La piazza è piena di luci.
La musica della banda allieta la serata delle persone che si stanno godendo la festa.
Ci sono vecchietti che chiacchierano e ridono seduti sulle panchine.
Ci sono coppiette di giovani innamorati, che si scambiano teneri baci e carezze.
Guardandole, il cuore mi si rattrista; non ho mai trovato l'amore e, probabilmente, mai lo troverò.
Quale donna mi amerebbe mai? Un mostro, questo sono.
Un poveraccio che, per guadagnarsi da vivere, con la faccia e le vesti dipinte di grigio, a mo' di stauta, intrattiene i pochi bambini che si fermano interessati.
Ed ecco che se ne avvicina uno.
Dietro di lui ci sono i suoi genitori, che lo guardano sorridendo.
Bene, è l'occasione giusta per strappare loro un sorriso, e magari, se sono fortunato, domani potrò permettermi di mangiare.
Mi guarda incuriosito, e comincia a muovere i piedi, lentamente, verso di me. Io rimango immobile.
Voglio sorprenderlo, animandomi all'imprvviso; già m'immagino il suo iniziale spavento, seguito dalle sue risate e da quelle dei genitori.
Ormai è a poco più di un metro da me; allunga la manina per toccare la mia giaccia dipinta di grigio.
È il momento! Scatto in avanti, allargo le braccia e tramuto la mia espressione vuota in una smorfia. Il bambino si spaventa, ma non inizia a ridere. Si volta e scappa.
I genitori, smettendo di ridere, cominciano a chiamarlo. Si sta allontanando troppo. Il padre gli corre dietro: è troppo tardi.
È finito in mezzo alla strada. L'urlo della madre, la brusca frenata di un'auto; tutto ciò mi è rimasto impresso bene nella memoria.
Si chiamava Paolo, aveva quattro anni.
Ed è morto per colpa mia.