Capitolo 19
Empire State of Mind
“Lei come sta?”
“Imbronciata. Appena siamo tornate a
casa è corsa su per le scale senza salutare nessuno e si è chiusa in camera sua.
Adesso dorme” mi rispose Allison, senza preoccuparsi troppo di nascondere la
apprensione per quella bambina, che ormai considerava quasi come una sorella. “Ma
le passerà, vedrai” continuò, con fermo ottimismo “credo ce l’abbia con suo
padre più che altro. Non è stupida, ha capito come stanno le cose … e ti vuole
troppo bene per prendersela con te”
Lo speravo davvero tanto, perché
sbagliavo di continuo con le persone a cui volevo bene e, per una volta che mi
sentivo di aver fatto la cosa giusta per difenderne una, non volevo pagare un
prezzo troppo alto.
“Tu come stai?” continuò lei,
probabilmente in pensiero dopo avermi visto con gli occhi rossi e le orecchie
fumanti di rabbia, come nelle migliori vignette.
“Io … io non lo so” risposi
candidamente “ancora un po’ frastornato a dire il vero. Io … io non ho saputo
resistere, tu lo capisci” e la mia voce iniziò ad accelerare il discorso,
volevo trovare una scusa, un appiglio per quanto avevo fatto, pur non
essendocene bisogno, pur trovando corretto il mio agire. Ma lei comprese e mi
freno: “Sì, sì lo capisco … lo sai, ci sono passata anch’io”
Si prese un attimo per riflettere, una
pausa necessaria ad entrambe per riordinare le idee ancora incasinate nelle
nostre teste. Era un bene che fossimo al telefono; gli sguardi bassi e scuri, i
crucci e i rancori di quella giornata così lunga e difficile era meglio
tenerseli per sé. Non volevo che mi vedesse agitato com’ero né io volevo
vederla triste; avrebbe riportato a galla ricordi poco piacevoli e trasmesso in
me ulteriori istinti violenti che stavo cercando con tutte le mie forze di
reprimere.
“Però” riprese lei “voglio che domani
tu venga qui e parli con lei … e con tua madre”
Già, mia madre. Probabilmente era
quella la cosa che la preoccupava di più, oltre me e mia sorella. Aveva trovato
in lei una figura di supporto insostituibile: un surrogato materno, un’amica,
una zia, una sorella maggiore, mia madre era tutto per lei, si fidava di lei
molto di più di me e cercava di non deluderla mai.
Ma io conoscevo Charles abbastanza da
sapere che non c’era nulla da temere.
“No piccola, stai tranquilla. Non
accadrà nulla di male … Charles vuole solo metterci paura, ma non passerà mai
dalle parole ai fatti”
Mi lasciai scappare un sorriso, vuoi
anche per incoraggiarla e lasciare che distendesse i nervi. L’avevo chiamata piccola e avrei sinceramente voluto
mangiarmi la lingua: a giudicare da una reazione che non avvenne non doveva
aver notato quella parola in più che avevo messo e per lei non doveva avere il
significato che aveva per me. Meglio così, mi risparmiava un sacco di scuse
campate per aria. Me la immaginavo seduta sulla poltrona, in camera sua, a
piedi scalzi e lì appollaiata nella posizione più contorta, a dimostrazione che
gli anni da ballerina di lap dance le hanno conferito una elasticità
invidiabile, leggings neri e maglia bianca del sottoscritto sformata e
sbiadita, leggermente pendente sulle spalle da lasciar vedere il reggiseno nero.
E la coda di cavallo che arrangiava in quella maniera così strana che mia
sorella ogni volta la guardava come se avesse visto un fantasma.
“Tyler non è il momento di scherzare”
mi rimproverò la mia maestrina, destandomi dalle mie fantasie senza speranza;
era più grande di lei di oltre 4 anni, eppure lei era la mamma ed io il bambino
scalmanato di 5 anni da mettere in riga “sto parlando sul serio. Domani le spieghi la situazione ed io mi troverò un
posto dove stare. In qualche modo riuscirò a trovare i soldi per l’affitto,
dovessi anche …”
“Dovessi anche cosa Allison? Non
voglio più sentire una cosa del genere … non mi sono fatto spaccare la faccia
per farti andare via da quel locale e farti pagare l’affitto di un appartamento
a suon di prestazioni sessuali” quella era una cosa che non tolleravo; mi aveva
fatto sempre schifo parlarne, figurarsi ora che quello spettro sembrava essere
svanito dalle nostre vite, dalla sua vita, una volta per tutte.
“Tyler ma sei matto! Non ho intenzione
di fare più la puttana … dicevo, anche a costo di mettermi a fare la donna
delle pulizie nei cessi della metro”
Tirai un sospiro di sollievo. Erano le
stesse parole che avevo usato io tempo addietro per convincerla a lasciare
quella bettola. Umile ma onesta, era quella la Allison che preferivo.
“In ogni caso” continuai “se proprio
non ti trovi bene da mia madre verrai a stare da me. Ma non hai motivo di
temere, mio padre non vi torcerà un capello nemmeno metaforicamente”
“Tyler” mi richiamò lei. “Dimmi” le
sussurrai, dolcemente.
“Prometti che le parlerai” le sue parole alle mie orecchie suonarono come una
preghiera, l’ultima supplica ad un santo.
“Va bene” cedetti, infine “le parlerò.
Ma ora fammi andare. Ho bisogno di farmi una bella dormita su ciò che è
successo oggi. E faresti bene a farlo anche tu”
“Ok. Hai ragione. Buonanotte Ty”
“Buonanotte piccola”
Lei chiuse il telefono praticamente
all’istante. Forse non ebbe il tempo di sentire come l’avevo chiamata, o forse
era proprio quello il motivo per cui mi chiuse il telefono in faccia. Ero stato
troppo diretto, di nuovo, e ripetere lo stesso errore due volte nella stessa
conversazione era sintomo che qualche rotella in me non girasse a dovere, o
forse girava fin troppo bene. L’espressione cotto
di lei probabilmente non è sufficiente a spiegare la mia situazione, il mio
stato d’animo. Devastato eppure mai stato così sereno in vita mia, almeno da
quando Michael non c’era più. Era come se avessi trovato un collante per
riattaccare i pezzi rotti del mio cuore; forse qualche piccola breccia sarebbe
rimasta, una piccola falla microscopica, ma non sufficienti a fare danni di
nuovo, almeno finché ci fosse stata lei a tenermi in piedi.
Buon Natale Michael, è una vita che non ti
parlo, me ne rendo conto. Ma sono stato … un tantino impegnato. Ma immagino che
tu lo sappia già, non è così? Da lassù la visuale è senz’altro migliore. È
inutile che io ti dica quello che penso, quello che provo, quello che faccio.
Sai quanto la amo … e non fare quella faccia nauseata, l’amore non sarà stata
cosa per te, ma ricordi cosa dicevi ad Aidan di me? Il mio fratellino è fatto
per i fotoromanzi …
Forse avevi ragione, la mia vita assomiglia ad
una di quelle soap sudamericane con i sottotitoli e l’audio in ritardo. Anche
con nostro padre … hai visto che sceneggiata? Da Oscar, vero?! Mi ripeto che era
l’unica cosa giusta da fare ma ora non lo so più … c’è qualcosa che non mi
quadra; possibile che fosse davvero l’unica soluzione possibile? Tu ti sei
arreso, io non ho intenzione di farlo, perché ho troppe persone al mio fianco
per cui vale la pena di continuare a vivere … Caroline, la mamma, sì anche Les
e Aidan … e naturalmente lei Allie. Dio che spettacolo Mike, vorrei che la
vedessi …
Dicono che amare sia essere se stessi con
l’altro; eppure sento di essere cambiato, tantissimo, per lei … e forse anche
per me.
Sono senza più parole … conosci i miei dubbi, i
miei desideri: come al solito vedi di metterci una buona parola. E salutami la
nonna, dille che come fa lei i biscotti di Natale alla mamma non verranno
mai!!!
Buon Natale ancora, mi manchi
Avete presente quelle mattine di festa
in cui sai che non hai un cazzo da fare e sai che potrai stare a letto fino
alle due del pomeriggio perché nessuno verrà a romperti i coglioni e sbatterti
giù dal letto? Beh, purtroppo quella mattina non era una di quelle.
Finiti i pranzi-maratone, finiti gli
incontri e gli abbracci ipocriti con i parenti, la vita di tutti i giorni
ricominciava con il peggiore degli auspici possibili: il ritorno di Aidan nel
nostro appartamento, e per lui poco importava che fossero le 6 del mattino e
c’era gente che ancora dormiva; fintanto che lui era sveglio e pimpante…
“Che ti sei fumato per essere così
euforico?” gli chiesi, mentre distrattamente e miracolosamente, riuscii a
tenere in mano la tazza di caffè che mi aveva passato. Non stetti a sentire
nemmeno una virgola delle sue mirabolanti avventure con l’amica Amish di sua
cugina, che aveva lasciato a quanto
pareva la sua famiglia per entrare nella civiltà moderna. Eppure per quanto mi
sforzarsi di porre un freno mentale alle sue parole, esse penetravano con
insistenza nel mio cervello, senza che io riuscissi a fermale, impregnando di
nuovo i miei neuroni di quel fastidio naturale e ai cui mi ero ormai assuefatto
dato dalla sua semplice presenza. “È difficile resistermi” si vantò; e
purtroppo l’esperienza mi aveva fatto constatare quanto potesse essere
veritiera quella sua frase. Altrimenti dopo 5 anni di liceo, tre di università
vissuti praticamente fianco a fianco come gemelli siamesi dubito che sarebbe
ancora nelle mie vicinanze se mi fosse stato così sulle palle quanto andavo
blaterando. Ok, a volte era un coglione-stronzo cronico tendente, ma come
Allison l’aveva perfettamente descritto, era un adorabile cagacazzo. Dove sarei
io se non ci fosse stato lui a prendermi quel giorno che mio fratello si tolse
la vita? Probabilmente nella tomba accanto alla sua, finito sotto un treno o
volato già da una delle finestre di casa mia.
Era rincasato tipo da due ore, ma le
pulizie di Natale di Allison erano state vanificate in tipo 10 minuti, tempo di
fargli usare il piano cottura, la doccia e fargli sparpagliare le valigie di
panni puliti che la mamma gli aveva preparato sul divano.
Nel frattempo ascoltai le notizie
finanziare al giornale radio e scesi a comprare un giornale di economia al
chioschetto più vicino. Era la prima volta che lo facevo in una vita; mi
piaceva tenermi informato sulle notizie, ma era il mio giorno della mia intera
esistenza che chiesi al giornalaio di darmi una copia del Wall Street Journal e
del Financial Times. Probabilmente Charles Hawkins avrebbe storto il naso a
vedermi con il Financial tra le mani, ma la mia teoria era che bisognasse
leggere le notizie da tutte le prospettive possibili. Anche da quelle più
parziali.
Leggere tutte quelle cifre e dargli un
significato mi stupì; mio padre mi aveva insegnato da ragazzino, quando per
andare in visita alla Borsa con la scuola non volle che fossi impreparato. Mi
stupii più che altro di ricordare ancora come si facesse: l’alfabeto cirillico.
Per mia madre, era più facile.
Michael invece diceva che quello era
un segno: “Tu sei l’erede naturale di nostro padre” mi ripeteva “dagli solo il
tempo di capirlo …”
Peccato che di mezzo ci siano passati
un divorzio, un suicidio ed una lite talmente insanabile che a confronto
rincollare Humpty Dumpty era un gioco da ragazzi.
E più leggevo quegli articoli, più
accumulavo dati, più mi rendevo conto che
Michael aveva ragione. Io ero un economista nel sangue: quei soldi che
schifavo avrebbero potuto essere fonte della mia fortuna, di quella
dell’azienda e di quella della mia intera famiglia. Era possibile reprimere
l’indole personale? Non lo sapevo ma contavo di farlo, perché non mi sarei
ridotto ad uno sciacallo speculatore, innamorato del denaro ed impiegato part
time con i propri affetti. Non mi sarei ridotto come mio padre.
“Mh” biascicò Aidan alle mie spalle,
mentre masticava una fetta di pane tostato, comparendo all’improvviso alle mie
spalle “prova a raccontagli del Dow Jones oggi ai nostri clienti, magari
otteniamo il premio di produzione”.
Ecco il mio vero problema, la fantasia.
Mi è bastato un articolo di giornale per vedermi guru della finanza, in piena
crisi finanziaria per giunta: che tempismo! La verità era che mi aspettava una
nuova giornata di lavoro in libreria, in pieno periodo di svendite post
natalizie? Anche in libreria, chiederete voi … ebbene sì, soprattutto dal
momento che il boss non ha intenzione di mantenere in magazzino copie di libri
ordinati appositamente per il Natale come “Il manuale fai-da-te per fare un
nano da giardino” o “Le ricette della cucina tradizionale pannone”, logicamente
invendute. E ora stava a noi l’arduo compito di promuoverli e venderli. In più
bisognava riordinare tutti gli scaffali e far posto alle decorazioni per la
fine dell’anno.
Odiavo il capodanno; per Aidan era
un’occasione come un’altra per fare baldoria e strafarsi, per me un’occasione
come un’altra per essere trascinato a forza in locali troppo bui e troppo
affollati. Mi rasserenava il fatto che avrei avuto una buona scusa per
defilarmi quest’anno. Ultimo tango a Parigi era un film che Allison doveva
assolutamente vedere ed era perfettamente in grado di non offendersi per la
sessualità esplicita che le avrei proposto con quelle scene.
“Ohi che mi dici di Allison?” chiese
Aidan urlando, tra i clacson dell’ora di punta del mattino freddo e inquinato
di New York, mentre per attraversare l’incrocio bisognava pregare che non
sbucasse nessun pony express in bicicletta che andava di fretta. Un giorno o
l’altro il sottoscritto sarebbe rimasto gambizzato …
“avete concluso qualcosa? E parlo di
quel qualcosa Tyler, perché lo so che sei troppo imbranato per riuscire a
concludere dal punto di vista sentimentale”
“Ma che cazzo…?!” “Oh andiamo!” non
ebbi nemmeno il tempo di protestare che subito si rifece lui sotto “sappiamo
entrambi che se fosse stato per te non l’avresti più vista dopo la notte in
quel locale … le ragazze normali solo a letto te le porti facilmente, per
chiedergli un appuntamento ci metti dalle due alle quattro settimane.
Figuriamoci con lei”
Touché. Cos’altro avrei potuto
aggiungere che non fosse così dannatamente vero? Ma fui aiutato dal ritardo e
dalla figura del boss in allerta all’ingresso della libreria, così mi misi a
correre con Aidan che mi seguiva, col fiatone, verso l’ingresso secondario.
Quando una giornata inizia di merda,
sinceramente, quante sono le speranze che si raddrizzi? A mio parere, veramente
poche. Non solo ci beccammo la mazzolata del secolo per il ritardo mostruoso di
20 minuti. Come facemmo ad arrivare in ritardo essendo svegli dalle sei, ancora
dovevo capirlo, ma questo mio processo mentale a ritroso per trovare una scusa
non mi evitò la sezione libri per l’infanzia. Che strazio! Quelle musichette da
carillon dei libri per i più piccoli mi mettevano un’ansia addosso
insospettabile, mi sembrava di essere in qualche film dell’orrore e mi
mettevano addosso una sconcertante voglia di piromania addosso. Rimettendo a
posto dei libri sulla mitologia greca per ragazzi mi venne in mente la mia
Caroline, a cui poco tempo prima ne avevo regalato uno molto simile, per quanto
fosse più brava del disegnatore, era affascinata dalle illustrazioni di quel
libro, e quella giustificazione bastava per rileggerlo ogni volta daccapo o anche
solo sfogliarlo.
Per fortuna quanto accaduto nei giorni
precedenti non l’aveva turbata più di tanto, anzi, era stata abbastanza in
grado di accettare le ragioni per cui io non l’avrei accompagnata alla cena che
nostro padre tradizionalmente ci offriva a S.Stefano. E con nostra madre tutto
s’era risolto come avevo previsto: una bella risata da parte sua e una carezza
rassicurante ad Allison, che per poca conoscenza del soggetto, s’era presa un
brutto spavento.
“Imparerai anche tu a conoscerlo
purtroppo” liquidò in fretta l’argomento mia madre.
Si poteva dire che anche quella era
passata.
“Ma si può sapere dove cazzo hai messo
il cellulare?” raffinata quanto uno scaricatore di porto, Allison si fece
avanti a grandi falcate lungo gli scaffali della libreria, noncurante dei
clienti che rispettavano il silenzio imposto nel locale e della moderazione del
linguaggio richiesta nella zona bimbi. Sembrava un’amazzone, con quel broncio
che si portava dietro. Il problema vero era che, purtroppo, era rivolto a me, qualsiasi
cosa le avessi fatto.Alzai le mani in alto in segno di resa,
sorridendole: “Buongiorno, Allison!” “Buongiorno a te, idiota!” esclamò. Cos’è
che avevo detto? Ah, sì: giornata di merda. “Spero che almeno la testa al
lavoro ce la porti: dov’è il tuo telefono?”
Oh cazzo! Lo sfilai dalla tasca dei
jeans, convinto di averlo lasciato lì, per giunto acceso, per tutta la notte.
Morto, giustamente. Datemi un muro per
sbattere la testa, vi supplico.
“Scusa … è tornato Aidan ed è da
stamattina che non ci capisco più niente. Lo capisci che mi ha svegliato alle
sei?”
“Aidan è tornato?! Dov’è quel
coglione! Devo farlo crepare di botte: non s’è neanche fatto sentire per gli
auguri …”
“È nella zona letteratura religiosa.
Ma io non andrei se fossi in te… non vorrei incappare in qualche fanatico
avventista del settimo giorno…” “Tyler non tentare di farmi cambiare argomento!!! Sono profondamente incazzata
con te, ho il ciclo e le ovaie rigirate … questa mattina non volevo uscire e
sono stata costretta perché qualcuno era irraggiungibile”
“Ma perché” mi allarmai “è successo
qualcosa?”
Per quanto ne sapevo, tutti eccetto me
erano ancora a casa per le vacanze e mia madre, Les e Caroline sarebbero
partiti solo l’indomani per la settimana bianca, lasciando a me ed Allison la
casa libera per ben 10 giorni … Tyler, un
po’ di contegno. Porca puttana!
“Nooooooo … solo un centinaio di
chiamare non risposte al cellulare da parte di tuo padre. Pensava che fossi da
noi così ha chiamato a casa”
“Mio padre?” chiesi, palesemente
sorpreso “che vuole?”
“E io che ne so” rispose Allison,
terribilmente inacidita. Speriamo il
ciclo le duri poco … non ho intenzione di mandare all’aria il mio programmino
di capodanno. Tyler, basta! “Ha detto che devi andare nel suo ufficio da
solo oggi pomeriggio, deve parlarti. Di più non ha detto. Però ha scassato così
tanto che alla fine mi sono offerta di venire ad avvertirti di persona. E visto
che a casa tua non c’eri … beh, ovviamente eccomi qui.”
“Grazie per esserti scomodata, ma non
se ne parla” chiusi lì, freddo e duro, distaccato a sufficienza da dimostrare
quanto poco tenessi a lui. Purtroppo la situazione era un’altra. Quell’uomo
rimaneva pur sempre mio padre e, per quanto mi imponessi di tenerlo lontano,
era un meccanismo che poteva funzionare solo se applicato da me. Ad chiunque me
lo ricordava, il lavoro fatto si sgretolava. E di nuovo lo tsunami di dubbi
tornava alla carica, man mano che il tempo passa.
“Non fare lo scemo. Tu ci vai eccome!”
disse imperiosa mentre per un braccio mi trascinava lungo la libreria che ormai
conosceva piuttosto bene. “Ray!” urlò ad uno dei responsabilità “Ty si prende
una pausa!” Ray capì che non doveva nemmeno osare a fare domande.
Davanti ad una ciambella e ad un caffè
caldo, la mia visione delle mie cose non cambio di un millimetro. Ero
soddisfatto della mia tenacia, dote che non ero assolutamente conscio di
possedere. Ed invece riuscivo a non demordere. Era la cosa migliore non vederlo,
qualsiasi cosa avesse da dirmi; anche se stargli lontano faceva senz’altro un
po’ male, stargli affianco avrebbe significato calpestare ogni mia convinzione.“Devo ricordarti le parole che mio
padre ti ha riservato l’altro giorno Allie?” le chiesi. Non avrei voluto
ricordarle una cosa così brutta, ma le non sembrò toccata più di tanto.
Estrasse un bigliettino dalla sua borsa e me lo passò: era la terribilmente
perfetta grafia di mio padre, che si scusava con la signorina Allison Eugenia
Riley per il suo comportamento riprovevole e si riprometteva un nuovo incontro
pacificatore.
“Il tutto accompagnato da tre dozzine
di rose. Sono arrivate stamattina” commentò, senza lasciare che alcuna emozione
le segnasse il viso. Era disillusa, forse? O pensava di non dovermi influenzare?
“Senti Allison” forse le avrei fatto
male, ma di quell’uomo doveva conoscere fino in fondo lo schifo di cui era
capace “quelle scuse, beh veramente …”
“Gliele hai suggerite tu? Naturalmente
… ma lo ha fatto. E questo dimostra che almeno a te ci tiene. Per cui vai e ci
parli.”
“Per dirgli cosa esattamente?”
rimbeccai, mi dava fastidio non avere ragione su un argomento come quello.
Sembravamo essere tornati indietro di un paio di giorni, quando Allison era
impegnata a convincermi che dovevo andare a trovare mio padre il giorno di
Natale. E quello che era successo proprio quella sera, certo non mi aiutava a
scegliere favorevolmente per un nuovo incontro.
“Beh, intanto tu ascolti quello che
vuole dirti lui” rispose, calma e decisa “e poi deciderai, civilmente, come
comportarti, senza sclerare come ha fatto l’ultima volta”
“Ah perché ora ho io la colpa!”
sbraitai “lui ti chiama puttana e io ho la colpa!” risi shockato dalle sue
parole: non pensavo potesse arrivare a tanto. Poteva non dare peso alle offese
che mio padre le aveva rivolto, poteva essere rimasta impressionata dalle sue
scuse, ma non le avrei permesso di addossarmi la colpa. Mentre mi intimava di
fare silenzio, visto che nella caffetteria ci stavano praticamente guardando
tutti, mi afferrò le mani con le sue; erano due ghiaccioli, come al solito,
così toccò a me raccogliere le sue tra le mie.
“Sai bene che non è quello che
intendevo dire” si corresse, mortificata “ma vorrei solo che avessi un po’ di
contegno con lui. Che lo rispettassi un po’ per ciò che rappresenta. È tuo
padre … se fosse vivo il mio o se avessi l’opportunità di riavvolgere il nastro
con mia madre … forse la coda la terrei un po’ di più tra le gambe. Non
rovinare la tua famiglia”
Capivo la sua prospettiva, ma il punto
era che quella famiglia non esisteva più da un po’, e non certo per colpa mia.
E preferivo conservare gli stracci che mi restavano piuttosto che tentare un
rattoppo estremo, destinato a non funzionare. Tanto con Charles significare
tornare punto e accapo ogni volta. E oltre a farmi male, il che rappresentava
il problema minore, avrei fatto male a mia sorella e questo non lo tolleravo.
“Telefonagli almeno” incalzò,
passandomi il suo cellulare “così puoi valutare senza doverlo vedere per forza
in faccia”.
Mi strizzò l’occhio – ricordava ogni
minima cosa le confidassi e questo mi istillava un’incredibile fiducia in lei –
e composi il numero, sbuffando come quel bimbo di otto anni a cui la madre ha
imposto di fare i compiti invece di stare davanti ai videogiochi.
Naturalmente dovetti passare prima per
la zona filtro delle tre segretarie: quella generale, quella del suo piano e la
sua personale. Janine, che mi conosceva da una vita, ebbe molto piacere di
risentirmi e lo stesso valeva anche per me. Lei come tutti quelli che
conoscevano di mio padre solo il lato professionale, ne tessevano le lodi ogni
giorni e lo stimavano particolarmente come un lavoratore insaziabile. Il
problema era che io e mia sorella non avevamo bisogno di un lavoratore, bensì
di un padre.
“Tyler” mi rispose mio padre con il
suo solito tono piatto “finalmente!”
“Scusa, avevo il telefono scarico ed
ero a lavoro. È stata Allison ad avvisarmi”
“Molto gentile da parte sua …
salutamela”
Sentivo che faticava a parlare di lei,
ma almeno l’aveva digerita, cosa che volente o nolente prima o poi avrebbe
dovuto fare perché non avevo intenzione di lasciarla andare da nessuna parte.
“Cosa c’è?” tagliai corto “mi ha detto
Allison che vuoi vedermi”
“Sì” rispose lui e lo sentii diventare
alquanto turbato “si tratta di una questione delicata e non mi va di parlarne
al telefono”
Non capivo di cosa parlasse. Non
avevamo mai discusso di affari di famiglia, né di eredità o cose simili. Ero
decisamente frastornato.
“Che … che tipo di questione?”
domandai.
“Ci vediamo oggi pomeriggio verso le 5
nel mio ufficio. Finisco una riunione e sono completamente libero, non ho altri
impegni. Avremo il tempo di parlare con calma”
Lui che non aveva altri impegni mi
suonava come nuova; di solito la frase era ho
un’ora sola, facciamo in fretta. Ora invece era completamente libero: era
sempre stato libero e ci mentiva regolarmente, oppure finalmente aveva cambiato
atteggiamento? Era bastata la mia sfuriata a farlo cambiare così. L’avessi
saputo me ne sarei occupato prima. In ogni caso, non dimenticai quanto
manipolatore sapesse essere, quindi decisi di non fidarmi troppo di lui, non
avevo intenzione di scottarmi.
“Se non mi dici di che si tratta non
vengo” minacciai, anche se ero troppo curioso per dargli davvero buca. Allison
di fronte a me alzò gli occhi al cielo e le sorrisi, ammiccando divertito.
“Ho delle buone notizie … su Allison”
Mi prendeva in giro o cosa? Mi vidi
riflesso nello sguardo mutato di Allison, dallo spensierato al inquieto. “Che
significa?” domandai.
“Vieni qui e lo saprai” ribatté mio
padre “ma non ne fare parola con lei per il momento … come ti ho spiegato è una
faccenda complicata”
E non ne feci parola. In un lampo
ripensai al nostro ultimo incontro ed ebbi come dei flash che scorrevano nella
mia mente: i segugi di mio padre, Allison, il locale. Però erano buone notizie,
aveva detto: eppure non riuscivo a stare tranquillo.
Mantenni la promessa, accampando ad
Allison la prima scusa che mi venne in mente e chiedendole di tornarsene a
casa. Lei sembrò bersela, o quantomeno finse di farlo, ma se non poteva avere
la verità da me, almeno aveva ottenuto che mi vedessi con mio padre e questo
bastò per risollevarle il morale.
Finito il turno e sistematomi un poco
(il che significava jeans puliti e una camicia che non fosse a quadri) mi
ritrovai all’ingresso dell’Empire State Building.
La società di mio padre si era
trasferita lì dal 2002, quando riuscì a risollevarsi dal disastro del World
Trade Center intascando i soldi dell’assicurazione. Purtroppo nell’economia i
morti non c’è il tempo di piangerli, soprattutto se sei quotato in borsa. E
così, sistemati gli uffici e trovato nuovo personale, la “Hawkins Communications”
e la sua sorella maggiore “Steven&Jacobs Publications” si erano rimesse in
marcia, sotto l’egida di Charles Hawkins che ne aveva approfittato per
mangiarsi i suoi due soci e divenire azionista di maggioranza. Mors tua vita
mea, dicevano i latini. E cazzo se avevano ragione.
Sembrava di essere in uno di quei film
anni Ottanta sull’alta finanza, dove tutti sono rigorosamente in giacca e
cravatta e non cavi alle persone un sorriso di bocca neanche dopo una serie di
giornate positive a Wall Street. Sembravano tutti essere troppo indaffarati nei
propri affari, per badare a segnali di vita che andassero oltre agli indici di
gradimento nei loro grafici o alle altalene degli indici di Borsa.
Eppure ad alzare lo sguardo, al mio
passaggio, tutti erano subito pronti a richiamare il collega sull’attenti e a
far partire i regolari salamelecchi. Mettevo piede veramente di rado in quell’edificio,
ma per loro ero sempre il figlio del capo ed erede dell’impero, ed ognuno lì
era impegnato a mantenersi ben stretto il suo posto di lavoro, la bella
poltrona di pelle e la scrivania in frassino. Oltre allo stipendio d’oro e al caffè
caldo e ciambella gratis al mattino.
Dalla Hall fui spedito al 75esimo,
dove c’era la segreteria della società. Salii poi fino al 90esimo piano, dove
gli uffici del grande capo. Appena le porte dell’ascensore si aprì, trovai
Janine seduta alla sua scrivania. Il tempo passava, ma restava sempre una
bellissima donna. Pur rigorosa nel suo tailleur nero gessato e comoda nelle sue
scarpe basse, non dimenticava di viziarsi un po’ con i foulard di Hermes, l’unica
sua vera debolezza a sentirla parlare.
“Chi non muore si rivede” mi disse,
vedendomi.
Le sorrisi “È bello rivederti Janine …
grazie per il regalo di Natale!”
“Dio Tyler ho combinato un bel guaio,
non avevo idea…”. Sembrava così contrita, ma io volevo solo fare una battuta. “Ma
non è colpa tua!” la rassicurai “tu non potevi sapere … d’altronde dovrebbe occuparsi lui di quelle cose …”
“Vieni dai” cambiò argomento,
conducendomi verso l’ufficio di mio padre, poggiando una mano sulla spalla “ti
sta aspettando”
“Com’è il suo umore?” chiesi, tanto
per andarci prevenuto.
“Basta che non gli fai venire un
infarto come al tuo solito e vedrai che andrà bene” sorrise, strizzando
l'occhio impertinente. Sapeva del mio pessimo carattere, e sapeva altrettanto
bene quanto lui non lo soffrisse. “Cerca di non bere troppo caffè, ti rende
nervoso” mi consigliò, con candida insolenza.
“Charles c’è tuo figlio” mi annunciò e
da dentro la voce che così tanto mi dava i nervi mi richiamò a sé. Entrai,
chiudendomi la porta alle spalle.
Parlammo del più e del meno per 10
minuti, intercalando frasi fatte modi di dire ad argomenti di conversazione
generali, come il meteo, il lavoro, e le notizie del giorno.
Nel momento in cui avevamo ormai
esaurito ogni distrazione dal vero motivo per cui mi aveva convocato, arrivò il
telefono a toglierci dall’imbarazzo di quel silenzio che si stava diffondendo
tra un sorso di caffè e l’altro.
“Non mi interessa che siano i Cinesi o
chiunque altro. Vi ho già ripetuto che sono impegnato con mio figlio e non
vogliono essere disturbato”
Non l’avevo mai sentito parlare così,
e si vedeva che era certamente imbarazzato dal pronunciare queste parole in mia
presenza, nel mostrarsi così vulnerabile proprio davanti a me, che per una vita
l’avevo ritratto come un despota burbero e dal cuore di pietra.
Chiuso il telefono in faccia persino a
Janine, si sedette alla sua bella scrivania ed estrasse un fascicolo giallo che,
senza dire una parola, mi passò.
“Cos’è?” chiesi, titubante e non
ricevetti alcuna risposta, ad esclusione di un cenno che sembrava un invito
evidente ad aprire la cartella.
Sfilai l’elastico e sfoglia un plico di
carte su cui erano segnati dati anagrafici ed una serie di nomi di città con
delle cifre, che potevano significare tutto o niente, non reputandoli di grande
importanza, non mi soffermai a leggere le piccole scritte in grassetto. Fin quando,
pietrificato, mi ritrovai di fronte alla foto di una ragazzina, da primo anno
di liceo, o forse qualcosa in pià. La strappai con foga dal foglio su cui era
stata attaccata con la spillatrice e la guardai più attentamente, mentre la
cartella e i suoi fogli caddero a terra, ma non me ne curai; tutto quello che
mi interessava al momento, era la ragazzina della fotografia, che io conoscevo
evidentemente molto bene.
Girai la foto, notando in controluce
il calco di una scritta nella carta plastificata della foto: 20 Gennaio 2007, 15 anni.
Due anni fa, quasi tre ormai. Prima
della tragedia, prima che diventasse la piccola donna che io conoscevo, prima d
che noi … e mio padre aveva una sua fotografia nel suo ufficio, in una
cartelletta da investigatore privato.
“Fino a dove si può spingere la tua
sete di controllo? Come hai avuto questa fotografia, maiale!” lo aggredii solo
con le parole, perché la mia voce non reputava nemmeno di dover perdere fiato
con quell’uomo.
“Non è come credi” rispose calmo “lasciami
spiegare”
Si alzò dalla sua poltrona e si portò
verso la finestra, a guardare fuori, a distogliere i suoi occhi da me, a
nascondermi il suo sguardo.
“Era da poco che Michael …” iniziò, e
sembrò già non farcela “questa coppia di Indianapolis“si presentò qui a
chiedermi aiuto. La loro figlia maggiore Allison era scappata di casa, ed
avevano ricevuto delle segnalazioni da New York, ma nessuno nella polizia aveva
voluto dargli retta, così sono venuti da me, sperando che potessi aiutarli”
“Io … lo so che sembra strano detto da
me … ma non potevo tollerare che quelle persone potessero soffrire come stavo
soffrendo io, avevano già perso la figlioletta. Così per farla breve decisi di
aiutarli, ma dopo un iniziale successo in un piccolo bar notturno di Harlem sembrò
sparita letteralmente nel nulla”
Ero in uno stato tra il rigor mortis
ed i’euforico, shockato non basta per descrivere le montagne russe di
sensazioni ed emozioni che si alternavano tra testa e cuore. Felice, eccitato,
disperato, terrorizzato: e tutto allo stesso momento, dire che erano un tantino
sopraffatto era un eufemismo.
“Aspetta un momento” intervenni,
riacquistando lucidità “non mi pare di aver capito bene: hai detto una coppia
giusto?”
“Sì” rispose lui affermativamente “lui
è uno dei nostri migliori impiegati”
“Ma questa è una notizia meravigliosa …”
ma lui non poteva capire, non sapeva “Allison non sa che suo padre è vivo! È convinta
che non si sia risvegliato più dopo il coma”
“Beh …” replicò lui “non era proprio in formissima quando ci siamo incontrati,
ma da allora sono passati due anni, scommetto che ha recuperato alla grande”
“Ma tu … non li senti più?” indagai “non
dopo che si sono perse le tracce. Ecco perché mi ero dimenticato completamente
di lei … questo fascicolo c’ho messo una notte intera per riesumarlo da casa
mia”
E dire che era un maniaco del
controllo e dell’ordine.
Mi ricordai di quella sera, per la
prima volta da quando ero con lui. Lui sapeva chi era, sapeva benissimo con chi
aveva a che fare, ma non aveva esitato un secondo ad offenderla ed umiliarla.
“Dimmi una cosa” mi feci avanti, di
nuovo serio “perché lo stai facendo? Per rispedirla da sua madre in modo che io
non possa più vederla? Perché sinceramente è un po’ antiquato come metodo …
esistono le web cam ed esistono gli aerei che ti piaccia o no”
“Senti Tyler …” provò ad intervenire ma non gli lasciai
mettere due parole di fila.
“Lo sai perché se n’è andata di casa? Perché sua madre era proprio come te,
forse è per questo che vi siete trovati. La figlia era distrutta e non trovava
di meglio che insultarla e darle della troietta, invece che starle vicino e
cercare di correggerla come ogni madre sana di mente avrebbe fatto”
“Smettila Tyler” si impose “io non
avevo idea di chi fosse quando l’hai portata a casa, la sera di Natale. In
quanti siamo a New York, ci saranno migliaia di Allison. Ed è stato solo dopo
che mi hai detto il suo cognome e che sua padre lavorava per me che ho unito
tutti i pezzi del puzzle. Indianapolis, il suo nome, suo padre.”
“Come sarebbe a dire che non sapevi
niente su di lei? Non è possibile! Sai meglio di me dove, come e quando l’ho conosciuta
e i tuoi cani da riporto non sono stati capaci di saperne di più?!” Non volevo
deriderlo, eppure era esattamente quello che venne fuori dai miei sputi di
parole insolenti.
“Oh Tyler non essere stupido!” mi ammonì
“Allison è come se non esistesse per l’America: i suoi documenti sono falsi,
non ha nome o ne ha mille, nel bar dove lavorava era solo una sigla con tre
iniziali e non certo andavano a raccontare al primo che passa i loro affari.”
E anche lui c’aveva ragione.
“Io non sapevo chi fosse” mi supplicò
di credergli e volli fidarmi
“Ma questo non giustifica quello che hai
detto. Io … credo di aver bisogno di una boccata d’aria”
Me ne andai intascando la fotografia
di quella ragazzina dell’Indiana, che ancora non sapeva che il suo desiderio
più grande era realtà. Sarebbe toccato a me dirglielo e non sarebbe stato
facile. Non avrei mai potuto presentarmi da lei e dire: “Ciao, lo sai che tuo
padre è uscito un annetto fa dal coma, ti va di andare al McDonald?”
Né andava fatta una tragedia alla Re
Lear di Shakespeare. Non ero il miglior comunicatore, ma ero l’unica persona in
grado di poterle dare una notizia del genere. Ci voleva tatto, sensibilità e
una gran dose di fiducia reciproca.
Presi la mia bici fuori dal
grattacielo ed iniziai a sfrecciare incurante del freddo pomeriggio di New York
lungo il traffico della città, sormontato da quegli imponenti dominatori dell’aria,
mentre nuvole di smog mi drogavano ed uccidevano respirando a pieni polmoni.
Dopo nemmeno un paio di isolati mi
sentii già affamato d’aria pulita; forse era lo smog, forse la massiccia dose
di novità che mi aveva preso in pieno come un treno in corsa o forse, più semplicemente,
paura di dirle la verità e scoprire che non ero una ragione sufficiente ad
impedirle di andarsene via da me.
NOTE FINALI
Chiedo scusa per aver tardato nell'aggiornamento. Ma come già vi
dissi in precendenza non diamoci più una data perché non
so se l'ispirazione o altro mi daranno la possibilità di essere
costante.
Non so cosa dire di questo capitolo. Spero possa parlare da solo.
Il resto ditemelo voi...lasciate che siano le vostre emozioni a parlare.
Vi aspetto
p.s.:appena potrò risponderò a tutte le recensioni del vecchio capitolo. Croce sul cuore =)
à bientot
Federica