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Autore: crazyfred    11/11/2011    13 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 19





















Capitolo 19
Empire State of Mind

















 

“Lei come sta?”
Imbronciata. Appena siamo tornate a casa è corsa su per le scale senza salutare nessuno e si è chiusa in camera sua. Adesso dorme” mi rispose Allison, senza preoccuparsi troppo di nascondere la apprensione per quella bambina, che ormai considerava quasi come una sorella. “Ma le passerà, vedrai” continuò, con fermo ottimismo “credo ce l’abbia con suo padre più che altro. Non è stupida, ha capito come stanno le cose … e ti vuole troppo bene per prendersela con te”

Lo speravo davvero tanto, perché sbagliavo di continuo con le persone a cui volevo bene e, per una volta che mi sentivo di aver fatto la cosa giusta per difenderne una, non volevo pagare un prezzo troppo alto.
“Tu come stai?” continuò lei, probabilmente in pensiero dopo avermi visto con gli occhi rossi e le orecchie fumanti di rabbia, come nelle migliori vignette.
“Io … io non lo so” risposi candidamente “ancora un po’ frastornato a dire il vero. Io … io non ho saputo resistere, tu lo capisci” e la mia voce iniziò ad accelerare il discorso, volevo trovare una scusa, un appiglio per quanto avevo fatto, pur non essendocene bisogno, pur trovando corretto il mio agire. Ma lei comprese e mi freno: “Sì, sì lo capisco … lo sai, ci sono passata anch’io”
Si prese un attimo per riflettere, una pausa necessaria ad entrambe per riordinare le idee ancora incasinate nelle nostre teste. Era un bene che fossimo al telefono; gli sguardi bassi e scuri, i crucci e i rancori di quella giornata così lunga e difficile era meglio tenerseli per sé. Non volevo che mi vedesse agitato com’ero né io volevo vederla triste; avrebbe riportato a galla ricordi poco piacevoli e trasmesso in me ulteriori istinti violenti che stavo cercando con tutte le mie forze di reprimere.
“Però” riprese lei “voglio che domani tu venga qui e parli con lei … e con tua madre”
Già, mia madre. Probabilmente era quella la cosa che la preoccupava di più, oltre me e mia sorella. Aveva trovato in lei una figura di supporto insostituibile: un surrogato materno, un’amica, una zia, una sorella maggiore, mia madre era tutto per lei, si fidava di lei molto di più di me e cercava di non deluderla mai.
Ma io conoscevo Charles abbastanza da sapere che non c’era nulla da temere.
“No piccola, stai tranquilla. Non accadrà nulla di male … Charles vuole solo metterci paura, ma non passerà mai dalle parole ai fatti”
Mi lasciai scappare un sorriso, vuoi anche per incoraggiarla e lasciare che distendesse i nervi. L’avevo chiamata piccola e avrei sinceramente voluto mangiarmi la lingua: a giudicare da una reazione che non avvenne non doveva aver notato quella parola in più che avevo messo e per lei non doveva avere il significato che aveva per me. Meglio così, mi risparmiava un sacco di scuse campate per aria. Me la immaginavo seduta sulla poltrona, in camera sua, a piedi scalzi e lì appollaiata nella posizione più contorta, a dimostrazione che gli anni da ballerina di lap dance le hanno conferito una elasticità invidiabile, leggings neri e maglia bianca del sottoscritto sformata e sbiadita, leggermente pendente sulle spalle da lasciar vedere il reggiseno nero. E la coda di cavallo che arrangiava in quella maniera così strana che mia sorella ogni volta la guardava come se avesse visto un fantasma.
“Tyler non è il momento di scherzare” mi rimproverò la mia maestrina, destandomi dalle mie fantasie senza speranza; era più grande di lei di oltre 4 anni, eppure lei era la mamma ed io il bambino scalmanato di 5 anni da mettere in riga “sto parlando sul serio. Domani  le spieghi la situazione ed io mi troverò un posto dove stare. In qualche modo riuscirò a trovare i soldi per l’affitto, dovessi anche …”
“Dovessi anche cosa Allison? Non voglio più sentire una cosa del genere … non mi sono fatto spaccare la faccia per farti andare via da quel locale e farti pagare l’affitto di un appartamento a suon di prestazioni sessuali” quella era una cosa che non tolleravo; mi aveva fatto sempre schifo parlarne, figurarsi ora che quello spettro sembrava essere svanito dalle nostre vite, dalla sua vita, una volta per tutte.
“Tyler ma sei matto! Non ho intenzione di fare più la puttana … dicevo, anche a costo di mettermi a fare la donna delle pulizie nei cessi della metro”
Tirai un sospiro di sollievo. Erano le stesse parole che avevo usato io tempo addietro per convincerla a lasciare quella bettola. Umile ma onesta, era quella la Allison che preferivo.
“In ogni caso” continuai “se proprio non ti trovi bene da mia madre verrai a stare da me. Ma non hai motivo di temere, mio padre non vi torcerà un capello nemmeno metaforicamente”
“Tyler” mi richiamò lei. “Dimmi” le sussurrai, dolcemente.
“Prometti che le parlerai” le sue  parole alle mie orecchie suonarono come una preghiera, l’ultima supplica ad un santo.
“Va bene” cedetti, infine “le parlerò. Ma ora fammi andare. Ho bisogno di farmi una bella dormita su ciò che è successo oggi. E faresti bene a farlo anche tu”
“Ok. Hai ragione. Buonanotte Ty”
“Buonanotte piccola”
Lei chiuse il telefono praticamente all’istante. Forse non ebbe il tempo di sentire come l’avevo chiamata, o forse era proprio quello il motivo per cui mi chiuse il telefono in faccia. Ero stato troppo diretto, di nuovo, e ripetere lo stesso errore due volte nella stessa conversazione era sintomo che qualche rotella in me non girasse a dovere, o forse girava fin troppo bene. L’espressione cotto di lei probabilmente non è sufficiente a spiegare la mia situazione, il mio stato d’animo. Devastato eppure mai stato così sereno in vita mia, almeno da quando Michael non c’era più. Era come se avessi trovato un collante per riattaccare i pezzi rotti del mio cuore; forse qualche piccola breccia sarebbe rimasta, una piccola falla microscopica, ma non sufficienti a fare danni di nuovo, almeno finché ci fosse stata lei a tenermi in piedi.

 

Buon Natale Michael, è una vita che non ti parlo, me ne rendo conto. Ma sono stato … un tantino impegnato. Ma immagino che tu lo sappia già, non è così? Da lassù la visuale è senz’altro migliore. È inutile che io ti dica quello che penso, quello che provo, quello che faccio. Sai quanto la amo … e non fare quella faccia nauseata, l’amore non sarà stata cosa per te, ma ricordi cosa dicevi ad Aidan di me? Il mio fratellino è fatto per i fotoromanzi …
Forse avevi ragione, la mia vita assomiglia ad una di quelle soap sudamericane con i sottotitoli e l’audio in ritardo. Anche con nostro padre … hai visto che sceneggiata? Da Oscar, vero?! Mi ripeto che era l’unica cosa giusta da fare ma ora non lo so più … c’è qualcosa che non mi quadra; possibile che fosse davvero l’unica soluzione possibile? Tu ti sei arreso, io non ho intenzione di farlo, perché ho troppe persone al mio fianco per cui vale la pena di continuare a vivere … Caroline, la mamma, sì anche Les e Aidan … e naturalmente lei Allie. Dio che spettacolo Mike, vorrei che la vedessi …
Dicono che amare sia essere se stessi con l’altro; eppure sento di essere cambiato, tantissimo, per lei … e forse anche per me.
Sono senza più parole … conosci i miei dubbi, i miei desideri: come al solito vedi di metterci una buona parola. E salutami la nonna, dille che come fa lei i biscotti di Natale alla mamma non verranno mai!!!
Buon Natale ancora, mi manchi

Avete presente quelle mattine di festa in cui sai che non hai un cazzo da fare e sai che potrai stare a letto fino alle due del pomeriggio perché nessuno verrà a romperti i coglioni e sbatterti giù dal letto? Beh, purtroppo quella mattina non era una di quelle.

Finiti i pranzi-maratone, finiti gli incontri e gli abbracci ipocriti con i parenti, la vita di tutti i giorni ricominciava con il peggiore degli auspici possibili: il ritorno di Aidan nel nostro appartamento, e per lui poco importava che fossero le 6 del mattino e c’era gente che ancora dormiva; fintanto che lui era sveglio e pimpante
“Che ti sei fumato per essere così euforico?” gli chiesi, mentre distrattamente e miracolosamente, riuscii a tenere in mano la tazza di caffè che mi aveva passato. Non stetti a sentire nemmeno una virgola delle sue mirabolanti avventure con l’amica Amish di sua cugina, che  aveva lasciato a quanto pareva la sua famiglia per entrare nella civiltà moderna. Eppure per quanto mi sforzarsi di porre un freno mentale alle sue parole, esse penetravano con insistenza nel mio cervello, senza che io riuscissi a fermale, impregnando di nuovo i miei neuroni di quel fastidio naturale e ai cui mi ero ormai assuefatto dato dalla sua semplice presenza. “È difficile resistermi” si vantò; e purtroppo l’esperienza mi aveva fatto constatare quanto potesse essere veritiera quella sua frase. Altrimenti dopo 5 anni di liceo, tre di università vissuti praticamente fianco a fianco come gemelli siamesi dubito che sarebbe ancora nelle mie vicinanze se mi fosse stato così sulle palle quanto andavo blaterando. Ok, a volte era un coglione-stronzo cronico tendente, ma come Allison l’aveva perfettamente descritto, era un adorabile cagacazzo. Dove sarei io se non ci fosse stato lui a prendermi quel giorno che mio fratello si tolse la vita? Probabilmente nella tomba accanto alla sua, finito sotto un treno o volato già da una delle finestre di casa mia.
Era rincasato tipo da due ore, ma le pulizie di Natale di Allison erano state vanificate in tipo 10 minuti, tempo di fargli usare il piano cottura, la doccia e fargli sparpagliare le valigie di panni puliti che la mamma gli aveva preparato sul divano.
Nel frattempo ascoltai le notizie finanziare al giornale radio e scesi a comprare un giornale di economia al chioschetto più vicino. Era la prima volta che lo facevo in una vita; mi piaceva tenermi informato sulle notizie, ma era il mio giorno della mia intera esistenza che chiesi al giornalaio di darmi una copia del Wall Street Journal e del Financial Times. Probabilmente Charles Hawkins avrebbe storto il naso a vedermi con il Financial tra le mani, ma la mia teoria era che bisognasse leggere le notizie da tutte le prospettive possibili. Anche da quelle più parziali.
Leggere tutte quelle cifre e dargli un significato mi stupì; mio padre mi aveva insegnato da ragazzino, quando per andare in visita alla Borsa con la scuola non volle che fossi impreparato. Mi stupii più che altro di ricordare ancora come si facesse: l’alfabeto cirillico. Per mia madre, era più facile.
Michael invece diceva che quello era un segno: “Tu sei l’erede naturale di nostro padre” mi ripeteva “dagli solo il tempo di capirlo …”
Peccato che di mezzo ci siano passati un divorzio, un suicidio ed una lite talmente insanabile che a confronto rincollare Humpty Dumpty era un gioco da ragazzi.
E più leggevo quegli articoli, più accumulavo dati, più mi rendevo conto che  Michael aveva ragione. Io ero un economista nel sangue: quei soldi che schifavo avrebbero potuto essere fonte della mia fortuna, di quella dell’azienda e di quella della mia intera famiglia. Era possibile reprimere l’indole personale? Non lo sapevo ma contavo di farlo, perché non mi sarei ridotto ad uno sciacallo speculatore, innamorato del denaro ed impiegato part time con i propri affetti. Non mi sarei ridotto come mio padre.
“Mh” biascicò Aidan alle mie spalle, mentre masticava una fetta di pane tostato, comparendo all’improvviso alle mie spalle “prova a raccontagli del Dow Jones oggi ai nostri clienti, magari otteniamo il premio di produzione”.
Ecco il mio vero problema, la fantasia. Mi è bastato un articolo di giornale per vedermi guru della finanza, in piena crisi finanziaria per giunta: che tempismo! La verità era che mi aspettava una nuova giornata di lavoro in libreria, in pieno periodo di svendite post natalizie? Anche in libreria, chiederete voi … ebbene sì, soprattutto dal momento che il boss non ha intenzione di mantenere in magazzino copie di libri ordinati appositamente per il Natale come “Il manuale fai-da-te per fare un nano da giardino” o “Le ricette della cucina tradizionale pannone”, logicamente invendute. E ora stava a noi l’arduo compito di promuoverli e venderli. In più bisognava riordinare tutti gli scaffali e far posto alle decorazioni per la fine dell’anno.
Odiavo il capodanno; per Aidan era un’occasione come un’altra per fare baldoria e strafarsi, per me un’occasione come un’altra per essere trascinato a forza in locali troppo bui e troppo affollati. Mi rasserenava il fatto che avrei avuto una buona scusa per defilarmi quest’anno. Ultimo tango a Parigi era un film che Allison doveva assolutamente vedere ed era perfettamente in grado di non offendersi per la sessualità esplicita che le avrei proposto con quelle scene.
“Ohi che mi dici di Allison?” chiese Aidan urlando, tra i clacson dell’ora di punta del mattino freddo e inquinato di New York, mentre per attraversare l’incrocio bisognava pregare che non sbucasse nessun pony express in bicicletta che andava di fretta. Un giorno o l’altro il sottoscritto sarebbe rimasto gambizzato …
“avete concluso qualcosa? E parlo di quel qualcosa Tyler, perché lo so che sei troppo imbranato per riuscire a concludere dal punto di vista sentimentale”
“Ma che cazzo…?!” “Oh andiamo!” non ebbi nemmeno il tempo di protestare che subito si rifece lui sotto “sappiamo entrambi che se fosse stato per te non l’avresti più vista dopo la notte in quel locale … le ragazze normali solo a letto te le porti facilmente, per chiedergli un appuntamento ci metti dalle due alle quattro settimane. Figuriamoci con lei”
Touché. Cos’altro avrei potuto aggiungere che non fosse così dannatamente vero? Ma fui aiutato dal ritardo e dalla figura del boss in allerta all’ingresso della libreria, così mi misi a correre con Aidan che mi seguiva, col fiatone, verso l’ingresso secondario.
 
Quando una giornata inizia di merda, sinceramente, quante sono le speranze che si raddrizzi? A mio parere, veramente poche. Non solo ci beccammo la mazzolata del secolo per il ritardo mostruoso di 20 minuti. Come facemmo ad arrivare in ritardo essendo svegli dalle sei, ancora dovevo capirlo, ma questo mio processo mentale a ritroso per trovare una scusa non mi evitò la sezione libri per l’infanzia. Che strazio! Quelle musichette da carillon dei libri per i più piccoli mi mettevano un’ansia addosso insospettabile, mi sembrava di essere in qualche film dell’orrore e mi mettevano addosso una sconcertante voglia di piromania addosso. Rimettendo a posto dei libri sulla mitologia greca per ragazzi mi venne in mente la mia Caroline, a cui poco tempo prima ne avevo regalato uno molto simile, per quanto fosse più brava del disegnatore, era affascinata dalle illustrazioni di quel libro, e quella giustificazione bastava per rileggerlo ogni volta daccapo o anche solo sfogliarlo.
Per fortuna quanto accaduto nei giorni precedenti non l’aveva turbata più di tanto, anzi, era stata abbastanza in grado di accettare le ragioni per cui io non l’avrei accompagnata alla cena che nostro padre tradizionalmente ci offriva a S.Stefano. E con nostra madre tutto s’era risolto come avevo previsto: una bella risata da parte sua e una carezza rassicurante ad Allison, che per poca conoscenza del soggetto, s’era presa un brutto spavento.
“Imparerai anche tu a conoscerlo purtroppo” liquidò in fretta l’argomento mia madre.
Si poteva dire che anche quella era passata.
“Ma si può sapere dove cazzo hai messo il cellulare?” raffinata quanto uno scaricatore di porto, Allison si fece avanti a grandi falcate lungo gli scaffali della libreria, noncurante dei clienti che rispettavano il silenzio imposto nel locale e della moderazione del linguaggio richiesta nella zona bimbi. Sembrava un’amazzone, con quel broncio che si portava dietro. Il problema vero era che, purtroppo, era rivolto a me, qualsiasi cosa le avessi fatto.Alzai le mani in alto in segno di resa, sorridendole: “Buongiorno, Allison!” “Buongiorno a te, idiota!” esclamò. Cos’è che avevo detto? Ah, sì: giornata di merda. “Spero che almeno la testa al lavoro ce la porti: dov’è il tuo telefono?”
Oh cazzo! Lo sfilai dalla tasca dei jeans, convinto di averlo lasciato lì, per giunto acceso, per tutta la notte. Morto, giustamente. Datemi un muro per sbattere la testa, vi supplico.
“Scusa … è tornato Aidan ed è da stamattina che non ci capisco più niente. Lo capisci che mi ha svegliato alle sei?”
“Aidan è tornato?! Dov’è quel coglione! Devo farlo crepare di botte: non s’è neanche fatto sentire per gli auguri …”
“È nella zona letteratura religiosa. Ma io non andrei se fossi in te… non vorrei incappare in qualche fanatico avventista del settimo giorno…” “Tyler non tentare di farmi cambiare argomento!!! Sono profondamente incazzata con te, ho il ciclo e le ovaie rigirate … questa mattina non volevo uscire e sono stata costretta perché qualcuno era irraggiungibile”
“Ma perché” mi allarmai “è successo qualcosa?”
Per quanto ne sapevo, tutti eccetto me erano ancora a casa per le vacanze e mia madre, Les e Caroline sarebbero partiti solo l’indomani per la settimana bianca, lasciando a me ed Allison la casa libera per ben 10 giorni … Tyler, un po’ di contegno. Porca puttana!
“Nooooooo … solo un centinaio di chiamare non risposte al cellulare da parte di tuo padre. Pensava che fossi da noi così ha chiamato a casa”
“Mio padre?” chiesi, palesemente sorpreso “che vuole?”
“E io che ne so” rispose Allison, terribilmente inacidita. Speriamo il ciclo le duri poco … non ho intenzione di mandare all’aria il mio programmino di capodanno. Tyler, basta! “Ha detto che devi andare nel suo ufficio da solo oggi pomeriggio, deve parlarti. Di più non ha detto. Però ha scassato così tanto che alla fine mi sono offerta di venire ad avvertirti di persona. E visto che a casa tua non c’eri … beh, ovviamente eccomi qui.”
“Grazie per esserti scomodata, ma non se ne parla” chiusi lì, freddo e duro, distaccato a sufficienza da dimostrare quanto poco tenessi a lui. Purtroppo la situazione era un’altra. Quell’uomo rimaneva pur sempre mio padre e, per quanto mi imponessi di tenerlo lontano, era un meccanismo che poteva funzionare solo se applicato da me. Ad chiunque me lo ricordava, il lavoro fatto si sgretolava. E di nuovo lo tsunami di dubbi tornava alla carica, man mano che il tempo passa.
“Non fare lo scemo. Tu ci vai eccome!” disse imperiosa mentre per un braccio mi trascinava lungo la libreria che ormai conosceva piuttosto bene. “Ray!” urlò ad uno dei responsabilità “Ty si prende una pausa!” Ray capì che non doveva nemmeno osare a fare domande.
Davanti ad una ciambella e ad un caffè caldo, la mia visione delle mie cose non cambio di un millimetro. Ero soddisfatto della mia tenacia, dote che non ero assolutamente conscio di possedere. Ed invece riuscivo a non demordere. Era la cosa migliore non vederlo, qualsiasi cosa avesse da dirmi; anche se stargli lontano faceva senz’altro un po’ male, stargli affianco avrebbe significato calpestare ogni mia convinzione.“Devo ricordarti le parole che mio padre ti ha riservato l’altro giorno Allie?” le chiesi. Non avrei voluto ricordarle una cosa così brutta, ma le non sembrò toccata più di tanto. Estrasse un bigliettino dalla sua borsa e me lo passò: era la terribilmente perfetta grafia di mio padre, che si scusava con la signorina Allison Eugenia Riley per il suo comportamento riprovevole e si riprometteva un nuovo incontro pacificatore.
“Il tutto accompagnato da tre dozzine di rose. Sono arrivate stamattina” commentò, senza lasciare che alcuna emozione le segnasse il viso. Era disillusa, forse? O pensava di non dovermi influenzare?
“Senti Allison” forse le avrei fatto male, ma di quell’uomo doveva conoscere fino in fondo lo schifo di cui era capace “quelle scuse, beh veramente …”
“Gliele hai suggerite tu? Naturalmente … ma lo ha fatto. E questo dimostra che almeno a te ci tiene. Per cui vai e ci parli.”
“Per dirgli cosa esattamente?” rimbeccai, mi dava fastidio non avere ragione su un argomento come quello. Sembravamo essere tornati indietro di un paio di giorni, quando Allison era impegnata a convincermi che dovevo andare a trovare mio padre il giorno di Natale. E quello che era successo proprio quella sera, certo non mi aiutava a scegliere favorevolmente per un nuovo incontro.
“Beh, intanto tu ascolti quello che vuole dirti lui” rispose, calma e decisa “e poi deciderai, civilmente, come comportarti, senza sclerare come ha fatto l’ultima volta”
“Ah perché ora ho io la colpa!” sbraitai “lui ti chiama puttana e io ho la colpa!” risi shockato dalle sue parole: non pensavo potesse arrivare a tanto. Poteva non dare peso alle offese che mio padre le aveva rivolto, poteva essere rimasta impressionata dalle sue scuse, ma non le avrei permesso di addossarmi la colpa. Mentre mi intimava di fare silenzio, visto che nella caffetteria ci stavano praticamente guardando tutti, mi afferrò le mani con le sue; erano due ghiaccioli, come al solito, così toccò a me raccogliere le sue tra le mie.
“Sai bene che non è quello che intendevo dire” si corresse, mortificata “ma vorrei solo che avessi un po’ di contegno con lui. Che lo rispettassi un po’ per ciò che rappresenta. È tuo padre … se fosse vivo il mio o se avessi l’opportunità di riavvolgere il nastro con mia madre … forse la coda la terrei un po’ di più tra le gambe. Non rovinare la tua famiglia”
Capivo la sua prospettiva, ma il punto era che quella famiglia non esisteva più da un po’, e non certo per colpa mia. E preferivo conservare gli stracci che mi restavano piuttosto che tentare un rattoppo estremo, destinato a non funzionare. Tanto con Charles significare tornare punto e accapo ogni volta. E oltre a farmi male, il che rappresentava il problema minore, avrei fatto male a mia sorella e questo non lo tolleravo.
“Telefonagli almeno” incalzò, passandomi il suo cellulare “così puoi valutare senza doverlo vedere per forza in faccia”.
Mi strizzò l’occhio – ricordava ogni minima cosa le confidassi e questo mi istillava un’incredibile fiducia in lei – e composi il numero, sbuffando come quel bimbo di otto anni a cui la madre ha imposto di fare i compiti invece di stare davanti ai videogiochi.
Naturalmente dovetti passare prima per la zona filtro delle tre segretarie: quella generale, quella del suo piano e la sua personale. Janine, che mi conosceva da una vita, ebbe molto piacere di risentirmi e lo stesso valeva anche per me. Lei come tutti quelli che conoscevano di mio padre solo il lato professionale, ne tessevano le lodi ogni giorni e lo stimavano particolarmente come un lavoratore insaziabile. Il problema era che io e mia sorella non avevamo bisogno di un lavoratore, bensì di un padre.
“Tyler” mi rispose mio padre con il suo solito tono piatto “finalmente!”
“Scusa, avevo il telefono scarico ed ero a lavoro. È stata Allison ad avvisarmi”
“Molto gentile da parte sua … salutamela”
Sentivo che faticava a parlare di lei, ma almeno l’aveva digerita, cosa che volente o nolente prima o poi avrebbe dovuto fare perché non avevo intenzione di lasciarla andare da nessuna parte.
“Cosa c’è?” tagliai corto “mi ha detto Allison che vuoi vedermi”
“Sì” rispose lui e lo sentii diventare alquanto turbato “si tratta di una questione delicata e non mi va di parlarne al telefono”
Non capivo di cosa parlasse. Non avevamo mai discusso di affari di famiglia, né di eredità o cose simili. Ero decisamente frastornato.
“Che … che tipo di questione?” domandai.
“Ci vediamo oggi pomeriggio verso le 5 nel mio ufficio. Finisco una riunione e sono completamente libero, non ho altri impegni. Avremo il tempo di parlare con calma”
Lui che non aveva altri impegni mi suonava come nuova; di solito la frase era ho un’ora sola, facciamo in fretta. Ora invece era completamente libero: era sempre stato libero e ci mentiva regolarmente, oppure finalmente aveva cambiato atteggiamento? Era bastata la mia sfuriata a farlo cambiare così. L’avessi saputo me ne sarei occupato prima. In ogni caso, non dimenticai quanto manipolatore sapesse essere, quindi decisi di non fidarmi troppo di lui, non avevo intenzione di scottarmi.
“Se non mi dici di che si tratta non vengo” minacciai, anche se ero troppo curioso per dargli davvero buca. Allison di fronte a me alzò gli occhi al cielo e le sorrisi, ammiccando divertito.
“Ho delle buone notizie … su Allison”
Mi prendeva in giro o cosa? Mi vidi riflesso nello sguardo mutato di Allison, dallo spensierato al inquieto. “Che significa?” domandai.
“Vieni qui e lo saprai” ribatté mio padre “ma non ne fare parola con lei per il momento … come ti ho spiegato è una faccenda complicata”
E non ne feci parola. In un lampo ripensai al nostro ultimo incontro ed ebbi come dei flash che scorrevano nella mia mente: i segugi di mio padre, Allison, il locale. Però erano buone notizie, aveva detto: eppure non riuscivo a stare tranquillo.
Mantenni la promessa, accampando ad Allison la prima scusa che mi venne in mente e chiedendole di tornarsene a casa. Lei sembrò bersela, o quantomeno finse di farlo, ma se non poteva avere la verità da me, almeno aveva ottenuto che mi vedessi con mio padre e questo bastò per risollevarle il morale.

Finito il turno e sistematomi un poco (il che significava jeans puliti e una camicia che non fosse a quadri) mi ritrovai all’ingresso dell’Empire State Building.

La società di mio padre si era trasferita lì dal 2002, quando riuscì a risollevarsi dal disastro del World Trade Center intascando i soldi dell’assicurazione. Purtroppo nell’economia i morti non c’è il tempo di piangerli, soprattutto se sei quotato in borsa. E così, sistemati gli uffici e trovato nuovo personale, la “Hawkins Communications” e la sua sorella maggiore “Steven&Jacobs Publications” si erano rimesse in marcia, sotto l’egida di Charles Hawkins che ne aveva approfittato per mangiarsi i suoi due soci e divenire azionista di maggioranza. Mors tua vita mea, dicevano i latini. E cazzo se avevano ragione.
Sembrava di essere in uno di quei film anni Ottanta sull’alta finanza, dove tutti sono rigorosamente in giacca e cravatta e non cavi alle persone un sorriso di bocca neanche dopo una serie di giornate positive a Wall Street. Sembravano tutti essere troppo indaffarati nei propri affari, per badare a segnali di vita che andassero oltre agli indici di gradimento nei loro grafici o alle altalene degli indici di Borsa.
Eppure ad alzare lo sguardo, al mio passaggio, tutti erano subito pronti a richiamare il collega sull’attenti e a far partire i regolari salamelecchi. Mettevo piede veramente di rado in quell’edificio, ma per loro ero sempre il figlio del capo ed erede dell’impero, ed ognuno lì era impegnato a mantenersi ben stretto il suo posto di lavoro, la bella poltrona di pelle e la scrivania in frassino. Oltre allo stipendio d’oro e al caffè caldo e ciambella gratis al mattino.
Dalla Hall fui spedito al 75esimo, dove c’era la segreteria della società. Salii poi fino al 90esimo piano, dove gli uffici del grande capo. Appena le porte dell’ascensore si aprì, trovai Janine seduta alla sua scrivania. Il tempo passava, ma restava sempre una bellissima donna. Pur rigorosa nel suo tailleur nero gessato e comoda nelle sue scarpe basse, non dimenticava di viziarsi un po’ con i foulard di Hermes, l’unica sua vera debolezza a sentirla parlare.
“Chi non muore si rivede” mi disse, vedendomi.
Le sorrisi “È bello rivederti Janine … grazie per il regalo di Natale!”
“Dio Tyler ho combinato un bel guaio, non avevo idea…”. Sembrava così contrita, ma io volevo solo fare una battuta. “Ma non è colpa tua!” la rassicurai “tu non potevi sapere … d’altronde  dovrebbe occuparsi lui di quelle cose …”
“Vieni dai” cambiò argomento, conducendomi verso l’ufficio di mio padre, poggiando una mano sulla spalla “ti sta aspettando”
“Com’è il suo umore?” chiesi, tanto per andarci prevenuto.
“Basta che non gli fai venire un infarto come al tuo solito e vedrai che andrà bene” sorrise, strizzando l'occhio impertinente. Sapeva del mio pessimo carattere, e sapeva altrettanto bene quanto lui non lo soffrisse. “Cerca di non bere troppo caffè, ti rende nervoso” mi consigliò, con candida insolenza.
“Charles c’è tuo figlio” mi annunciò e da dentro la voce che così tanto mi dava i nervi mi richiamò a sé. Entrai, chiudendomi la porta alle spalle.
Parlammo del più e del meno per 10 minuti, intercalando frasi fatte modi di dire ad argomenti di conversazione generali, come il meteo, il lavoro, e le notizie del giorno.
Nel momento in cui avevamo ormai esaurito ogni distrazione dal vero motivo per cui mi aveva convocato, arrivò il telefono a toglierci dall’imbarazzo di quel silenzio che si stava diffondendo tra un sorso di caffè e l’altro.
“Non mi interessa che siano i Cinesi o chiunque altro. Vi ho già ripetuto che sono impegnato con mio figlio e non vogliono essere disturbato”
Non l’avevo mai sentito parlare così, e si vedeva che era certamente imbarazzato dal pronunciare queste parole in mia presenza, nel mostrarsi così vulnerabile proprio davanti a me, che per una vita l’avevo ritratto come un despota burbero e dal cuore di pietra.
Chiuso il telefono in faccia persino a Janine, si sedette alla sua bella scrivania ed estrasse un fascicolo giallo che, senza dire una parola, mi passò.
“Cos’è?” chiesi, titubante e non ricevetti alcuna risposta, ad esclusione di un cenno che sembrava un invito evidente ad aprire la cartella.
Sfilai l’elastico e sfoglia un plico di carte su cui erano segnati dati anagrafici ed una serie di nomi di città con delle cifre, che potevano significare tutto o niente, non reputandoli di grande importanza, non mi soffermai a leggere le piccole scritte in grassetto. Fin quando, pietrificato, mi ritrovai di fronte alla foto di una ragazzina, da primo anno di liceo, o forse qualcosa in pià. La strappai con foga dal foglio su cui era stata attaccata con la spillatrice e la guardai più attentamente, mentre la cartella e i suoi fogli caddero a terra, ma non me ne curai; tutto quello che mi interessava al momento, era la ragazzina della fotografia, che io conoscevo evidentemente molto bene.
Girai la foto, notando in controluce il calco di una scritta nella carta plastificata della foto: 20 Gennaio 2007, 15 anni.
Due anni fa, quasi tre ormai. Prima della tragedia, prima che diventasse la piccola donna che io conoscevo, prima d che noi … e mio padre aveva una sua fotografia nel suo ufficio, in una cartelletta da investigatore privato.
“Fino a dove si può spingere la tua sete di controllo? Come hai avuto questa fotografia, maiale!” lo aggredii solo con le parole, perché la mia voce non reputava nemmeno di dover perdere fiato con quell’uomo.
“Non è come credi” rispose calmo “lasciami spiegare”
Si alzò dalla sua poltrona e si portò verso la finestra, a guardare fuori, a distogliere i suoi occhi da me, a nascondermi il suo sguardo.
“Era da poco che Michael …” iniziò, e sembrò già non farcela “questa coppia di Indianapolis“si presentò qui a chiedermi aiuto. La loro figlia maggiore Allison era scappata di casa, ed avevano ricevuto delle segnalazioni da New York, ma nessuno nella polizia aveva voluto dargli retta, così sono venuti da me, sperando che potessi aiutarli”
“Io … lo so che sembra strano detto da me … ma non potevo tollerare che quelle persone potessero soffrire come stavo soffrendo io, avevano già perso la figlioletta. Così per farla breve decisi di aiutarli, ma dopo un iniziale successo in un piccolo bar notturno di Harlem sembrò sparita letteralmente nel nulla”
Ero in uno stato tra il rigor mortis ed i’euforico, shockato non basta per descrivere le montagne russe di sensazioni ed emozioni che si alternavano tra testa e cuore. Felice, eccitato, disperato, terrorizzato: e tutto allo stesso momento, dire che erano un tantino sopraffatto era un eufemismo.
“Aspetta un momento” intervenni, riacquistando lucidità “non mi pare di aver capito bene: hai detto una coppia giusto?”
“Sì” rispose lui affermativamente “lui è uno dei nostri migliori impiegati”
“Ma questa è una notizia meravigliosa …” ma lui non poteva capire, non sapeva “Allison non sa che suo padre è vivo! È convinta che non si sia risvegliato più dopo il coma”
“Beh …” replicò lui “non era proprio in formissima quando ci siamo incontrati, ma da allora sono passati due anni, scommetto che ha recuperato alla grande”
“Ma tu … non li senti più?” indagai “non dopo che si sono perse le tracce. Ecco perché mi ero dimenticato completamente di lei … questo fascicolo c’ho messo una notte intera per riesumarlo da casa mia”
E dire che era un maniaco del controllo e dell’ordine.
Mi ricordai di quella sera, per la prima volta da quando ero con lui. Lui sapeva chi era, sapeva benissimo con chi aveva a che fare, ma non aveva esitato un secondo ad offenderla ed umiliarla.
“Dimmi una cosa” mi feci avanti, di nuovo serio “perché lo stai facendo? Per rispedirla da sua madre in modo che io non possa più vederla? Perché sinceramente è un po’ antiquato come metodo … esistono le web cam ed esistono gli aerei che ti piaccia o no”
“Senti Tyler …” provò ad intervenire ma non gli lasciai mettere due parole di fila.
“Lo sai perché se n’è andata di casa? Perché sua madre era proprio come te, forse è per questo che vi siete trovati. La figlia era distrutta e non trovava di meglio che insultarla e darle della troietta, invece che starle vicino e cercare di correggerla come ogni madre sana di mente avrebbe fatto”
“Smettila Tyler” si impose “io non avevo idea di chi fosse quando l’hai portata a casa, la sera di Natale. In quanti siamo a New York, ci saranno migliaia di Allison. Ed è stato solo dopo che mi hai detto il suo cognome e che sua padre lavorava per me che ho unito tutti i pezzi del puzzle. Indianapolis, il suo nome, suo padre.”
“Come sarebbe a dire che non sapevi niente su di lei? Non è possibile! Sai meglio di me dove, come e quando l’ho conosciuta e i tuoi cani da riporto non sono stati capaci di saperne di più?!” Non volevo deriderlo, eppure era esattamente quello che venne fuori dai miei sputi di parole insolenti.
“Oh Tyler non essere stupido!” mi ammonì “Allison è come se non esistesse per l’America: i suoi documenti sono falsi, non ha nome o ne ha mille, nel bar dove lavorava era solo una sigla con tre iniziali e non certo andavano a raccontare al primo che passa i loro affari.”
E anche lui c’aveva ragione.
“Io non sapevo chi fosse” mi supplicò di credergli e volli fidarmi
“Ma questo non giustifica quello che hai detto. Io … credo di aver bisogno di una boccata d’aria”
Me ne andai intascando la fotografia di quella ragazzina dell’Indiana, che ancora non sapeva che il suo desiderio più grande era realtà. Sarebbe toccato a me dirglielo e non sarebbe stato facile. Non avrei mai potuto presentarmi da lei e dire: “Ciao, lo sai che tuo padre è uscito un annetto fa dal coma, ti va di andare al McDonald?”
Né andava fatta una tragedia alla Re Lear di Shakespeare. Non ero il miglior comunicatore, ma ero l’unica persona in grado di poterle dare una notizia del genere. Ci voleva tatto, sensibilità e una gran dose di fiducia reciproca.
Presi la mia bici fuori dal grattacielo ed iniziai a sfrecciare incurante del freddo pomeriggio di New York lungo il traffico della città, sormontato da quegli imponenti dominatori dell’aria, mentre nuvole di smog mi drogavano ed uccidevano respirando a pieni polmoni.
Dopo nemmeno un paio di isolati mi sentii già affamato d’aria pulita; forse era lo smog, forse la massiccia dose di novità che mi aveva preso in pieno come un treno in corsa o forse, più semplicemente, paura di dirle la verità e scoprire che non ero una ragione sufficiente ad impedirle di andarsene via da me.

















NOTE FINALI
Chiedo scusa per aver tardato nell'aggiornamento. Ma come già vi dissi in precendenza non diamoci più una data perché non so se l'ispirazione o altro mi daranno la possibilità di essere costante.
Non so cosa dire di questo capitolo. Spero possa parlare da solo.
Il resto ditemelo voi...lasciate che siano le vostre emozioni a parlare.
Vi aspetto

p.s.:appena potrò risponderò a tutte le recensioni del vecchio capitolo. Croce sul cuore =)


à bientot
Federica
   
 
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