I met him, he
sang for me.
Lo conobbi quando ero ancora un
ragazza, immersa negli studi
di letteratura francese e inglese, con la mente volta alla prospettiva
di un
brillante futuro già negatomi. Trascorrevo a quei tempi il
Natale nella casa
dei miei nonni materni, una solida costruzione in pietra e in legno,
dal tetto
robusto e spiovente, immersa nel candore delle vallate alpine. Il tempo
trascorreva per me lento e monotono, lontano dalla vita frenetica della
città,
scandito solo dalle costanti nevicate, dai lavori domestici e dallo
studio.
Avevo solo diciotto anni, una bambina ancora, desiderosa di godersi
ogni attimo
della propria vita, di avventure e
di
sogni destinati ad infrangersi. Ero figlia di ricchi di borghesi che
già
avevano programmato per me un futuro sicuro. La catena
dell’agiatezza
economica e del
prestigio mi avrebbe
presto vincolata ad un matrimonio precoce che
non volevo in alcun modo accettare.
Potevo
già assaporare
i frutti di questo destino nella vita dei miei genitori, fredda e
meccanica.
Mia madre, che era stata un tempo sorridente e determinata, era ora uno
spettro
grigio, che si copriva il volto con trucchi pesanti e che cercava la
propria
giovinezza nel fumo di troppe sigarette. Mio padre la tradiva, a volte
con leggerezza
a volte con crudele ponderazione; forse un tempo l’aveva
amata. Odiavo la mia
vita. Appena se ne presentava l’occasione fuggivo dal
controllo dei miei
genitori e mi dedicavo a lunghe passeggiate nei boschi o alla scalata
delle
vette. Mi orientavo grazie ai segni lasciati sugli abeti dai cacciatori
e dai
boscaioli, stando attenta a non allontanarmi troppo. Tuttavia, sempre
più
spesso, mi sovveniva l’idea di continuare a camminare, senza
mai fermarmi,
senza possibilità di ritorno.
Non saprei pertanto dire come giunsi
al luogo dove lo incontrai.
Dovevo essermi distratta, la mente smarrita nei versi di insigni poeti
da poco
studiati, poeti che parlavano della gioia della morte e
dell’amarezza della
vita e che in quei giorni sentivo vicini più di chiunque
altro. Non controllavo
dove le mie gambe mi stavano
conducendo. Quando ebbi di nuovo coscienza di me, mi trovai ad
osservare
l’immensità del cielo che si proiettava infinito
oltre il limite di un ripido
pendio.
Lui era lì.
Non so dire che cosa mi spinse ad
avvicinarmi. Non lo avevo
mai visto, non mi giungeva alcuna sensazione positiva dalla sua figura,
anzi,
se devo essere sincera, non emanava alcun tipo di sensazione. Era come
trovarsi
dinnanzi ad un muro o ad un banale sasso. Non ero neppure certa che
fosse
davvero lì, a pochi passi dal baratro, i capelli scurissimi
scompigliati dal
vento sferzante, la veste immacolata, gonfiata e spinta verso la sua
carne
solida. Non avevo mai visto un uomo così bello ne mai ne
avrei visti in
seguito.
La sua figura era imponente contro i
raggi del sole che lo
circondavano di una luce soffusa. Quando abbassai lo sguardo sul suolo
innevato, mi accorsi che non generava altra ombra se non un sottile,
nero
cerchio attorno le piante dei piedi nudi. Ne fui completamente rapita,
ma quando
gli fui accanto, abbastanza vicina da poter udire il lento mareggiare
del suo
respiro, non riuscii a proferire alcun suono. Il mio respiro, la mia
lingua, i
miei stessi pensieri, tutto in me sembrava intorpidito, atrofizzato.
Poi, molto dolcemente, lui mi
parlò. Con il braccio teso
davanti a se, muoveva l’indice con grazia, sfiorando il
paesaggio circostante,
e ad ogni suo gesto, ad ogni sua parola le catene montuose, le valli, i
fiumi e
le foreste sembravano incendiarsi di nuova vita. Si scrollavano di
dosso la
banalità concettuale in cui i secoli li avevano immersi e
tornavano a
splendere, come nuovi. Non erano più ai miei occhi semplici
caratteristiche del
paesaggio, ma l’essenza stessa di quel luogo. Mano a mano che
la sua voce, dal
ritmo profondo, raccontava , io vedevo e sentivo come mai prima
d’allora. Ogni
cosa divenne per me immensa e straordinariamente viva, troppo grande
per la mia
comprensione, e io
ne fui sopraffatta.
Caddi in ginocchio e scoppiai in un pianto dirotto. Oh, Dio! Non mi ero
mai
sentita così piccola e insignificante. Che senso poteva
avere mai la mia vita
se ogni cosa nell’universo aveva un suo scopo, una sua
propria identità? Che io
fossi viva o morta non aveva importanza, il mondo avrebbe continuato a
girare
con o senza di me.
Guardai l’uomo, ritto
accanto a me, balbettando frasi
inconcludenti fra un singhiozzo e l’altro. Non mi guardava,
teneva lo sguardo
fisso dinnanzi a se, il volto nascosto dietro i riccioli corvini. Il
suo
braccio, dalla pelle tanto compatta e lucida da sembrare cera, si volse
verso
di me e lui mi raccontò.
Cantò del
mio animo, dei miei sogni, del mio cammino. La sua voce che prima mi
aveva
schiacciata ora mi innalzava, mi nutriva. Mai avevo avuto una
percezione così
forte di me stessa. Sentivo il mio corpo, pesante sul terreno, quel
corpo ero
io, ma io non ero il mio corpo. Avevo cognizione del mio passato, del
cammino
che mi aveva condotto in quel luogo, delle scelte che avevo compiuto,
di quelle
che non avevo visto, di quelle che non avevo neppure immaginato e
seppi, con
sconcertante chiarezza, che da quel momento in avanti niente e nessuno
sarebbero più stati in grado di frenarmi. Che la mia vita
non avrebbe più
conosciuto alcun limite se non quelli che io mi sarei imposta. Quando
con le
guance scottate dal vento sollevai lo sguardo mi accorsi di essere sola.
Tornai a casa che era ormai buio. In
cucina mio padre, mio
nonno e alcuni vicini stavano già pianificando la mia
ricerca. Quando mi
videro, scarmigliata e infreddolita, non fecero molte domande. Si
limitarono ad
ascoltare la mia storia, di come inciampando avessi battuto la testa e
soddisfatti per la tragedia evitata, se ne tornarono a casa, ridendo.
Mia madre
mangiò la foglia. Non avevo gli abiti infangati o coperti di
foglie, non avevo
ferite alla testa. Mi schiaffeggiò sgridandomi con veemenza.
Mio padre la seguì
al volo.
Non mi rendevo forse conto di quanto
li avevo fatti stare in
pensiero? Non ero forse interessata a cosa gli altri avrebbero pensato
di
quella loro figlia sciagurata che se ne andava in giro di notte? Era
ora che
mettessi la testa apposto. Presto avrei finito la scuola e sarei stata
pronta
per essere una donna, con le mie responsabilità.
La guancia non mi faceva male,
pulsava appena. Le loro
parole, le loro accuse non provocavano increspature nel mio animo. Loro
non
sapevano. Non era con loro che lui aveva parlato. Ancora adesso mi
chiedo se
non avrei dovuto dirglielo, riferire loro cosa quella voce dolce e
profonda mi
aveva raccontato. Scelsi di non farlo. Riferii invece loro cosa avevo
deciso.
Non mi sarei sposata ma avrei continuato gli studi. Sarei andata a
Parigi,
avrei conosciuto da vicino la splendida, poetica capitale. Inutile dire
che
nessuno dei due prese bene la notizia ma non poterono opporsi in alcun
modo.
Lasciai quella casa il 5 gennaio del
1963 a mezzogiorno in
punto. Nessuno seppe che la notte precedente ero sgattaiolata fuori,
coperta
dal delicato tendaggio di neve.
Non speravo davvero che
l’avrei trovato, eppure lui era lì.
Neppure questa volta diede alcun segno di essersi accorto della mia
presenza.
Non lo salutai, gli chiesi solo cortesemente di voltarsi verso di me.
Oh, vorrei non averlo fatto. Oh, sono
così felice di
averglielo chiesto. I suoi occhi, i suoi numerosi, profondi occhi,
erano così
belli da mozzare il fiato. La sua sagoma possente oscurò la
luna e la sua
ombra, quasi fosse viva crebbe, tutt’attorno a lui, ghermendo
la pallida luce.
E le sue ali, le sue ali. Erano ossidiana traslucida, luminose e
così fulgide.
Per un istante provai un terrore
talmente profondo da
rendermi di sale. Non potevo respirare. Ero annichilita di fronte alla
sua
figura, alla sua schiacciante potenza. Fu solo un attimo, il tempo di
realizzare a cosa stessi assistendo, e fui di nuovo calma. Forse avevo
già
capito, quel giorno di due settimane prima, chi egli fosse. Quando ogni
cosa mi
era sembrata chiara, completa, lui era parte di quella completezza. Ne
era la
chiave stessa. Lo ringraziai. Gli dissi quanto lo trovassi bello e che
sarei
partita il giorno dopo, per la mia nuova vita. Lui mi sorrise.
“Non importa.” Mi
disse. E la sua voce risuonò limpida
attraverso le labbra chiuse e non vi era crudeltà o scherno
nelle sue parole. “
Ci rivedremo, alla fine. Non importa dove tu sia. Io verrò
per te.”
Note:
E’ banale e sciocca. Non so
neppure perché la sto
pubblicando. Quando ho iniziato a scriverla sembrava una buona idea ma
mi è un
po’ sfuggita di mano. Adoro il personaggio
dell’angelo Samaele nel libro di
Enoch. Mi sembra molto solo. Va bene, è l’angelo
della morte e della
distruzione, ma questo non lo rende crudele.
Samael è il più
alto fra gli angeli del settimo cielo, il
suo corpo e cosparso di occhi dardeggianti, ha due milioni di angeli
sotto il
suo comando, e gli è stata concessa la spada di fuoco.
Questo è quanto.
Suggerimenti ben accetti, idem per le
critiche negative. Quelle mi servono più di ogni altra cosa,
altrimenti non
miglioro.
Grazie ad Ary per aver letto.