Alcuni personaggi utilizzati in questa
storia sono di proprietà di Stephenie Meyer, altri sono stati creati da me e
sono di mia esclusiva proprietà. Questa storia non è stata scritta con alcuno
scopo di lucro.
Questa storia si è classificata prima al "New Character Contest" indetto da Bimba Chic Aiko nel forum di EFP. Il contest prevedeva che si scrivesse una storia con un personaggio inventato dall'autore, storia che doveva essere "arricchita" con una frase e un personaggio che venivano assegnati.La citazione che mi è capitata è quella scritta in corsivo dopo il titolo; il personaggio era Emmett. Nonostante un iniziale smarrimento, dovuto al fatto che il fratellone di Edward non spicca molto nella saga, sono riuscita a escogitare qualcosa :) Ammetto di aver letto solo una volta «Cime Tempestose» e di aver odiato quel libro con tutta me stessa. La storia è tristissima e non ha un lieto fine come i romanzi di Jane Austen (che io adoro) e questo è il motivo della mia avversione verso quel libro. Nonostante ciò, quando mi è stata assegnata una citazione tratta da quel libro sono rimasta soddisfatta – poiché sono avvantaggiata dall’aver letto il romanzo - e la shot si è praticamente scritta da sola. La storia si è anche classificata terza al contest Raindrops - When it's all crashing down di _Hilary_. Se avete voglia di leggere questa shot, alla fine fatemi sapere cosa ne pensate! :)
Chiara
Vette Burrascose
ovvero la storia
di una nuova Cathy Earnshaw.
“Se tutto il
resto perisse e lui restasse, io continuerei ad essere;
e, se tutto il
resto persistesse e lui venisse annientato,
l’universo mi
diventerebbe estraneo:
non mi
sembrerebbe di esserne parte.”
Catherine
Earnshaw
Tratto
da «Cime Tempestose» di Emily Brontë
Gatlinburg
è un piccolo paesino del Tennessee che, nonostante le sue piccole dimensioni,
attira molti turisti.
Come
ogni piccola cittadina, Gatlinburg ha una particolare caratteristica: ciascuno
dei propri abitanti conosce ogni minimo insignificante particolare della vita
dei propri compaesani. Non fu affatto strano, quindi, che, quando Emmett Dale
McCarty sparì la sera del 3 maggio 1935, in meno di un’ora tutto il vicinato
era a conoscenza del fatto.
Quello
fu il giorno in cui Cathy Stevenson ricevette la più grande delusione della sua
vita.
3 maggio 1935, ore 19:57 – Casa della
famiglia McCarty
Il
piccolo salotto della casa era strapieno di gente. Mentre tremavo
dall’agitazione, distrattamente mi chiesi come facessero così tante persone a
stare stipate in quella stanza minuscola.
Ero
seduta per terra vicino al divano e mi cingevo le gambe con le braccia. Dondolavo
su e giù, ripetendo a me stessa che tutto andava bene, come se fosse un mantra.
La mia gonna era sciupata e spiegazzata, ma in quel momento il dettaglio era
irrilevante.
Accanto
a me, seduta sul divano, mia madre ogni tanto allungava la mano per carezzarmi
la guancia. I nastri rossi, che fino a poco prima avevano legato i miei capelli
castani con gran cura, ora erano allentati; le mie trecce, fatte sapientemente
quella mattina da mia madre, si erano ormai sciolte e ora i miei capelli
spettinati mi facevano somigliare a un cocker mal spazzolato.
Altro
dettaglio irrilevante.
Mio
padre era in piedi accanto al piccolo tavolo quadrato, dove di solito i McCarty
a quell’ora cenavano; ma in quel momento a nessuno era passata per la testa
l’idea di mettersi a mangiare. Era andato via l’appetito a tutti.
Il
signor McCarty e suo fratello stavano conversando animatamente con mio padre. Entrambi
erano agitati e camminavano nervosamente avanti e indietro, incapaci di stare
fermi. Li capivo, erano preoccupati per i propri figli. Avrei voluto anch’io
uscire da quella casa e mettermi a correre verso i boschi.
Il
turbamento che aleggiava nel salotto era dovuto al ritardo di Emmett e di suo
cugino Henry. Entrambi erano partiti quel pomeriggio verso i boschi per andare
a cacciare. Un passatempo tra parenti che ora faceva preoccupare tutti.
Sarebbero
dovuti tornare un’ora prima. Il sole era tramontato da un pezzo e nel fitto
degli alberi era sicuramente buio pesto.
Un’altra
lacrima scappò dalle mie ciglia e mi bagnò la guancia. Non riuscivo a
immaginare il mio Emmett perso in mezzo al bosco, al buio, al freddo, impaurito.
Tremai.
La
mano di mia madre si posò subito tra i miei capelli. “Va tutto bene, tesoro”,
sussurrò al mio orecchio, mentre io dondolavo su e giù più forte di prima,
agitata.
Le
madri di Emmett e di Henry erano sedute sul divano e stavano piangendo.
Cercavano di soffocare i singhiozzi, ma era chiaro quanto fossero turbate. I
loro figli non tornavano. Nessuno sapeva ancora dove fossero.
I
tre uomini stavano discutendo sull’organizzare o meno dei gruppi di ricerca.
“No!”,
aveva esclamato mio padre poco prima. “È troppo buio. Qualcuno potrebbe
perdersi!”.
“Chiederemo
a dei volontari di darci una mano!”, aveva urlato il padre di Emmett. “Ci
divideremmo in gruppi di tre o quattro, così nessuno sarà mai solo”.
“È
troppo pericoloso!”, aveva continuato mio padre. “Non possiamo chiedere ai
nostri vicini di rischiare tanto per noi!”.
A
quel punto la mia agitazione era salita alle stelle. “Papà!”, avevo gridato
alzandomi in piedi di scatto. Non ero riuscita a sopportare la sua freddezza.
Mio
padre si era voltato verso di me e mi aveva fissata con espressione stralunata.
“Ti
prego”, lo avevo implorato, mentre le lacrime continuavano a scendere
imperterrite sulle mie guance. “Ti prego, dobbiamo trovarli”.
Mia
madre mi aveva afferrata per un braccio e tirata verso di lei. “Cathy, bambina
mia...”. Mi ero voltata per guardarla, avevo fissato per un secondo la sua
espressione affranta e avevo ritratto il braccio bruscamente. Poi mi ero di
nuovo seduta per terra al mio posto, mettendomi di nuovo a dondolare su e giù
come prima.
Solo
ora mi rendevo conto a quanto poco fosse servita la mia scenata di poco prima. Sembrava
che a nessuno importasse di me, di quello che io volevo. Il mio fidanzato era perso chissà dove in mezzo al
bosco, ma nessuno teneva conto di quello che la sua ragazza diciassettenne
provava.
Mi
sentivo invisibile ed era una sensazione orribile.
Ore 20:32
La
situazione era ancora in stallo. Nessuno aveva fatto niente. Mio padre e i
signori McCarty stavano ancora discutendo sul da farsi, solo che ora si erano
seduti al tavolo da pranzo.
Circa
mezz’ora prima, il padre di Emmett aveva chiamato la polizia, spiegando loro la
situazione. Al telefono gli era stato risposto che era troppo buio e che sarebbe
stato pericoloso mandare qualcuno in mezzo ai boschi. Avremmo dovuto aspettare
il giorno dopo perché qualcuno andasse alla ricerca dei due ragazzi.
Quando
il signor McCarty riferì a tutti la risposta che aveva ricevuto, la mia isteria
raggiunse l’apice. Senza pensarci due volte mi alzai da terra, per un secondo fissai
l’ambiente intorno a me con gli occhi gonfi di lacrime e corsi fuori dalla casa
sbattendo la porta d’ingresso alle mie spalle, incurante delle buone maniere.
Ignorai mia madre che mi chiamava e la voce di mio padre che le diceva di
lasciarmi andare: ero decisa a non rientrare.
Stetti
immobile, in piedi nel porticato, per qualche secondo, mentre le lacrime
scendevano copiose; poi mi accomodai sul dondolo di legno per cercare di
calmarmi.
Fu
la cosa peggiore che potessi fare. Stare seduta su quel dondolo da sola mi
provocò un forte dolore al petto. Piantai i piedi per terra e cercai con tutte
le mie forze di non far oscillare l’altalena, ma non ci riuscii.
Il
lento cullare faceva riaffiorare alla mia mente milioni di ricordi. Nei freschi
pomeriggi di primavera io e Emmett ci mettevamo sempre lì, accoccolati sui
cuscini del dondolo, mentre chiacchieravamo o – sempre dopo molte mie
insistenze - leggevamo insieme qualche romanzo. Il mio ragazzo di per sé non
era un amante dei libri, ma, da quando c'eravamo fidanzati, aveva iniziato ad
apprezzarli un po’ più di prima grazie alla mia passione per i romanzi, che
cercavo pian piano di trasmettergli.
Ma
in quel momento ero sola. Non sentire le forti braccia di Emmett stringermi a
sé mi provocò un senso di abbandono che non riuscivo a reggere.
La
mia mente si mise a vagare tra i miei mille pensieri e tirò fuori un ricordo di
circa un mese prima.
Emmett
ed io eravamo seduti su quello stesso dondolo mentre il sole tramontava. Le
ombre si allungavano a vista d’occhio e il cielo si tingeva di rosso. Tenevo
aperto in grembo il libro che stavamo leggendo insieme: in quel periodo era
toccato a «Cime Tempestose» di Emily Brontë, che mi aveva consigliato la mia
migliore amica.
Stavamo
leggendo il capitolo nono ed eravamo arrivati al punto in cui Cathy – che
ironia, aveva il mio stesso nome! - discuteva con Nelly – la sua balia -
riguardo al suo imminente matrimonio con Edgar Linton. La ragazza stava
spiegando come la prospettiva di sposare quell’uomo la spaventasse perché
credeva non fosse la scelta giusta. Confessò che sarebbe diventata sua moglie
solo per i suoi soldi, perché voleva sottrarre Heathcliff dalle grinfie di suo
fratello. Nelly le disse che non poteva sposare Linton per quel motivo, ma
Cathy replicò che era la ragione migliore per farlo, perché teneva moltissimo a
Heathcliff e credeva che un pezzo della sua anima fosse contenuto in lei e
viceversa.
Cathy
stava dichiarando a Nelly il suo amore per il ragazzo.
Avevo
letto un passaggio a voce alta: “Se tutto
il resto perisse e lui restasse, io continuerei ad essere; e, se tutto il resto
persistesse e lui venisse annientato, l’universo mi diventerebbe estraneo: non
mi sembrerebbe di esserne parte. Il mio amore per Linton è come il fogliame dei
boschi: il tempo lo trasformerà, ne sono sicura, come l’inverno trasforma le
piante. Ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce nascoste e
immutabili; da poca gioia apparente, ma è necessario”.
Commossa
da quelle parole, avevo chiuso il libro tenendo il segno con un dito e avevo
posato il capo sulla spalla di Emmett. Le sue braccia mi avevano stretta più
forte e aveva baciato i miei capelli.
“Tu
sai quanto io odi i romanzi d’amore”, aveva sussurrato con un velo d'ironia
nella voce.
“Sì”.
Certo che lo sapevo. Emmett amava i romanzi di avventura: «Robinson Crusoe» di
Daniel Defoe era il suo libro preferito, ma aveva anche iniziato ad apprezzare
i romanzi fantascientifici di Jules Verne. Da quando, tempo prima, avevo
tentato di leggere assieme a lui «Orgoglio e Pregiudizio» di Jane Austen e si
era lamentato dicendo che la trama non era di suo gradimento, non avevo più cercato
di propinargli qualche storia d’amore.
Ma
«Cime Tempestose» dovevamo assolutamente
leggerlo assieme.
Emmett
si era lasciato sfuggire un sospiro. “E questo lo disprezzo ancor di più perché
non vedo un lieto fine alla storia”.
“Già”,
avevo risposto, fissando la copertina del libro.
“Eppure”,
aveva continuato, “non posso che essere d’accordo con Cathy Earnshaw”.
Avevo
alzato lo sguardo e mi ero voltata, raggiungendo i suoi occhi castani.
“Davvero?”.
Emmett
aveva annuito. “Comprendo le sue parole, i suoi sentimenti”. Aveva fatto una
breve pausa, poi aveva continuato: “Il mondo potrebbe crollarmi addosso, ma
continuerei a vivere se tu restassi con me. Se invece accadesse il contrario –
se tu te ne andassi – credo che morirei. Preferirei morire”.
“Emmett...”,
avevo mormorato, non sapendo cosa rispondere. Forse avrei voluto dirgli che non
avrebbe dovuto bramare la morte, che era una cosa senza senso. Sarebbe
benissimo potuto sopravvivere senza di me, avrebbe trovato qualcun’altra.
Poi
mi ero resa conto che anch’io la pensavo come lui. Non avrei potuto vivere
senza il mio Emmett.
“Per
me è lo stesso”, avevo detto alla fine.
Emmett
aveva sfoderato il suo dolce sorriso, poi mi aveva baciata. Il libro mi era
sfuggito dalle mani ed era caduto sul pavimento del portico con un tonfo.
Quello
era stato uno dei pochi baci che c’eravamo scambiati da quando eravamo
ufficialmente fidanzati. Sarebbe rimasto nei miei ricordi per sempre.
In
quel momento, seduta da sola nel portico, alla flebile luce che filtrava dall’interno
della casa attraverso le finestre, sentivo la mancanza delle forti braccia di
Emmett che mi stringevano per proteggermi. Non sentivo il calore del suo corpo
avvolgere il mio. Ero sola, al freddo. Piansi.
A
un tratto la mia ombra si disegnò sulla parete della casa: i fari di un’auto
stavano puntando nella mia direzione.
Mi
voltai verso la luce, coprendomi gli occhi con una mano per non essere
accecata, poi i fari si spensero assieme al motore dell’auto. Un’ombra
indistinta scese dalla vettura e ci girò intorno, poi aprì la portiera del
passeggero, da cui uscì un’altra ombra. Quest’ultima era più alta e robusta
della prima. Era forse...
“Signorina!”,
gridò la prima ombra. Era un uomo.
“Sì?”,
risposi, ma la mia voce si ruppe.
“Vive
qui la famiglia McCarty?”.
“Sì”,
risposi a voce più alta. Il mio cuore mi parlava, suggerendomi qualcosa, mentre
la mia mente cercava di metterlo a tacere. Non potevo sperare. Non prima di
essere certa di aver capito a chi appartenesse l’altra ombra.
Mi
alzai dal dondolo e scesi le scale del porticato, avvicinandomi alle due
sagome. Quando fui a una decina di metri da loro, riconobbi l’ombra più alta.
Il
mio cuore sussultò per un secondo e un sorriso si fece strada sulle mie labbra.
Era Emmett! Era tornato sano e salvo!
Aumentai
il passo per avvicinarmi a loro più velocemente. Incespicai una volta, ma
riuscii subito a ritrovare l’equilibrio e continuai ad avanzare.
“Ho
trovato questo ragazzo in mezzo alla strada”, continuò intanto l’uomo, mentre
riducevo la distanza tra me e loro. “Mi ha detto di chiamarsi Henry McCarty e
mi ha indicato la strada per riportarlo a casa”.
Mi
bloccai a qualche passo da loro, in mezzo al giardino, fissando le due ombre.
Non riuscivo ancora a distinguere i loro volti poiché eravamo immersi nel buio.
Il
mio cuore sussultò di nuovo, minacciando di fermarsi.
Henry?
Quello era Henry?
Emmett
dov’era?
“Il
ragazzo è scosso, è meglio che lo facciate entrare”, disse l’uomo. Si avvicinò
a me, aiutando il ragazzo a camminare fungendogli da stampella, e mi sorpassò,
diretto verso la casa.
Non
mi mossi di un millimetro mentre i due mi passavano di fianco. L’idea di
aiutare l’uomo a portare dentro Henry non sfiorò minimamente la mia mente. Continuai
a fissare di fronte a me con sguardo vuoto, mentre le lacrime riprendevano a
scendere copiose a causa della profonda delusione. Mi sembrò di rimanere
immobile per un tempo infinito.
Improvvisamente
mi risvegliai dal mio coma e mi voltai indietro. Erano trascorsi solo pochi
secondi. L’uomo stava aiutando il ragazzo, avvolto in una coperta, a salire gli
scalini del portico.
“Aspettate!”,
esclamai. C’era qualcosa che non andava. Dov’era Emmett?
Entrambi
si fermarono. Li raggiunsi.
“Henry”,
lo chiamai, fissandolo negli occhi. L’espressione del ragazzo era terrorizzata.
“Henry,
cos’è successo? Dov’è Emmett?”, domandai con un tono di voce forse troppo alto.
“Emmett...”,
mormorò lui. “Un orso... non siamo riusciti a evitarlo...”. La sua voce
sembrava provenire dall’oltretomba. Era come se la sua bocca fosse sconnessa
dal cervello e si muovesse da sola.
“Che
è successo?”; gridai, afferrandolo violentemente per la coperta e scuotendolo,
mentre dei goccioloni scendevano dai miei occhi e dal cielo.
“La
bestia lo ha attaccato. Emmett era ferito. È caduto a terra”.
“E
tu l’hai lasciato lì?!”, esclamai, mentre la porta della casa si apriva e ne
usciva mio padre.
“Henry!”,
gridò, poi scese le scale e ci venne incontro, abbracciando il ragazzo e ringraziando
l’uomo che lo aveva portato con la sua auto. Poi portò Henry dentro casa e
l’uomo se ne andò con la macchina.
Rimasi
sola nel giardino sotto la pioggia, che aveva iniziato a cadere fitta. Non mi
ero mossa mentre l’auto accendeva i fanali e faceva retromarcia. Rimasi immobile
anche quando sentii provenire le urla di disperazione dei genitori di Emmett
dalla casa.
Un
orso aveva aggredito il mio Emmett. Henry aveva detto che non erano riusciti a
evitarlo. Perché? Perché erano arrivati al punto di essere stati così vicini a
quell’animale? Perché erano stati così imprudenti?
Henry
aveva detto che Emmett era caduto a terra dopo l’aggressione. L’aveva lasciato
lì. Perché? Era morto? Henry ne era sicuro? O era fuggito in preda al panico?
Forse
non si era assicurato che fosse morto. Magari Emmett era ancora vivo.
Era
perso in mezzo al bosco, ferito, aspettando che qualcuno lo salvasse.
Me
ne stetti là per un po’, aspettando che qualcuno – mia madre o mio padre –
uscisse e mi portasse dentro casa, consolando le mie lacrime. Ma la porta non
si aprì.
Si
erano dimenticati di me.
La
mia famiglia avrebbe potuto vivere senza di me? Avrebbe potuto vivere senza di
Emmett?
Io
no.
Delle
parole mi balenarono alla mente.
“Se tutto il resto perisse e lui restasse, io
continuerei ad essere; e, se tutto il resto persistesse e lui venisse
annientato, l’universo mi diventerebbe estraneo: non mi sembrerebbe di esserne
parte”.
Non
avrei potuto vivere senza Emmett. Era l’unico motivo della mia esistenza. Le
mie giornate sarebbero state vuote, intrise di tristezza e di dolore. Non avrei
mai trovato qualcun altro in grado di farmi sorridere come Emmett. Nessuno
riusciva a farmi divertire più di lui.
Non
mi sarei più sentita parte dell’universo, come Cathy senza Heathcliff.
In
quel momento presi una decisione: sarei andata a cercare il mio ragazzo, anche
in capo al mondo.
Mi
voltai verso la foresta, che costeggiava la strada passate davanti alla casa.
Gli alberi proiettavano un’ombra cupa contro il cielo, che era di un grigio
leggermente più chiaro. Intravedevo appena il contorno delle fronde, illuminate
dalla debole luce della luna.
Nonostante
lo spettacolo lugubre che mi si parava davanti, non provai paura. Ero
determinata e questo bastava a mettermi coraggio.
Chiusi
gli occhi e presi un respiro profondo, poi mi incamminai verso il fitto degli alberi
e qualunque destino mi riservasse il bosco freddo e buio.
***
Era
dall’alba che l’agente Garrett camminava nei boschi. Era ormai da due ore che
teneva al guinzaglio Cindy, un pastore tedesco femmina di sei anni, mentre il
cane continuava a tirarlo nella direzione della scia lasciata dalla ragazza.
John
Stevenson lo accompagnava, impaziente di riabbracciare la figlia. Garrett aveva
cercato di persuadere l’uomo a non venire con lui, dicendogli che avrebbero
potuto trovare Cathy morta, giacché era sparita da ben dieci ore. Ma quello non
aveva voluto sentire ragioni; Garrett non era riuscito a insistere di più e
alla fine aveva accondisceso alla richiesta.
L’agente
Smith camminava a qualche centinaio di metri di distanza da loro. Anche lui teneva
un segugio al guinzaglio, ma quello seguiva la scia lasciata da Emmett McCarty.
A
un tratto Cindy iniziò a tirare con più forza. Garrett fu costretto ad
aumentare il passo per starle dietro.
Anche
John Stevenson si mise a correre. “Ha fiutato qualcosa?”, domandò con un filo
di speranza nella sua voce.
Garrett
non se la sentì di infrangere la fiducia dell’uomo. “Può darsi”, rispose prudentemente.
Non poteva né confermare né negare.
Percorsero
così circa duecento metri, poi Cindy girò attorno ad un albero.
Accoccolata
tra le enormi radici, c’era una ragazza castana. I suoi capelli erano tutti
scompigliati e dei nastri rossi penzolavano sulle sue spalle.
“Cathy!”,
esclamò John Stevenson, poi si fiondò sulla ragazza.
“Aspetti!”,
lo fermò Garrett, trattenendolo per un braccio. Scansò l’uomo e si avvicinò a
Cathy, mentre Cindy, seduta lì accanto, scodinzolava orgogliosa.
Il
viso della ragazza era cadaverico. Le sue labbra avevano un colorito bluastro.
L’agente premette due dita sulla giugulare per sentire se c’era pulsazione.
Percepì un battito debole e irregolare.
“È
viva!”, esclamò rincuorato. “Ha un inizio di ipotermia, dobbiamo fare in
fretta”.
A
quella notizia, John si fiondò di nuovo sulla figlia, la avvolse nella coperta
che aveva portato con sé e la sollevò.
Da
dietro l’albero sbucò l’agente Smith con il suo cane. “Avete trovato la
ragazza?”, domandò confortato vedendo Cathy tra le braccia del padre.
“Sì,
grazie al cielo”, rispose Garrett. Indicò il segugio con un cenno della testa.
“Patrick ha fiutato qualcosa nelle vicinanze?”.
“Sì”,
rispose Smith. “Ma la scia si interrompe a una cinquantina di metri da qua”.
Cathy
era semicosciente. Riuscì a udire ciò che aveva detto l’agente e quelle parole
le fecero sovvenire alla mente delle immagini.
Si
trovava nel fitto del bosco, poco distante da lì. Era davvero buio; non
ricordava di essere mai stata in un luogo così tenebroso. La paura non l’aveva
sfiorata, almeno per il momento.
A
un tratto si era ritrovata in uno spiazzo dove le fronde degli alberi erano
meno fitte e la luce della luna riusciva a penetrare fin là sotto. Delle gocce
d’acqua erano cadute dall’alto e le avevano bagnato i capelli, ma non era
riuscita a capire se stesse ancora piovendo o se quell’acqua provenisse dalle
fronde degli alberi. Guardando più avanti, aveva scorto una figura accucciata. Cathy
si era spostata di qualche metro a sinistra per vedere meglio.
Una
ragazza – era forse bionda? – era accovacciata su qualcosa. O, meglio, qualcuno.
Quella
si era spostata un poco, scoprendo la visuale di Cathy su chi era disteso a
terra. Aveva scorto dei riccioli mori.
Emmett!,
aveva esclamato
nella sua mente. Aveva aperto la bocca, ma non era riuscita a emettere alcun
suono.
La
bionda aveva sollevato Emmett e l’aveva tenuto tra le braccia come fosse un
neonato. Cathy era rimasta basita. Come aveva fatto quella ragazza a
sollevarlo? Emmett era robusto! La sua stazza era quasi il doppio di quella
della bionda!
Cathy
avrebbe voluto avanzare verso di loro, ma non riuscì a muovere un singolo
muscolo. Era terrorizzata. Chi era quella ragazza?
All’improvviso
la bionda ed Emmett sparirono. Si volatilizzarono. Un momento prima erano lì e
quello dopo... non c’erano più.
Cathy
aveva sussultato e un secondo più tardi stava correndo – al limite della sua
forza fisica – verso il punto dove i due si trovavano poco prima. Aveva
percorso qualche decina di metri, poi era inciampata. Probabilmente aveva
sbattuto la testa su qualche radice perché tutto era diventato nero.
In
quel momento, tra le braccia di suo padre, Cathy non sapeva dire con certezza
se i ricordi di quell’avvenimento fossero reali oppure se si fosse immaginata
tutto. Mentre tremava per il freddo, si chiese se fosse diventata pazza.
Con
l’orecchio posato sul petto di suo padre, riusciva a percepire il suo battito
forte e regolare. Quella pulsazione era un incentivo per Cathy, la spronava a
combattere per rimanere vigile.
“Resisti,
bambina mia”, le sussurrò il padre all’orecchio. “Ti porto a casa”.
Nota
dell’autrice
Scrivendo
questa one-shot ho immaginato come avrebbe reagito l’eventuale fidanzata di
Emmett quando lei avesse ricevuto la notizia che il ragazzo era stato aggredito
da un orso.
***
Emmett
Dale McCarty è davvero vissuto a Gatlinburg, nel Tennessee.
Nel
1935, all’età di vent’anni, venne attaccato da un orso mentre cacciava nei
boschi e fu salvato da Rosalie, che cacciava lì vicino, la quale lo trasportò
per centinaia di chilometri fino all’abitazione dei Cullen dell’epoca per
chiedere a Carlisle di trasformarlo.
È
proprio Rosalie, in Eclipse, che spiega a Bella il motivo del suo gesto: il
viso di Emmett le ricordava quello del figlio di Vera, la sua migliore amica
quando era umana, che Rose invidiava perché viveva in una famiglia felice.
***
La
data dell’aggressione di Emmett (3 maggio) è stata inventata da me, così come è
di mia invenzione la presenza di suo cugino Henry al momento del fatto.
I
riferimenti al romanzo «Cime Tempestose» di Emily Brontë, presenti sia nel nome
della protagonista Cathy che nel titolo di questa storia, sono del tutto
voluti.
Ed ecco la valutazione del giudice del contest "New Character Contest":
Meritatissimo voto pieno in questa voce. Uno stile scorrevole, elegante ma non ridondante, colloquiale quanto basta da far entrare il lettore all'interno della storia fin dalle prime righe.
Quel 0.5 in meno è dovuto a una frase, “alla fine aveva accondisceso”. Nel mezzo della narrazione questa frase stona un po', creando un'interruzione poco piacevole per il lettore. Trattazione della frase: 9 punti/10
A toglierti un punto è il fatto che la trattazione non è delle più originali. Nonostante ciò, ho amato il passaggio in cui l'hai inserito.
Forse perchè è il più intenso, il momento di massimo dramma. E il lettore lo percepisce chiaramente.
E perchè la frase è stupenda e perchè sei stata in grado di valorizzare ciò che trasmette inserendola in un contesto drammatico e potente.
Originalità: 9.5 punti/10
Bella l'idea di una seconda Cathy, merita sicuramente un voto alto. Mi è piaciuto questo tuo attualizzare la storia e i personaggi, introducendo allo stesso tempo il libro originale nella tua storia.
Ho apprezzato molto anche il fatto che tu abbia inserito le tue personali opinioni sul libro facendole pronunciare ad Emmet.
Qualcun altro avrebbe potuto fare grandi riflessioni, tu invece sei stata sincera. E questa è una dote rara, che ho apprezzato moltissimo e che merita di essere premiata.
Caratterizzazione: 10 punti /10
Il massimo, assolutamente meritato tra l'altro. Una Cathy che porta il nome dell'altra, ma nonostante ciò completamente diversa da lei.
Non tutti sarebbero stati in grado di creare un personaggio così ben delineato in poche pagine, con un carattere e un modo di essere tutto suo.
Molto dolce Emmet e, direi, anche attinente nel suo odio per i libri e i romanzi d'amore.
Gradimento personale: 5 punti /5
Non c'è molto da dire. Credo che si sia già capito che ho adorato la tua fic. E'... intensa.
Ecco, sì, intensa. Il lettore viene catapultato nella vicenda fin da subito e prova una forte empatia verso la protagonista, quasi diventa lei.
Avverte la sua paura crescente, il dolore, lo stordimento... tutte quelle emozioni che lei prova sono state parte di me, quasi fossi io a provarle.
Speravo in un epilogo diverso, non so in che modo. Forse mi aspettavo che Cathy morisse, sinceramente.
Nonostante tutto, però, meritatissimo è il massimo del punteggio anche in questa voce.
43+4 punti bonus per un totale di 47