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Autore: Poisonerlady    12/11/2011    2 recensioni
Non so dire che cosa mi spinse ad avvicinarmi. Non lo avevo mai visto, non mi giungeva alcuna sensazione positiva dalla sua figura, anzi, se devo essere sincera, non emanava alcun tipo di sensazione. Non avevo mai visto un uomo così bello ne mai ne avrei visti in seguito.
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I met him, he sang for me.

 

Lo conobbi quando ero ancora un ragazza, immersa negli studi di letteratura francese e inglese, con la mente volta alla prospettiva di un brillante futuro già negatomi. Trascorrevo a quei tempi il Natale nella casa dei miei nonni materni, una solida costruzione in pietra e in legno, dal tetto robusto e spiovente, immersa nel candore delle vallate alpine. Il tempo trascorreva per me lento e monotono, lontano dalla vita frenetica della città, scandito solo dalle costanti nevicate, dai lavori domestici e dallo studio. Avevo solo diciotto anni, una bambina ancora, desiderosa di godersi ogni attimo della propria vita, di avventure e  di sogni destinati ad infrangersi. Ero figlia di ricchi di borghesi che già avevano programmato per me un futuro sicuro. La catena dell’agiatezza economica  e del prestigio mi avrebbe presto vincolata ad un matrimonio precoce che  non volevo in alcun modo accettare.

 Potevo già assaporare i frutti di questo destino nella vita dei miei genitori, fredda e meccanica. Mia madre, che era stata un tempo sorridente e determinata, era ora uno spettro grigio, che si copriva il volto con trucchi pesanti e che cercava la propria giovinezza nel fumo di troppe sigarette. Mio padre la tradiva, a volte con leggerezza a volte con crudele ponderazione; forse un tempo l’aveva amata. Odiavo la mia vita. Appena se ne presentava l’occasione fuggivo dal controllo dei miei genitori e mi dedicavo a lunghe passeggiate nei boschi o alla scalata delle vette. Mi orientavo grazie ai segni lasciati sugli abeti dai cacciatori e dai boscaioli, stando attenta a non allontanarmi troppo. Tuttavia, sempre più spesso, mi sovveniva l’idea di continuare a camminare, senza mai fermarmi, senza possibilità di ritorno.

Non saprei pertanto dire come giunsi al luogo dove lo incontrai. Dovevo essermi distratta, la mente smarrita nei versi di insigni poeti da poco studiati, poeti che parlavano della gioia della morte e dell’amarezza della vita e che in quei giorni sentivo vicini più di chiunque altro. Non  controllavo dove le mie gambe mi stavano conducendo. Quando ebbi di nuovo coscienza di me, mi trovai ad osservare l’immensità del cielo che si proiettava infinito oltre il limite di un ripido pendio.

Lui era lì.

Non so dire che cosa mi spinse ad avvicinarmi. Non lo avevo mai visto, non mi giungeva alcuna sensazione positiva dalla sua figura, anzi, se devo essere sincera, non emanava alcun tipo di sensazione. Era come trovarsi dinnanzi ad un muro o ad un banale sasso. Non ero neppure certa che fosse davvero lì, a pochi passi dal baratro, i capelli scurissimi scompigliati dal vento sferzante, la veste immacolata, gonfiata e spinta verso la sua carne solida. Non avevo mai visto un uomo così bello ne mai ne avrei visti in seguito.

La sua figura era imponente contro i raggi del sole che lo circondavano di una luce soffusa. Quando abbassai lo sguardo sul suolo innevato, mi accorsi che non generava altra ombra se non un sottile, nero cerchio attorno le piante dei piedi nudi. Ne fui completamente rapita, ma quando gli fui accanto, abbastanza vicina da poter udire il lento mareggiare del suo respiro, non riuscii a proferire alcun suono. Il mio respiro, la mia lingua, i miei stessi pensieri, tutto in me sembrava intorpidito, atrofizzato.

Poi, molto dolcemente, lui mi parlò. Con il braccio teso davanti a se, muoveva l’indice con grazia, sfiorando il paesaggio circostante, e ad ogni suo gesto, ad ogni sua parola le catene montuose, le valli, i fiumi e le foreste sembravano incendiarsi di nuova vita. Si scrollavano di dosso la banalità concettuale in cui i secoli li avevano immersi e tornavano a splendere, come nuovi. Non erano più ai miei occhi semplici caratteristiche del paesaggio, ma l’essenza stessa di quel luogo. Mano a mano che la sua voce, dal ritmo profondo, raccontava , io vedevo e sentivo come mai prima d’allora. Ogni cosa divenne per me immensa e straordinariamente viva, troppo grande per la mia comprensione,  e io ne fui sopraffatta. Caddi in ginocchio e scoppiai in un pianto dirotto. Oh, Dio! Non mi ero mai sentita così piccola e insignificante. Che senso poteva avere mai la mia vita se ogni cosa nell’universo aveva un suo scopo, una sua propria identità? Che io fossi viva o morta non aveva importanza, il mondo avrebbe continuato a girare con o senza di me.

Guardai l’uomo, ritto accanto a me, balbettando frasi inconcludenti fra un singhiozzo e l’altro. Non mi guardava, teneva lo sguardo fisso dinnanzi a se, il volto nascosto dietro i riccioli corvini. Il suo braccio, dalla pelle tanto compatta e lucida da sembrare cera, si volse verso di me e lui mi raccontò. Cantò del mio animo, dei miei sogni, del mio cammino. La sua voce che prima mi aveva schiacciata ora mi innalzava, mi nutriva. Mai avevo avuto una percezione così forte di me stessa. Sentivo il mio corpo, pesante sul terreno, quel corpo ero io, ma io non ero il mio corpo. Avevo cognizione del mio passato, del cammino che mi aveva condotto in quel luogo, delle scelte che avevo compiuto, di quelle che non avevo visto, di quelle che non avevo neppure immaginato e seppi, con sconcertante chiarezza, che da quel momento in avanti niente e nessuno sarebbero più stati in grado di frenarmi. Che la mia vita non avrebbe più conosciuto alcun limite se non quelli che io mi sarei imposta. Quando con le guance scottate dal vento sollevai lo sguardo mi accorsi di essere sola.

Tornai a casa che era ormai buio. In cucina mio padre, mio nonno e alcuni vicini stavano già pianificando la mia ricerca. Quando mi videro, scarmigliata e infreddolita, non fecero molte domande. Si limitarono ad ascoltare la mia storia, di come inciampando avessi battuto la testa e soddisfatti per la tragedia evitata, se ne tornarono a casa, ridendo. Mia madre mangiò la foglia. Non avevo gli abiti infangati o coperti di foglie, non avevo ferite alla testa. Mi schiaffeggiò sgridandomi con veemenza. Mio padre la seguì al volo.

Non mi rendevo forse conto di quanto li avevo fatti stare in pensiero? Non ero forse interessata a cosa gli altri avrebbero pensato di quella loro figlia sciagurata che se ne andava in giro di notte? Era ora che mettessi la testa apposto. Presto avrei finito la scuola e sarei stata pronta per essere una donna, con le mie responsabilità.

La guancia non mi faceva male, pulsava appena. Le loro parole, le loro accuse non provocavano increspature nel mio animo. Loro non sapevano. Non era con loro che lui aveva parlato. Ancora adesso mi chiedo se non avrei dovuto dirglielo, riferire loro cosa quella voce dolce e profonda mi aveva raccontato. Scelsi di non farlo. Riferii invece loro cosa avevo deciso. Non mi sarei sposata ma avrei continuato gli studi. Sarei andata a Parigi, avrei conosciuto da vicino la splendida, poetica capitale. Inutile dire che nessuno dei due prese bene la notizia ma non poterono opporsi in alcun modo.

Lasciai quella casa il 5 gennaio del 1963 a mezzogiorno in punto. Nessuno seppe che la notte precedente ero sgattaiolata fuori, coperta dal delicato tendaggio di neve.

Non speravo davvero che l’avrei trovato, eppure lui era lì. Neppure questa volta diede alcun segno di essersi accorto della mia presenza. Non lo salutai, gli chiesi solo cortesemente di voltarsi verso di me.

Oh, vorrei non averlo fatto. Oh, sono così felice di averglielo chiesto. I suoi occhi, i suoi numerosi, profondi occhi, erano così belli da mozzare il fiato. La sua sagoma possente oscurò la luna e la sua ombra, quasi fosse viva crebbe, tutt’attorno a lui, ghermendo la pallida luce. E le sue ali, le sue ali. Erano ossidiana traslucida, luminose e così fulgide.

Per un istante provai un terrore talmente profondo da rendermi di sale. Non potevo respirare. Ero annichilita di fronte alla sua figura, alla sua schiacciante potenza. Fu solo un attimo, il tempo di realizzare a cosa stessi assistendo, e fui di nuovo calma. Forse avevo già capito, quel giorno di due settimane prima, chi egli fosse. Quando ogni cosa mi era sembrata chiara, completa, lui era parte di quella completezza. Ne era la chiave stessa. Lo ringraziai. Gli dissi quanto lo trovassi bello e che sarei partita il giorno dopo, per la mia nuova vita. Lui mi sorrise.

“Non importa.” Mi disse. E la sua voce risuonò limpida attraverso le labbra chiuse e non vi era crudeltà o scherno nelle sue parole. “ Ci rivedremo, alla fine. Non importa dove tu sia. Io verrò per te.”

 

 

Note:

E’ banale e sciocca. Non so neppure perché la sto pubblicando. Quando ho iniziato a scriverla sembrava una buona idea ma mi è un po’ sfuggita di mano. Adoro il personaggio dell’angelo Samaele nel libro di Enoch. Mi sembra molto solo. Va bene, è l’angelo della morte e della distruzione, ma questo non lo rende crudele.

Samael è il più alto fra gli angeli del settimo cielo, il suo corpo e cosparso di occhi dardeggianti, ha due milioni di angeli sotto il suo comando, e gli è stata concessa la spada di fuoco.

Questo è quanto. Suggerimenti ben accetti, idem per le critiche negative. Quelle mi servono più di ogni altra cosa, altrimenti non miglioro.

Grazie ad Ary per aver letto.

   
 
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