivati Jules, è in fondo a questa strada.”
“Che cosa c’è in fondo a questa strada, Brian?! Cosa?!”

Sillaba quel “cosa” con veemenza e incrocia le braccia la petto non accennando a muovere di un passo. È arrabbiato con lui, e Brian sa che non è solo una questione di chilometri a piedi.
è incazzato perché ancora una volta lui non lo ha avvertito che avrebbero fatto filone, e così il biondo adesso era in uniforme, con la tracolla stracarica di libri e il fiato corto.
Ancora una volta “non avevano preso le decisioni insieme”. 
Era una nuova mania che gli era venuta ultimamente.
Un giorno il biondo era venuto da lui, tutto emozionato e tronfio come se avesse scoperto l’America, e aveva attaccato tutto un discorso sui ruoli della coppia, sulla necessità di capirsi, di accettare l’uno i bisogno dell’altro, confidarsi e dare fiducia all’altro, consultarsi per qualunque tipo di decisione.
Quest’ultimo argomento sembrava stargli particolarmente a cuore e così tutto doveva essere discusso e concordato.
Brian all’inizio aveva lasciato fare e, come previsto, la situazione non era molto cambiata;
lui si limitava a fare comunicazioni, dava l’impressione di ascoltare le argomentazioni del suo ragazzo, e alla fin fine il discorso cadeva e il moro l’aveva sempre vinta.
Ma adesso stava diventando tutto più complicato, quegli atteggiamenti protettivi, quei continui controlli cominciavano ad irritarlo.

“Su, tesorino, cinquanta metri e ci siamo.”
“Io non mi muovo finché non mi fai capire.”
“Amore, è una sorpresa! Altrimenti che gusto ci sarebbe?”

Brian cerca lo sguardo del compagno mentre questo tenta di mostrarsi intransigente e deciso, senza riuscirci veramente. Gli occhi del moro sembrano rivolgergli una muta preghiera, come se un rifiuto potesse davvero ferirlo. Ancora una volta Jules Mertens maledice quell’aria innocente, da cucciolo smarrito che il suo ragazzo tira fuori quando gli fa più comodo e lui, nonostante conosca benissimo il suo gioco, finisce sempre per cedere.
Anche stavolta, sbuffa, avvilito e si lamenta mentre riprendono a camminare, più lentamente:

“Che palle, oggi è pure il mio compleanno! Avrò il diritto di passarlo come voglio?! E invece no! Devo seguire te, in culo al mondo, e non hai nemmeno la decenza di dirmi dove.”

è tanto impegnato a lamentarsi che non si accorge nemmeno di Brian che scivola in uno dei negozi dalle vetrine opache, con quel triste sfondo bianco o grigiastro come l’asfalto, ingombre di oggetti, quasi in disordine.
Per un attimo lo osserva, perplesso, aldilà della porta di vetro mentre questo sembra parlare con una giovane commessa, una smorfiosa dal sorriso falso e scialbo, per di più.
Getta un’occhiata al nome del negozio “Music Shop Cavem Sarl” e si dice che lo ha già sentito da qualche parte. Poi finalmente raggiunge il compagno nel negozio che stringe fra le mani un pacchetto, incartato in una bella carta da regalo bianca e verde acido.

“Tesorino, questo è per te.”
 
Jules rimane a bocca aperta mentre Brian gli tende il pacchetto delle dimensioni di un libriccino di un centinaio di pagine. Non fa caso al tono con cui l’altro lo ha apostrofato; il tono di chi è sollevato di avere una seccatura in meno.
D’altra parte Brian non è mai stato dolce con lui, né con nessun altro che lui conosca o ricordi.
Il biondo è abituato ad essere strapazzato, riempito di attenzioni o ignorato a seconda del momento.

“Brian...grazie...”
“Apri”

Anche questo suona più come un ordine che come una vera esortazione e subito Jules ubbidisce, velocemente strappando quella bella carta, senza remore.
Appallottola i fogli di carta in una mano mentre nell’altra stringe una piccola armonica a bocca di quelle cromate, argentea e ben lucidata.

“Oddio, come...come lo sapevi? Era da secoli che la volevo!”
“Ti piace?”
“è...grandiosa.  Davvero, come lo sapev...”

L’indice di Brian si posa sulle sue labbra, interrompendolo, e accarezzandogli poi la guancia con la delicatezza di una farfalla che si posa su un davanzale.
Poi il moro si sporge in avanti soffiando con il suo alito caldo sul collo dell’altro e sussurra, indugiando, con malizia, a pochi centimetri dal suo orecchio:

“Parli nel sonno.”

Sollevandosi sulle punte, gli ruba un bacio innocente, un leggero contatto di labbra, e poi un morsetto sull’angolo della bocca. Jules arrossisce violentemente e si ritrae, trasudando vergogna da tutti i pori.

“Cristo! Ti ho detto miliardi di volte che non mi piace che ci vedano!” 

Si strofina il dorso della mano sulla bocca, resa appiccicosa da quell’infernale lucido che Brian si mette puntualmente ogni mattina.
L’altro ridacchia, con il divertimento dei bambini che sanno di star facendo un dispetto a qualcuno,  fa spallucce e si volta,  lasciandolo a tormentarsi le labbra, a passarsi la lingua sulle sbavature di rossetto, cercando di cancellarle con la stessa furia con cui Lady Machbeth cercava di lavare il sangue dalle mani.
Jules si chiede se sia il caso di cercare uno specchio. Magari lì, in negozio hanno una toilette.
Non gli è mai veramente andata giù quella disinvoltura con cui Brian tratta la loro relazione, quelle libertà fisiche che si prende in pubblico, magari davanti a gente che conosce.
E tutto per il mero gusto di provocare.
Al biondo non piacciono affatto le “trasgressioni”, anzi, preferisce la sua tranquillità, la sua vita quotidiana, abitudinaria che non riesce tanto a conciliare con quel ragazzetto e i suo atteggiamenti da sciacquetta di marciapiede.
Ma inevitabilmente il proibito, la ribellione e una buona dose di ambiguità hanno il loro fascino.
Alla fine, seccato, decide di lasciar perdere e di raggiungere il compagno che ascolta, molto interessato quell’ochetta della commessa che sembra snocciolargli a memoria la lista della spesa.

“…custodia compresa, si. In tutto verrebbero duecentottanta franchi, al prezzo di catalogo.
Scontata  duecentotrenta. ”
“duecento”
“come prego?”
“faccia duecento.”
“Non siamo al mercato. Io non faccio proprio niente.”
“Ah”

Jules osserva l’espressione irritata della commessa e improvvisamente gli sembra meno stupida di poco fa. Ha capito che ha a che fare con un cattivo cliente.
Di fronte a lei c’è Brian, scuro in volto, che osserva l’oggetto desiderato, una ESP Telecaster nera e bianca, un modello dell’82, nemmeno tanto rovinata, ha un paio di scheggiature appena sotto il pick up e ai lati del ponte. Anche se basta questo a rovinare l’effetto nero lucido del body e giustifica il prezzo decisamente ribassato.

“Brian, è già scontata di cinquanta franchi…non credo sia il caso…”
“Mi tolga una curiosità, a chi crede di venderla?”

Come prevedibile, Brian non si arrende e si rivolge alla commessa con dolcezza, con il tono mellifluo, una voce affettata e un piglio ironico, canzonatorio, quasi volesse compatire la stupidità di quella povera ragazza.
Jules per un attimo la vede in difficoltà mentre si aggiusta dietro le orecchie una lunga ciocca bruna, fa un respiro e cerca di mantenersi calma e posata davanti all’ennesimo cliente stravagante.
Forse starà pensando che sarebbe dovuta andare a lavorare in un negozio di vestiti, alla peggio in una drogheria, così almeno avrebbe avuto una clientela normale.
I musicisti sono sempre svitati, pieni di pretese, boriosi e questo qui è anche impudente oltre che ridicolo e grottesco, conciato in quel modo.
Si guarda per un attimo intorno; forse spera che il proprietario del negozio sia tornato.
Aveva detto che stava via cinque minuti e lei, con tranquillità, si era detta che  in fondo cinque minuti erano troppo pochi perché succedesse qualcosa.
La risposta è secca, come un punto che vuole mettere fine ad un discorso, che non lascia possibilità di ribattere, che vorrebbe essere definitivo. 

“Non sono affari tuoi.”
“Lei non si intende molto di musica.
Sbaglio?”

Quel Lei è fastidioso, è inappropriato almeno quanto quel ragazzino che adesso è passato alla delegittimazione personale, all’insinuazione sottile, al solo scopo di esasperare.
Persino Jules avverte una sorta di fastidio, per l’invadenza del compagno, per il suo essere così strafottente e l’innocenza del suo volto che stona con la malignità delle sue frecciate.

“No. E non me ne frega niente.”
“E non gliene ne frega niente nemmeno del suo lavoro, immagino.”
“Senti, frocetto, che cazzo vuoi?!”
“Lei deve vendere un prodotto che messo come lo vede non vale nemmeno la metà del prezzo di catalogo. E io mi sto offrendo di pagarlo duecento franchi, un’offerta generosa. 
Non sarà un’esperta di musica ma questo mi pare solo buonsenso.
Non si intende nemmeno di quello? ”
“Brian…”

Jules vorrebbe dire che il suo compagno come al solito esagera, si diverte a mettere in difficoltà le persone, mette su quelle stupide sceneggiate forse per noia, forse per puro desiderio di esibizionismo;
vorrebbe dire che come al solito il suo ragazzo ha gonfiato la realtà, che le scheggiature di quella chitarra non vanno a intaccare il suono e il normale funzionamento dello strumento, che possono essere semplicemente occultate con un paio di verniciature e del copale trasparente.
è giustificato un piccolo sconto per risarcire il danno ma non per questo adesso lo strumento vale la metà del prezzo. E cinquanta franchi di sconto sono tanti.
Ma come al solito la sua voce si perde, ammutolita da un’occhiata fredda e ammonitoria di Brian.
Nel frattempo la povera commessa si guarda intorno come un animale in gabbia e stavolta la risposta è meno combattiva del solito:

“Senti, non lo so, ok? Quando torna il mio capo poi parli con lui.”
“Lei non fa le veci del suo capo, in sua assenza?”
“Si…ma…”
“E allora per quale motivo dovrei perdere tempo ad aspettarlo?
Crede di essere troppo stupida per trattare la vendita di una chitarra?”
“Mi stai dando della stupida?! Chi cazzo ti credi di essere?!”
“Se non è capace di vendere una chitarra o è stupida o ha una bassissima autostima.”
“BRIAN!”

Adesso ha esagerato. Se era un gioco è durato troppo. Se invece era davvero una contrattazione sta sfiorando livelli vergognosi. Jules non può fare a meno di intervenire in aiuto di quella povera ragazza che è rimasta decisamente sconvolta da quella conversazione surreale che nessuna persona ammodo avrebbe mai portato avanti.
 Per un attimo regna un silenzio imbarazzante.
Non sono passati nemmeno cinque minuti eppure questa messinscena sembra andare avanti da ore.
Fuori è ancora nuvoloso, la gente passa e va di fretta, nessuno si ferma a guardare la vetrina, nessuno entra, il mondo è troppo impegnato a girare per accorgersi che da “Cavem Sarl” il tempo va a rilento in modo straziante, come una goccia di rugiada che scivola faticosamente giù da un filo d’erba.

“Mi fa duecento?
Per favore…”

Questa volta la voce è gentile, quasi infantile, il ritratto dell’innocenza e della purezza.
Basta questo a confondere ancora di più la povera commessa.
è stordita, incredula e per un attimo le sembra la cosa più sensata da fare; annuisce, stancamente, abbandonando la battaglia.
Jules si aspetta che Brian esulti, la derida, magari infierisca ma stavolta rimane deluso.
Sembra lo specchio dell’umiltà, un’altra persona anzi la cortesia in persona, con tanto di sorriso d’incoraggiamento che gli illumina il volto.
La ragazza si muove meccanicamente, batte sulla cassa la cifra pattuita  e il cassettino di metallo si apre con un click, una nota di vivacità, finalmente.
Brian tira fuori cinquanta franchi e li posa sul banco, poi candidamente si rivolge al suo ragazzo:

“Jules, mi presti centocinquanta franchi?”
“Mi servono per ritirare il vestito di mia madre dalla sarta!”
“Te li rendo.”
“Ma mi servono oggi, Brian!”
“Ho detto che te li rendo.”
“Oggi?”
“Forse.”
“Ma…”
“Amorino, non vogliamo disturbare ancora, no?”

C’è un che di minaccioso nella serafica risposta di Brian e tanto basta perché Jules perda la voglia di aprire un’altra questione.
Adesso vuole solo uscire da questo posto, scomparire e non entrarci più per nessun motivo.
Pensa che questo è uno dei compleanni peggiori mai passati, ma pensa anche che, da un po’ di tempo a questa parte, ogni giorno è sempre peggio.
Da quando ha conosciuto Brian per l’esattezza.
Ma Brian gli ha fatto un regalo. Non gliene aveva mai fatto uno.
Lui lo riempiva di attenzioni, gli offriva il pranzo, pagava l’ingresso dei locali, gli aveva persino regalato dei fiori, una volta, perché con le ragazze si usava fare così.
A natale gli aveva regalato un walkman, al suo compleanno l’ultimo cd dei Sonic Youth.
Ma era la prima volta in più di sei mesi che Brian gli faceva un regalo.
Tutto sommato è una bella giornata questa, pensa Jules mentre sborsa centocinquanta franchi.


****************


Sono le dieci e mezza di sera, è relativamente presto, la vita notturna comincerebbe adesso se mai ce ne fosse una. Invece, nei giorni feriali, le strade sono semi-deserte, i tavoli dei locali sono vuoti o popolati da bande e gruppetti sparuti, qualche birra nei pub, qualche schiamazzo da parte dei più vivaci, ma questo è tutto.
è una cittadina deprimente, almeno quanto lo è l’adolescenza di Brian che perde tempo, seduto sul marciapiede, all’uscita di un locale, con una sigaretta fra le labbra, la quinta della serata, la decima della giornata.
Jules è andato a rimediare da bere, magari qualche lattina di birra, magari qualcosa di più forte.
Brian non è voluto entrare perché non ha i soldi per pagare il tavolo.
Ovviamente la birra la offre Jules.
Lui ha speso tutto stamattina per comprare la sua nuova ESP che potrà collegare agli amplificatori che gli ha passato Nick, il migliore amico del suo ragazzo.
Adesso ha tutto e ripensa alle note vibranti di “Teenage Riot”  che gli suonano in testa da un pezzo.
Fino a questo momento aveva provato sulla chitarra di Jules e in effetti era per questo che avevano iniziato a frequentarsi. Anche se Mertens aveva tradito i Sonic Youth con i R.E.M e poi ancora se n’era disinnamorato scoprendo Lou Reed.
Brian invece voleva e vuole imparare suonare, vuole provare a cantare sulle voci di Thurston Moore o Lee Ranaldo, a strimpellare sulle orme di Kim Gordon e rompere l’apatia che lo invade, con le note di  “Hey Joni”, “The Sprawl”, “Eric’s Trip”.
Adesso la sua nuova chitarra è a casa di Jules ed è lì che Brian ha intenzione di dormire stanotte, quando tornerà a casa, non prima di l’una di notte.
Cosa farà intanto? Fumerà, berrà, scambierà qualche parola con il suo ragazzo, con un orecchio ascolterà una nuova band che suona nel locale, una formazione buona, tutto sommato, anche se poco originale e appassionata di cover.
E magari passerà qualcuno del gruppo di Jules con cui intrattenersi per un po’, chissà.
Già vede un certo movimento per la via:
cinque o sei ragazzi che si trastullano vicino ai pali della luce, che rovesciano un cestino dell’immondizia, che ridono sguaiatamente, che fischiano al passaggio di qualche ragazza che cammina a passo svelto sull’altro lato del marciapiede.
Si dirigono proprio verso il “The Tube”, pub della città famoso perché gestito da Thomas Dicher, noto chiacchierone e ficcanaso, “peggio di una zitella pettegola”, dicono.
Ma non sono amici di Jules, quelli, e purtroppo non sono nemmeno perfetti sconosciuti.
Da bravi conoscenti e rispettosi compagni di classe, si fermano a salutare:

“Ehi, ragazzi, guardate chi c’è? Mss Molko!”

Un coro di risate, acute e gravi, roche e stridule, tutte di scherno e su questo non ci piove.
A parlare è un ragazzotto paffutello, con i capelli tirati indietro e l’aria compita, in camicia, jeans scuro e pullover blu di cashmere che porta stampata la firma della sua fortuna e che grida a gran voce “io sono un riccastro e me ne vanto.” .  
Lui si fa avanti mentre alcuni sono rimasti indietro come tante pecore al pascolo, altri si radunano intorno al loro capo, a semicerchio, come un gruppo di coreuti.

“Ma quanto siamo carini, stasera, Miss! Un bijou! I clienti hanno apprezzato?”

Fra la scia delle risatine emerge il tono basso e masticato di Brian che arriccia le labbra in un sorriso provocatorio mentre tira una lunga boccata e caccia fuori una nuvola di fumo, come se volesse fare nebbia intorno a sé.

“Stasera sei il primo.”

La risposta non sembra piacere. Un mormorio percorre il gruppo, molte le occhiate di disprezzo, qualcuna anche di disgusto. Ma il capo mette a tacere i commenti, avvicinandosi lentamente, respirando a pieni polmoni il fumo della sigaretta di Brian, mentre sillaba, con malignità:

“Io non mi sbatto frocetti in crisi d’identità.”
“La tua prima volta? Niente paura, farò piano.”

Stavolta il ragazzotto non la prende bene. Chiuso il pugno in una morsa, lo abbatte sulla guancia di Brian mancandogli di poco il naso. Il moretto reagisce allo spavento e al dolore lasciando cadere per terra il mozzicone di sigaretta e mordendosi il labbro a sangue, in un gesto inconsulto.
Non ha neppure il tempo di massaggiarsi la guancia che l’altro lo afferra per il colletto della camicia e lo scuote violentemente spostando poi la presa sul collo e facendo pressione.

“Oggi abbiamo voglia di scherzare, eh?
 Facci ridere ancora, Molko.”
“Ma… qua-anta-a…free-e-tta…di-i alu-lu-ungare-e le m-mani, Va-an-nden.”

La stretta di Vanden gli toglie il respiro mentre le sue unghie laccate di nero cercano di graffiare i polsi e le mani dell’altro, strette al suo collo. Il commento è un sussurro rauco, seguito da una sfilza di colpi di tosse che fanno pensare che si possa strozzare da un momento all’altro.
Riceve come risposta un altro pugno, stavolta nello stomaco e viene sbalzato indietro;
se la gola è libera quel colpo in pancia gli ha mozzato il fiato.
Brian annaspa, il petto si alza e si abbassa a singhiozzo e passano in secondo piano i calci alle gambe, alle braccia, alla schiena, mentre il ragazzino si mette su un fianco, cercando di proteggere almeno un lato di quel suo corpo maledettamente sottile e schifosamente fragile, che viene sempre meno in questi momenti.
Vanden incalza, i suoi colpi si susseguono sotto agli sguardi famelici dei suoi compagni, come iene che attendono il loro turno per gettarsi sulla preda.
Dovranno attendere che il leone finisca di dilaniare la sua vittima.
Ma bastano tre colpi di clacson per metterli in fuga mentre i fari di un’automobile illuminano l’ingresso del locale e, sul marciapiede, poco più avanti la sagoma di Brian, scossa da brividi e tremori.

“Ce la fai ad alzarti? Ormai pesi.”

Barry tende una mano a suo fratello, stancamente, ignorando le ultime scie del gruppetto di avvoltoi che si è dileguato per la Rue Sigefroi*.
Brian si stringe nelle spalle e poi si tira a sedere lasciando la mano del fratello a mezz’aria.
Si massaggia le gambe piene di lividi dolenti, aggiusta i capelli neri dietro le orecchie, e fa un paio di sospiri per calmare il battito cardiaco che va a mille, per lo spavento, la paura, la rabbia e la frustrazione.

“Che fai qui?”
“Ero venuto a cercare te.”
“Ah”

Finalmente il cuore si è calmato, il respiro è regolare, adesso comincia a farsi sentire l’indolenzimento, il dolore dei colpi sulla schiena.
Non c’è niente di meglio di una buona sigaretta per distrarre il suo cervello, per ritrovare nei gesti meccanici un po’ di sana tranquillità.
Si accende l’undicesima bionda della giornata mentre il fratello lo osserva, con un misto di malinconia e pietà.

“Andiamo a casa?”
“Sono le undici meno un quarto.”
“Embè? Cosa c’è?  non è abbastanza ‘da grandi’ andare a letto alle undici?”
“C’è che non ho sonno. E poi papà torna a casa a quell’ora.”

Per qualche secondo si sente solo qualche schiamazzo solitario accompagnato dall’ululato straziante di una tromba malinconica che fuoriesce dall’ingresso del “The Tube”. Probabilmente sono solo le note di un 45 giri, messo su per riempire il vuoto lasciato dalla band di esordienti che ha dato fondo al suo repertorio; è lì per rilassare l’orecchio e concedere a qualche coppietta un momento speciale.
L’essenziale è riempire il silenzio, pensa per un attimo Barry mentre si va a sedere accanto al fratello, rassegnato; è evidente che quello non ha nessuna intenzione di alzarsi.

“Che ci fai qui?”
“Te l’ho detto. Sono venuto a cercarti.”
“Che vuoi?”
“Adesso ho bisogno di una giustificazione scritta per stare con mio fratello?”
“Non raccontarmi stronzate, Barry.”
 “Sei sempre stato tu quello che diceva stronzate, Brian.
Anzi, peggio, FAI stronzate, ti cacci nei guai e poi tocca a me venirti a recuperare.”
“Nessuno te lo chiede.”
“Tu non chiedi mai. Prendi e basta.”


Silenzio. Adesso la tromba si è lanciata in un acuto ancora più lento e straziante, un virtuosismo del musicista che domina la scena da grande solista, come il personaggio principale nel bel mezzo di un lungo e contorto monologo. 
Barry pensa che in fondo parlare con Brian è sempre stata un po’ come parlare da soli, convinti che il proprio monologo sia un dialogo acceso, un confronto serrato, una battaglia all’ultimo sangue. Poi vede l’indifferenza e l’apatia nei suoi occhi, segno che in lui non è cambiato niente, che non ha fatto nessuna differenza.
Barry pensa che lui non era così da ragazzino. Era un po’ irrequieto, insoddisfatto della sua vita, aveva grandi sogni, grandi aspirazioni, continuamente frustrate dai continui cambi di residenza, dagli spostamenti e dalle incombenze familiari che lo tenevano perennemente sradicato, come il gambo di una rosa tagliata, lasciata a seccare nel pantano di un vaso di vetro.
Poi un giorno aveva seguito il consiglio di suo padre, si era interessato del suo lavoro, di finanza, di banche e di aziende e adesso era un cittadino rispettabile, di quelli che vestivano in completo nero e leggevano la pagina delle azioni in borsa, con una portadocumenti sempre appresso.
E non era mai stato così felice.
Aveva una compagna adorabile con cui meditava di sposarsi prima dell’inizio del nuovo decennio.
Perché Brian non voleva essere felice?

“Ho bisogno di centocinquanta franchi.”
“Che ci devi fare?”
“Me li sono fatti prestare da Jules, adesso devo restituirglieli.”
“Perché te li sei fatti prestare?”
“Per comprare una chitarra.”
“Tu sai suonare la chitarra?”
“Imparerò.”
“E il teatro come va?”
“Come al solito.”
“Continua a piacerti come sempre?”

Brian lancia al maggiore uno sguardo seccato e getta il mozzicone di sigaretta, spento, per terra.
Fa per pescarne un’altra dalla tasca quando si accorge che sono finite.
Ha un moto di rabbia, un po’ stizzoso, e getta per terra anche il pacchetto vuoto, calpestandolo con la gomma spessa degli anfibi neri.

“Non dovresti fumare così tanto.”
“Cazzi miei.”
“Ho parlato con la mamma, oggi, prima di venirti a prendere.”
“Io ci parlo tutti i giorni, purtroppo.”
“Mi ha detto che non le rivolgi quasi la parola, che mangi pochissimo, che non sei mai a casa e che non l’accompagni più in chiesa la domenica.”
“Non abbiamo niente da dirci. Cucina uno schifo.
Avrò di meglio da fare, che dici?
Ah, dimenticavo…sono una checca isterica, ricordi?
Finirò all’inferno.”
“Brian, chi te l’ha…”
“Lei me lo ha detto. Chi altri?”
“è perché ti conci in questo modo, pittandoti in faccia come una ragazzina dark e indossando certe gonnelline striminzite che lasciano davvero poco all’immaginazione. Salvo poi scoprire che sei un uomo, cosa che la maggior parte della gente che ti guarda di sfuggita non capisce!”

Sul volto di Brian si allarga un sorrisetto soddisfatto, quasi gli avesse fatto un complimento.
Poi si tira su, le gambe intorpidite protestano, i lividi bruciano ancora, e fa un cenno a Barry, di saluto.  Anche stavolta cerca di fuggire, pensa Barry. Come un’anguilla che ti scivola dalle mani, anche quando la afferri saldamente per il collo.

“Ti accompagno.”
“Sopravvivo da solo, grazie.”
“Si è visto.”
“Era normale amministrazione.”
“Era bullismo, Brian.”
“Appunto.”

Adesso Barry comincia ad irritarsi di quelle frasi strappate al fratello, a singhiozzi.
Si chiede perché ha deciso di venire a prenderlo, di parlarci.
Non parlano veramente da mesi, forse un anno, forse di più.
Lui, Barry, ha la sua vita, ha Leah che lo aspetta a casa, Leah che torna dalla scuola superiore in cui insegna inglese e francese, con le buste della spesa, che gli fa trovare il piatto caldo a tavola anche alle dieci e mezza di sera, quando di solito lui rincasa, che si lamenta perché il gatto sporca, perché i prezzi salgono e quel “pezzo grosso” di suo marito non può fare nulla per impedirlo.
Non gli manca molto la sua famiglia; in fondo sua madre si è realizzata abbracciando la comunità cattolica e il club di cucina e non è capace di parlare d’altro, parlare con suo padre significa parlare di lavoro e per di più sentirsi in soggezione davanti a lui e sorbirsi sermoni infiniti sul mercato che è “volubile come la femmina”.
Rimaneva suo fratello ma ormai non ne è più tanto sicuro.

“Non vuoi proprio tornare a casa?”
“…”
“Vuoi venire da me?”
“Barry, che cazzo vuoi?”
“Avevo voglia di vederti.”
“Io, nessuna. E comunque hai lasciato la macchina in divieto di sosta.”
“Starò via pochissimo. Giusto il tempo di accompagnarti.”

Barry cammina seguendo il passo svelto del minore che sembra ansioso di liberarsi di lui.
Tra le altre cose casa di Jules non è affatto lontana,  una traversa più in là, in un bel palazzo ottocentesco, dalle ampie finestre, un posto luminoso, con vista sul viale che di giorno brulica di vita, ma che può diventare anche un rifugio, basta tirare le tende.
C’è un accenno di liberty nei fregi del portone, nota Barry quando si fermano davanti all’entrata.

“I genitori di Jules lo sanno?”
“No. In realtà non sanno nemmeno che sono in casa.”
“Ma come…”
“Semplice. Non ci sono mai.”

Il moretto tira fuori una chiave nuova di zecca, rifatta da poco, forse apposta per lui.
Mormora un  “Buonanotte” mentre si infila nel portone senza degnare di uno sguardo il fratello.
Ma ancora prima che abbia chiuso la porta, 

“Brian…!”
“Che c’è?”
“I centocinquanta franchi te li lascio nel cassetto della scrivania?”
“Va bene.”
“Buonanotte.”

Poi il portone si richiude.
A Barry non resta che ripercorrere la stessa strada dell’andata, solo e con l’amaro in bocca.
Avrebbe voluto abbracciarlo, anche solo una stretta simbolica per ricordare i tempi in cui, per qualunque cosa, il piccolo Brian correva dal fratellone e cercava conforto fra le sue braccia.
Stavolta nemmeno il più piccolo contatto, neanche di sfuggita.

Come sei diventato gelido, fratellino.






 







 


Note

*Per intenderci, il The Tube è un locale di Lussemburgo (8 rue Sigefroi) e non me lo sono inventato ma storicamente è stato fondato nel 1999 quindi questo qui consideratelo un antenato.
Sicuramente l’indirizzo è quello ù.ù
E poi mi piaceva il nome!

* Le canzoni citate sono dei Sonic Youth, uno dei gruppi prediletti di Brian nel periodo incriminato.
 Sono citati i membri principali della band (il batterista no, perchè siamo razzisti u.u) e nomi universalmente noti come i R.E.M e Lou Reed e se mi appartenessero li terrei tutto il giorno segregati in cantina a cantare per me, se li conoscessi verrei arrestata per stolkeraggio ai loro danni e blablabla...

Buongiorno, anzi buona sera anzi buona notte.
Non sono per niente soddisfatta di questa One ma non riuscirei a scriverla in nessun altro modo.
Mi spiace essere un po’ ripetitiva nelle tematiche ma siamo in pieno periodo adolescente-tormentato-NessunoMiCapisce-SonoSoloAlMondo e quindi una tendenza alla stronzaggine oltre che al nichilismo radicale è inevitabile <.<
Disclaimero tutto ovviamente anche se in effetti è proprio a 16 anni che Bri si procura la sua prima chitarra elettrica (o almeno secondo interviste/siti/FontiPiùDisparateSuInternet etc.), ha la sua prima relazione omo,  ha appena cambiato scuola ed è andato all’AISL senza tuttavia migliorare più di tanto la sua condizione di “soggetto” (e parlo dei bullismo, intendiamoci) e posso rivendicare come miei i personaggi di Leah, Vanden e Jules.
Qualcos’altro? No, direi di no.
Sono a posto, grazie.
Notte

Misa

p.s i migliori ringraziamenti a _Lilla_ e nainai  *_* 

  
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