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Autore: Sun_    14/11/2011    2 recensioni
«Quale vantaggio avrà l’uomo
se guadagnerà il mondo intero,
e poi perderà la propria anima?»

Niniel Smith non aveva programmato di diventare quello che era: una rockstar drogata e malata di sesso, con problemi esistenziali e infinite contraddizioni. Nessuno aveva mai immaginato che quella bimba dai capelli d’oro –spesso intrecciati in lunghe trecce alla Pippi Calze Lunghe- avrebbe preso quella strada. Nessuno.
A partire dai suoi genitori, divorziati, che l’avevano trascinata a Berlino all’età di sei anni condannandola al suo destino di tossicodipendenza e vuoto per finire ai suoi fans a cui regalava sorrisi così falsi e raccomandazioni ipocrite.
Perché lei era quello: un’ipocrita.
Un’ipocrita e una bugiarda.
A volte, però, la vita da una possibiltà per tornare ad essere quelli di prima.
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: AU, Lemon, OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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*

Zwei.

Die Vergangenheit

*

Siamo dannati dopotutto.
Tra il destino e le fiamme noi cadiamo.
E se potrai restare ti mostrerò la strada
Per tornare dalle ceneri che invochi.

My Chemical Romance - Mama

 

 

 

Appoggiò la testa contro il finestrino dell’auto.

I suoi occhi seguivano il profilo dei palazzi che andavano via via sparendo dietro l’orizzonte.

Berlino stava per abbandonarla.

Cos’è che aveva detto sua madre?

 

«Ti farà bene andartene per un po’, il marciume di Berlino ti ha rovinata… forse da tua nonna riuscirai a dimenticarti delle tue dipendenze.»

 

Certo, perché in Culonia la droga non c’era.

Appoggiò la testa contro lo schienale e sospirò. Forse se l’era davvero cercata. Quella pera poteva anche risparmiarsela e tutto sarebbe stato come sempre.

Se non avesse dato retta alla sua voglia a quell’ora sarebbe sdraiata sul divano a scopare con Kevin, poco ma sicuro, invece di essere su un’auto diretta nella Bassa Sassonia in un paesino dimenticato persino da Dio.

Il paese della sua infanzia, certo, ma era comunque un posto in culo alla luna.

Se quel pomeriggio non avesse sbagliato le dosi ora la sua vita sarebbe rimasta quella di sempre.

Ma a cosa serviva colpevolizzarsi a gioco fatto? Lei stava tornando a Loitsche e tutta la sua vita sarebbe diventata un cumolo di ripetizioni e di noia.

Quanto ci avrebbe messo a morire di noia? A cercare un diversivo?

A sua madre non l’aveva detto ma una buona quantità di cocaina era infilata nel suo beutycase per le evenienze: altro che disintossicazione.

La verità era che non avrebbe potuto andare avanti senza la sua medicina contro gli incubi che viveva.

Accavallò le gambe e sospirò.

Quella mattina, quando si era svegliata in ospedale, ad accoglierla era stata lo sguardo severo di Daren. Sì, Daren era davvero incazzato, come Chris e sua madre. Suo padre, come sempre, non c’era. Kathi era al suo capezzale (per lei non sarebbero serviti solo due anni di terapia) e tremava come una foglia. Ryan era apparso con un bicchiere di camomilla per la chitarrista e si era seduto, silenzioso, ad un angolo della stanza. Kevin era arrivato dopo e l’aveva maltrattata. Sì, l’aveva fatto perché si era sempre raccomandato di non farsi pere con la Cocaina senza di lui. Ovviamente tutto quello glielo aveva detto quando sua madre era andata via indignata scatenando l’ira di Daren.

Le urla le ricordava, oh se le ricordava e aveva urlato anche lei quando suo padre era entrato e le aveva annunciato che sarebbe andata dalla nonna.

 

«Quando eri piccola rimpiangevi Loitsche e tua nonna, ora avrai modo di rivedere anche i gemelli.Sai, abitano ancora lì e ho saputo che sono anche dei bravissimi ragazzi»

 

Sicuramente erano dei noiosi sfigatelli di campagna.

La domanda le era sorta spontanea: aveva voglia di vedere i suoi amici d’infanzia? Aveva voglia di far conoscere la sua nuova se stessa anche a quelli che l’avevano amata da piccola?

O si vergognava di quello che era diventata?

Non riusciva nemmeno ad immaginarsi i gemelli. Quanti anni dovevano avere?

Diciotto? O forse diaciannove?

Ricordava a malapena le loro facce, le aveva cancellati nello stesso istante in cui si era tagliata le trecce.

E un po’ se ne vergognava.

Guardò le sue gambe nude e si chiese come avesse potuto essere così sprovveduta, come aveva potuto distruggersi la vita da sola per portarla lì.

Nella sua infanzia, per porter ritoccare, dolorosamente, il passato.

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Loitsche altro non era che un borgo perso nelle brulle campagne della Sassonia.

Vi si accedeva prendendo l’autostrada che da Magdeburg (la città più vicina) portava ad Amburgo.

Una vasta piana gelida d’inverno e rigogliosamente verde d’estate, piovosa e fredda quel che bastava per farle rimpiangere lo stagnante caldo provocato dallo smog di Berlino.

La macchina si fermò proprio lì, davanti alla sua vecchia casa. La ricordava perfettamente.

Su due piani, dallo stile vagamente francese di un caldo color giallo che andava a spiccare tra le casette di legno bianche. Il grande giardino aveva ancora la sua arrugginita altalena rossa su cui uno dei gemelli –non ricordava quale- l’aveva spinta la prima volta che erano venuti a giocare da lei. Ricordava di aver pianto per ore mentre quello le diceva che stava facendo una scenata inutile.

Beh, in effetti lo era ma… era una bambina, piangeva facilmente.

Riconosceva persino la fila di finestre con le eleganti tendine bianche, il dondolo sulla veranda e il garage colmo di scatoloni. Ancora di più l’enorme portone –che poi enorme non era più- di legno di ciliegio.

Anche il cielo era identico. Chiaro e limpido che si stagliava sopra immense distese di verde e fiori.

Sì, era tutto come la sua memoria, intaccata da alcool e soprattutto droga, conservava.

Scese dall’auto con lentezza guardandosi attorno mentre il suo autista le scaricava le valigie.

Non c’era nessuno in giro, solo qualche coppietta che cercava di fare una passeggiata in santa pace, qualche cane abbaiava alla macchina sconosciuta facendo rimbombare il suo verso. Per il resto il silenzio.

Un silenzio di provincia, denso e ristoratore.

A Berlino non c’era mai silenzio, nemmeno di notte figuriamoci alle tre di pomeriggio.

«Con il suo permesso, signorina, me ne andrei» le disse cordiale l’autista.

Niniel lo congedò con un gesto della mano e guardò la sua nuova casa. Fece un passo verso il cancello di ferro battuto quando la porta si spalancò.

«Nonna è arrivata Niniel!» urlò una voce femminile, potente e melodiosa.

Niniel fece ricadere lo sguardo sulla ragazza che era alla porta. Era robusta, le sue curve morbide erano fasciate da una larga t-shirt bianca mentre le gambe coperte da un bermuda neri. Ai piedi aveva dei semplici infradito nere e i capelli biondi, simili a quelli che aveva lei prima della tinta, erano legati in una crocchia disordinata.

Una tenuta da casa, puramente da casa.

Chi era quella tizia?

La vide uscire come un fulmine dalla casa e dirigersi verso di lei «Che bello rivederti… ehm… dal vivo» trillò fermandosi a qualche passo da lei, sorridendole con gli occhi azzurri.

Niniel tentennò. La conosceva?

Si stampò in faccia un sorriso del tutto falso e inclinò la testa «Anche per me… ehm…»

Eccola, la prima figura di cacca.

Gli occhi azzurri della ragazza vennero trapassati da una luce strana che lei non colse «Non ricordi chi io sia, vero?» la incalzò «Poco male, non ci vediamo da quando andavamo all’asilo» le fece notare «Sono Alina, tua cugina»

Niniel spalancò gli occhi.

Alina?

La ricordava tremendamente diversa. La ricodava più alta e slanciata di lei, i capelli cortissimi biondi e gli occhi piccoli e vispi.

Quelli erano rimasti, ma lei era diventata… diversa.

«Oh» si lasciò sfuggire la rossa «Scusa»

«Tranquilla» trillò gioviale «Adesso lo sai, su, entriamo, nonna ha preparato i biscotti».

Non le diede il tempo di di replicare che afferrò due delle sue tre valigie e le intimò di seguirla in casa. Niniel lo fece. Non conosceva nessuno in quel posto e forse sua cugina poteva aiutarla almeno ad integrarsi a non chiudersi in casa come sua madre vorrebbe.

Alina entrò in casa buttando le sue valigie nel piccolo e accogliente atrio che dava sulle scale di legno. Proprio come se le ricordava. Prese a camminare verso destra e si infilò in una stanza. La cucina.

Niniel la seguì guardando tutte le foto appese sulle pareti. Per lo più foto della sua famiglia. Una famiglia che rimaneva un ricordo sbiadito e anche ingradito. Prima del divorzio sua madre e suo padre avevano così tanti scheletri nell’armadio che quella casa era diventata invivibile.

Quelle foto con quei sorrisi erano tanto false quanto dolorose. Niniel voltò lo sguardo, non voleva ricordare il motivo per cui era cambiata così tanto. Seguì la cugina verso la cucina.

Le sue narici captarono un odore così buono da farla rabbrividire. Un odore dolce e zuccheroso che la riportò alla sua infanzia quando volava giù dalle scale di legno perché la nonna aveva iniziato a preparare i dolci.

Spezoni felici di una vita insignificante e piena di rimpianti come la sua.

Varcò la porta trovandosi nella cucina rustica e celeste della nonna. Lei era lì, indaffarata con la pasta, sommersa di farina. I capelli bianchi tirati su da un mollettone e il viso ruguso volto verso il suo lavoro.

Notava anche quelle mani secche e deturpate dal tempo che lavoravano allacremente l’impasto. La ventola del forno mandava un ronzio delicato accompagnato dall’odore di biscotti.

Era tutto così… immutato.

Era come risvegliarsi nel suo lettino e scendere a colazione saltellando in cerca dei biscotti fatti in casa. “I migliori del mondo” come le piaceva dire mentre la nonna le accarezzava le trecce. Si toccò i capelli e si accorse che quella non era la realtà, lei non era più quella bambina. I suoi capelli non erano più biondi da anni, la sua purezza era morta ancora prima. Semplicemente aveva annullato tutti i legami con la bambina che una volta abitava quella casa.

La nonna alzò appena gli occhi e le fissò su di lei, aprendosi in un sorriso.

Niniel ebbe un tuffo al cuore mentre la donna anziana la guardava come a spogliarla. Sentì un vuoto allo stomaco.

 

«Nonna Nena?»

«Sì, bimba mia?»

Niniel sorrise allungando le manine «Da grande sarò proprio come te»

Perché era il suo più grande idolo, un modello.

 

Eccolo, di nuovo, il passato che tornava e le sue false promesse mai portate a compimento.

Avrebbe voluto piangere in quel momento perché, nonostante tutto, sua nonna la guardava ancora come una volta. È difficile dimenticarsi quel calore all’altezza del cuore, quell’intesa psichica che solo con lei aveva.

Nena Smith era sempre stata la persona più importante per lei.

La vide allontanarsi dall’impasto e pulirsi le mani al grembiule «Bimba mia!»

Eccolo, il tuffo al cuore. La vide avvicinarsi a lei con le braccia allargate.

Un abbraccio, un semplice abbraccio per infonderle un calore sconosciuto e perfetto.

Il calore dell’affetto.

 

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Sospirò

L’aria fresca di quella giornata di fine giugno le inebriò i polmoni. Non ricordava da quanto tempo con respitava un’aria così pulita e fine.

Berlino aleggiava di smog e di caldo afoso, come tutte le città.

Il silenzio le trapanò le orecchie mentre si andava a sedere su di una panchina posta alla fine della staccionata di legno bianco.

Si portò le gambe al petto e sospirò.

Dio, tutto quello era così lontano da lei, da quello che era. Si stava stuffando in ricordi che aveva represso, annegava nei sorrisi di gente che –per anni- non aveva calcolato. Sua nonna le aveva preparato i biscotti che amava da bambina, si era strafocata mentre Alina parla in continuazione di Bill e Tom: i gemelli Kaulitz.

Tipi forti, secondo la cugina che passava con loro praticamente tutti i suoi giorni e tutte le sere dei weekend.

E lei non riusciva a ricollegarli a quel ricordo che conservava, così lontano e sbiadito.

Circondò le sue gambe con le braccia e posò su di esse il mento guardando quel paesaggio che una volta era stata la sua unica fonte di conforto.

I prati verdi e sconfinati, gli alberi tra cui il vento soffiava leggero, come una carezza data a un bambino. Le strade semi deserte, le villette a schiera con giardino, le vecchiette sedute sulle panchine verdi a chiacchierare a spettegolare su tutti i giovani e non di Loitsche.

Come aveva fatto ad allontanarsi così tanto dalla sua infanzia.

«Credo che tutto questo sia diverso da Berlino, non trovi?» le disse una voce maschile.

Niniel trasalì come presa da una scossa elettrica. Alzò lo sguardo cercando il proprietario di quella voce melodiosa che aveva interrotto i suoi pensieri. Lo trovò alla sua destra, seduto sul muretto di recinzione della casa accanto.

Un ragazzo. Un bellissimo ragazzo, per l’appunto.

I capelli neri, scompigliati, gli incorniciavano il viso dai tratti feminei che gli doanavano un’aria eterea accentuata dalla carnagione pallida e dalla pelle di porcellana, senza l’ombra di un’imperfezione eccezion fatta per quel piccolo nero sotto le labbra. I suoi occhioni ambrati, densi come il petrolio, la stavano perforando con simpatia le labbra piegate in un sorriso dolce. Il suo nasino alla francese era adornato da un septum argentato simile al piercing che aveva sul sopracciglio destro. Era magro e sembrava anche particolarmente alto. Indossava una logora maglietta di Marilyn Manson su dei jeans attillati infilati in degli anfibi neri a quattordici passati. Poteva notare, con una certa ammirazione, il tatuaggio che aveva sull’avambraccio destro.

Freiheit 89 recitava la scritta che adornava l’interno dell’avambraccio in eleganti lettere corsive.

Niniel lo guardò e sorrise appena «Immensamente diverso»

«Una dura botta, vero?» chiese mentre infilava una mano nella tasca dei pantaloni estraendo un pacchetto di Camel.

«Una mazzata direi» rispose lei mentre notava il ragazzo aprirsi il pacchetto ed estrarre una sigaretta.

«Vuoi?» le offrì il pacchetto che, prontamente, Niniel rifiutò.

Non poteva fumare per la sua voce.

Il ragazzo lo ritirò guardandosi intorno «Se Tom sapesse che ti ho offerto una delle sue adorate Camel alla menta mi stroncerebbe in un attimo» ridacchiò mentre riponeva il pacchetto e si accendeva la stecca.

Tom.

Senza volerlo i suoi occhi si illuminarono «Conosci i gemelli?» gli doamdnò, senza logica.

Era davvero una delle cose che voleva fare: rincontrare i gemelli della sua infanzia, sbirciare nella loro vita senza di lei e sapere se loro, come lei, l’avevano dimenticata.

Era da quando Alina li aveva nomitata che sentiva quella voglia crescere secondo dopo secondo.

Lo vide sorridere, le labbra piene piegate in modo simpatico «Oh, sapessi quanto…»

Il suo cuore perse un battito mentre il ragazzo buttava fuori un po’ di fumo «E scommetto che non li vedi da tanto, vero?»

Lei annuì «A dir la verità li conoscevo quando ero una bambina, prima di andare a Berlino, e ho pensato a loro prima del… ehm…»

«So che hai avuto un overdose» le rivelò lui e, accortosi del suo sguardo si affrettò a rispondere «Me lo ha detto tua nonna, abbiamo un certo grado d’intimità visto che da bambino mi cambiava i pannolini».

Niniel sorrise un po’ disperata e un po’ divertita.

Le stava stretta l’idea che qualcuno sapesse del suo… problema.

Nonostante quel ragazzo le sembrasse affidabile le dava fastidio che lui sapesse.

«Che tipi sono?» chiese curiosa e ansiosa di cambiare discorso «I gemelli, intendo…»

«Beh…» sorrise lui fumando ancora «Devo dire che il mio preferito è…»

«BILL!» urlò la voce di sua cugina.

Niniel trasalì nel sentire quel nome. Bill era il nome di uno dei gemelli. Alzò lo sguardo verso il ragazzo che roteava gli occhi mentre Alina gli si avvicinava. Buttò la sigaretta mentre l’amica si affiancava a loro.

«Che ho fatto ora?» si lamentò.

«Niente» trillò Alina «Nonna aveva sentito la voce dalla cucina e ha chiesto se volevi i biscotti!»

«Biscotti?» Niniel osservò i suoi occhi ambrati spalancarsi e luccicare «Certo!»

Scavalcò con agilità la staccionata –segno che l’aveva fatto tante volte- e, con una certa goffaggine, si tirò su mostrandosi in tutta la sua altezza. Si sistemò la maglietta e corse verso la casa «Nena, preparati, che ti mangio persino il piatto!» urlò mentre si infilava, senza bussare, in casa.

«Lo so Bill caro, per questo te li ho messi su un pezzo di carta» rise sua nonna alla porta lasciandosi superare dal ragazzo.

Niniel guardò Alina posarsi una mano sul viso e scuotere la testa «Idiota».

La rossa, invece, rimase a guardare la porta con occhi persi. Quello era Bill? Il piccolo Bill Kaulitz?

E, come era successo prima, il suo cuore perse un battito mentre le immagini si facevano nitide riportandola, ancora, nel passato.

«Ciao Bibi» mormorò sperando, vivamente, che nessuno l’avesse sentita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  
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