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Autore: missohara    11/11/2011    4 recensioni
Immaginatevi una città italiana. La periferia, di questa città italiana. Un liceo classico fuori mano, una classe normale, coi suoi problemi ed i suoi pregi.
Una famiglia, due sorelle.
Ed una di queste è la mia protagonista.
Bea, Beatrice. Una "ragazza di periferia", che si destreggia in un mondo che forse le sta troppo largo.
E con lei i suoi amici, sua sorella, la sua famiglia..
Ed un ragazzo che bussa alla porta armato di un impermeabile giallo canarino e di un sorriso che sembra incarnare il cielo.
Ed eccola, lascia che sia.
Con un titolo che è la traduzione di "let it be", la storica canzone dei Beatles.
Che è la storia che sogno da anni, anche se non è esattamente uguale a quella che ho sempre voluto scrivere.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3: nuova casa, nuova nostalgia

[Costanza]

 

L’appartamento, così, fa anche un po’ effetto. I mobili son partiti per la nuova casa, perlomeno quelli che potevamo conservare e che mamma non ha dato via.

Nella mia stanza c’è solo il pianoforte. Quel pianoforte che ho pregato mio padre di non vendere, e che arriverà nella nuova casa fra un paio di giorni, almeno spero.

Lo accarezzo. Ne sfioro i tasti, che hanno visto talmente tanti esercizi, studi, andanti, adagi e ballate che potrebbero anche essentirsi stanchi, di essere martellati in continuazione.

Lo chiudo, abbassando la copertura in legno con un tremito della mano. Mancherà, questo pianoforte, anche se solo per due giorni.

Guardo quella che era la mia camera da letto e che non lo sarà più.

È lì, con  le pareti bianche, senza le fotografie che sono state riposte in tante scatole.

I miei disegni di bambina, più che altro caricature della nostra gatta d’allora. E poi le foto di tutti gli animali che salvavo o che dovevo curare.

Ne raccattavo d’ogni tipo, dalla strada. Dai gattini malandati ai cagnolini mezzi storpi, fino ad arrivare a ricci, topolini e lumache. Sembra strano, ma anche nel centro di una grande città come questa questi animaletti s’annidano ovunque e sopravvivono alle automobili assassine.

Penso al mio letto, che era accostato alla finestra che dava sulla chiesa. Quante volte ci ho dormito e non dormito, su quel letto? Quante volte mi sono accampata lì con un libro per studiare e quante volte mi ci son addormentata, esausta, dopo nottate passate con gli spartiti davanti agli occhi?

C’era anche la scrivania, là nell’angolo. La scrivania che si trasformava in terrario, acquario o lettino veterinario di fortuna, se dovevo medicare qualche randagio.

Mi mancherà tutto, di questa casa.

Il solo pensiero di doverla lasciare, coi suoi troppi ricordi ed i miei sogni impigliati fra le tapparelle, mi atterrisce.

È che negli ultimi mesi, la mia quotidianità si è come interrotta.

 Tutte le certezze che avevo mi si sono sbriciolate davanti. Solo i miei genitori e mio fratello ci sono ancora, ma sono così cambiati.

Papà ha perso il lavoro. Era  giornalista in un quotidiano e si occupava dei fatti d’attualità, lavorando come opinionista.

Poi, colpa un po’ delle sue idee politiche accese, un po’ del fatto che il giornale stava licenziando coloro che venivano definiti “scomodi” e papà era uno di questi, l’han sbattuto fuori.

Abbiamo sempre abitato qui, nel centro della città, in una palazzina vecchio stile, ma ben tenuta.

Lo stipendio di mamma come insegnante è poco e così traslochiamo.

Non  cambiamo città, per fortuna. Ma ci trasferiamo in una zona periferica, nuova scuola e nuove persone.

Papà entra in camera e mi bacia sulla fronte.

“Principessa... andiamo?”, mi chiede cautamente. Credo che, in 15 anni di esistenza, non mi abbia mai chiamata Principessa senza irritarmi. Appunto per questo continua ad usare quel vezzeggiativo cretino, per darmi ai nervi.

Questa volta non mi arrabbio nemmeno e lui mi guarda stupito e dice:

“Devi essere proprio abbattuta, Costi, per non cercare di uccidermi”, costata sempre papà. Gli sorrido, cercando di provare allegria all’idea del trasloco.

So che sta peggio di me, in questo momento. Da quando ha perso il lavoro si è lasciato andare tanto. A volte passa le giornate in vestaglia a girellare per la casa, acchiappando un libro o un cd distrattamente. Non legge davvero, non si dedica a niente in particolare. A volte sembra non esserci nemmeno con la testa e segue i nostri discorsi a fatica. Non l’abbiamo portato dal medico perché non ha voluto. La chiamano depressione da calo di adrenalina, penso. Ma dura troppo, davvero troppo.

Sembra invecchiato di colpo, e mamma non riesce a stargli addosso molto perché è sempre a scuola.

Quel brillio ironico negli occhi che aveva un tempo è come sbiadito, spento.

E dovrà trovare lavoro in periferia, magari per uno di quei giornali minori.

Esco dalla mia camera, preceduta da mio papà. Mamma e Tiziano, mio fratello, sono in salotto.

Lei è nervosa, in piedi in uno spazio vuoto che un tempo era occupato dal divano.

Sembra volersi sedere, su questo sofà d’aria.

Mio fratello invece è stravaccato su una valigia. Mi sorride, con quel sorriso che gl’illumina il viso. Non è bello, lui.

Sembra una specie di spaventapasseri, con quei capelli castano chiaro che gli sparano in tutte le direzioni e quel suo corpicino gracile gracile. Gli occhi verdi credo siano l’unico suo tratto  oggettivamente bello del suo volto. Ma li tiene mascherati da un paio d’occhiali anteguerra, che le lenti a contatto non fanno abbastanza poeta, secondo lui. Preferisco non chiedermi cosa intenda per “non fanno abbastanza poeta”, che proprio non lo voglio sapere.

Indossa una t-shirt slabbrata di una qualche squadra di calcio. Già, il calcio.

Mio fratello, che legge tutto quel che gli si dà, aspira a diventare una specie di nuovo baudelaire, è follemente innamorato di quell’oggetto più o meno gonfio che ha il nome di pallone.

Certo, in mancanza di quello gioca anche con le scatolette di tonno. Non la capirò mai, questa sua mania ossessiva per il calcio. Non ho nemmeno compreso perché si ostini a giocare. Con il non fisico che si ritrova e le gambe stortignaccole, non lo fa nemmeno bene. Eppure lui, nel tempo libero, o lo trovo con un libro in mano immerso in romantiche elucubrazioni, oppure acchiappa il pallone e gioca in cortile, anche contro il muro.

“Costi.. Sei pronta?”, mi chiede in un mezzo bisbiglio. Mi poserebbe anche una mano su un braccio, se non fosse che vuole farsi vedere un “vero uomo” davanti a papà. Ed i veri uomini non prendono la mano alle sorelle minori, nossignore.

“Sì... Beh, ci siete voi. Quindi andrà tutto bene no?”, cerco di sdrammatizzare.

Mia mamma ha l’aria preoccupata. Quella ruga d’apprensione che le sta crescendo in mezzo alla fronte ha iniziato a sorgere quando papà ha perso il lavoro, e non s’appianerà finché tutto non andrà bene, nella nostra famiglia.

Perché sul suo viso si possono leggere tutte le cose  che ci capitano, e fino a poco fa quel volto era sereno e felice.

“Dobbiamo andare, ora.”, dice mia mamma. Sfioro i muri di questa casa e ne esco, per quella che credo sarà l’ultima volta.

C’è la nostra macchina carica di zaini e cose da portare. I mobili grossi sono già nella nuova casa da alcuni giorni, mentre gli ultimi bagagli li portiamo noi.

Papà guida piano, nel poco traffico della domenica mattina.

Vedrò la mia nuova casa sotto la pioggia, credo. Il cielo è grigio e promette di rovesciarsi.

Ci lasciamo alle spalle la nostra scuola, il campo da calcio in cui si allena mio fratello,l’ambulatorio veterinario in cui mi sono avventurata così tante volte che il medico ormai mi ha in simpatia.

Ci addentriamo in una zona della città che credo di non aver mai visto. È un quartiere operaio e si vede. Chi dice che la definizione di quartiere operaio sia adatta solo ai libri di storia che trattano la rivoluzione industriale, dovrebbe farsi un giro qui.

Ci sono palazzi alti alti, tutti grigi e sempre uguali. Alcune fabbriche maltenute, da cui esce del fumo. Sembra di trovarsi nella londra dikensiana, ma qui siamo in Italia e nel Duemila.

Non conosco la periferia della mia città. Ho sempre vissuto in un mondo ovattato, fino ad oggi.

“Via Gramsci, numero 9.”, annuncia papà. È casa nostra.

Mi sporgo fuori dal finestrino per vedere meglio. Niente di speciale. Un altro di quei palazzi che sembra confondersi con ognuna delle case circostanti, che sul retro ha un cortile in comune con gli altri condomini.

Mio fratello mi stringe la mano, stavolta.

“Nonti preoccupare... Diventerà nostro anche questo, questo posto.”, mi sussurra all’orecchio.

Continua a stringermi forte la mano anche quando entriamo.

“Che piano?”, chiede mamma.

“Il sesto, parrebbe. Ma quanti piani sono, Dio mio?”, si chiede papà ad alta voce.

Appeso all’ascensore c’è uno smagliante cartello con scritto “guasto”, e perciò ci tocca la salita a piedi. Con i borsoni in mano, le scale diventano eterne.

Eccolo, il sesto piano. Ci sono tre appartamenti.

Il nostro è quello tutto a destra, con una porta marroncina.

Entriamo in quella che sarà la nostra nuova casa.

I mobili che abbiamo fatto recapitare sono sistemati perfettamente, ma il contrasto è allarmante.

I muri cadono a pezzi, o quasi.

Alcuni mobili erano già nell’appartamento quando l’abbiamo comprato. C’è un tavolo bdi formica ed alcune sedie dall’aspetto assolutamente cadente.

Il divano è foderato con una stoffa stampata a fiori rosa e gialli, che fanno a pugni con la carta da parati tutta farfalle appesa ai muri.

“Dobbiamo strapparla.”, dice pratica mia mamma.

Mio fratello ed io ci dirigiamo nella nostra camera. Già, perché noi dovremo condividere la stanza.

Quest’ultima  è divisa in due parti perfette. Due letti, con in mezzo da un comodino. Due armadi, una scrivania (la sua) incassata in un angolo ed un tavolino traballante che userò io.

Il pianoforte lo piazzeremo in corridoio, temo. Non potrò più addormentarmi  fissando la tastiera lucida.

Iniziamo a disfare le nostre valige senza parlare, cercando di non intralciarci.

Cerchiamo di sistemare libri, cd e videocassette sulla scrivania, accatastando disordinatamente tutto.

I vestiti li stipiamo a forza negli armadi, con gli sportelli che si chiudono male.

Il pallone da calcio,  Tiziano, lo incastra sotto la scrivania. Lo spazio è davvero poco, rispetto a come siamo cresciuti.

“Diamo un’occhiata in giro.”, propone mio fratello distratto.

Ci strizziamo davanti alla piccola finestra e sbirciamo giù, in cortile.

Ci sono tanti ragazzi, anche della nostra età.

È uno spazio vasto, tutto cemento, senza neanche un albero.

C’è qualche panchina ed addirittura una fontanella che forse funziona. Uno sparuto gruppetto di bambini di circa sei anni gioca con un pallone malridotto. Gli occhi  di mio fratello, che tral’altro ha diciassette anni, s’illuminano d’immenso.

Alcuni nostri coetanei sono raggruppati insieme. Spicca una giovane che tiene una chitarra fra le mani e suona e tutti la guardano. Una ragazza coi capelli lunghi e scuri legge, mentre un’altra le balla davanti. un tizio dell’età di mio fratello immortala tutto con una macchina fotografica che, più o meno, risale all’epoca degli occhiali di Tiziano.

“E se dopo dessimo un’occhiata in giro?+, propone mio fratello.

Acconsento, ma di malavoglia.

Non ho la minima intenzione di parlare con nessuno, oggi. Domani rincomincerà la scuola, perciò dovrò pur rivolgere la parola ai nuovi compagni.

Ma oggi vorrei solo sprofondare la testa nel cuscino e lasciare che il mondo mi crolli addosso per un po’.

Ma con un fratello come il mio, non si può.

“Dopo pranzo facciamo un giro, Costi.!”, esclama.

 

Note:

 

Ed eccolo, il capitolo in cui compare il fantomatico lui e la sua dolce sorellina.

Che,  tra parentesi, ho scelto per presentare la famiglia di Tiziano e Tiziano stesso per mille motivi.

In primis, perché ha uno sguardo attento. Come bea, si ferma spesso a riflettere ed a pensare su quel che la circonda.

Perciò l’ho sfruttata per descrivere con ampiezza (tanta ampiezza, direi) la situazione familiare ed economica (perché, purtroppo o per fortuna, a seconda dei casi, i soldi esistono).

Il prossimo capitolo, si capisce, parlerà del pomeriggio in cortile.

Ed eccolo lì, il cortile. Ch’è un elemento importante, in questa storia.

Perché è il posto in cui i ragazzi di lascia che sia si ritrovano tutti, a parlare, a sognare, a suonare, a scrivere.

Che lascia che sia potrebbe anche chiamarsi “il cortile di via Gramsci”, che non cambierebbe molto.

Non ho trovato la canzone adatta al capitolo.

Se aveste idee, informatemi, pleaase!

Baci

Ceci

 

   
 
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