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Autore: Main_Rouge    14/11/2011    1 recensioni
Nel deserto texano si erge, cupo ed immobile, un accampamento militare. Lì il sergente Carries da molto tempo si occupa dell'addestramento dele reclute della zona. Questa, è la storia della breve esperienza di ventidue giovani ambiziosi, messi di fronte allo spietato mondo della guerra e alla brutalità degli uomini.
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La lancetta del suo orologio toccò il punto più alto dello spartano quadrante che la conteneva. Le cinque in punto.
Ormai, era questione di momenti, dal rugginoso cancello scuro che gli si parava davanti, presto sarebbe arrivato il suo nuovo incarico, l’ennesimo bus. Un leggero tic, un dito che batteva sulla cintura, tradiva il suo nervosismo: non vedeva l’ora di gettarsi in quella nuova sfida, visto che i suoi ultimi lavori non avevano esattamente dato i frutti che sperava. La sua espressione arcigna, impassibile, sembrava sondare il deserto che circondava i suoi pesanti scarponi marroni. La sabbia, sollevata dal caldo vento del sud, andava spesso a solleticargli il volto, ma l’abitudine, più che la vita che aveva scelto, l’aveva reso superiore a tutto ciò.
Aspettava, come ogni lunedì mattina. Lanciò un’altra occhiata veloce al suo orologio usurato, e si lasciò sfuggire una smorfia di disappunto. Ben tre minuti e mezzo di ritardo. All’improvviso, il robusto portone ferroso iniziò ad aprirsi, cigolando. Dopo secondi interminabili, in cui dovette mettere in gioco tutta la sua pazienza e capacità di sopportazione, il cancello fu del tutto spalancato, così da permettere l’ingresso di un malconcio bus grigiastro, che con andatura lenta, quasi noiosa, entrava in quell’oasi di civiltà immersa nel deserto più fitto.
A quella vista, l’uomo non potè che lasciarsi andare ad un ghigno eccitato.
I suoi muscoli iniziarono a fremere, e i suoi occhi si strinsero per meglio esaminare le vetrate scure del mezzo. Ma nella sua testa, non c’era spazio che per un pensiero.
Carne fresca.
 
-Aprite bene le orecchie cani indegni, il mio nome è Roy Carries, ma, per voi, io sono il “Sergente Carries”. Non ve lo dirò due volte, quindi assicuratevi di averlo capito bene. Voi siete solo dannate reclute, e il caso ha voluto che finiste sotto il mio diretto controllo, il che significa che, da questo momento, voi non avete più passato nè, finchè non affermerò il contrario, alcun futuro. Ed ora ditemi, bestie rognose, perché siete qui?-.
L’arringa di Carries, il breve monologo che aveva ripetuto ogni lunedì degli ultimi vent’anni, lasciò terribilmente scossi i giovani che aveva davanti. Il modo in cui parlava, la sua postura fiera, l’appariscente armamentario che teneva appeso in bella mostra alla cintura. Tutto emanava potere, quel tipo di potere che non può che incutere terrore.
-Allora? Perché siete qui?-.
-Personalmente, perché l’autobus ha saltato la fermata a Disneyland-.
Dal silenzio, una sola voce si levò, distinta e sicura di sé. Una sommessa risata iniziò a levarsi come un’ombra dai giovani aspiranti soldati, dapprima piano, poi sempre più forte. Il sergente si era fermato. Da molto tempo nessuno lo sfidava così apertamente. Con pochi passi decisi, dopo aver congiunto le mani dietro alla schiena, si portò davanti al soldato causa di tanta ilarità e, con un sorriso amichevole, gli chiese il nome.
Ma prima che  questi potesse rispondere, Carries scattò in avanti con il braccio, affondando nel petto del giovane un coltello a serramanico che stringeva nella destra. Il suo sguardo da divertito si fece compiaciuto, pieno di una frenesia quasi malata. Senza emettere un fiato, Andy Doolin crollò a terra come un corpo morto, mentre con una mano cercava di bloccare la fuoriuscita di liquido scarlatto. Roy si allontanò noncurante, pazientemente in attesa. L’uomo a terra rantolò qualche richiesta di aiuto, cui nessuno rispose. Ma bastarono pochi secondi perchè la recluta al suo fianco, un certo Daniel Bellamy, sconvolto, si gettasse al suo fianco gridando tra amare lacrime di rabbia:- Ma è impazzito? Che bisogno c’era di fare questo? Presto, chiami qualcuno, va portato d’urgenza in infermeria-.
Roy non rispose, ma girandosi di scatto, estrasse una lunga pistola cinerea che puntò verso Daniel.
Fu un attimo: un’esplosione, un grido strozzato.
Un colpo in piena fronte, morte immediata.
Andy sbiancò in un attimo, osservando morire l’uomo che stava tentando di salvarlo. Non avrà avuto più di vent’anni.
-Qualcun altro è in vena di fare l’eroe?-.
Nessuno si mosse, nessuno fiatò,
Carries avanzò ad ampi passi verso l’ormai morente Andy, e con uno sguardo truce come il giovane non ne aveva mai visti, gli disse a denti stretti: -Guarda il lato positivo di tutta questa storia, farai da esempio, insieme al tuo amico Capitan Piagnone, a questi altri ragazzi. E chissà, magari in un’altra vita ti potrà tornare utile anche questa esperienza-.
Poi si alzò, gridando a pieni polmoni: -Avete visto bene? Avete impresso nelle vostre teste vuote l’immagine della paura e della rassegnazione? Tenetelo a mente sempre: tutti voi, pazzi, che avete deciso di lasciarvi la pace delle vostre case alle spalle per venire qui, da ora non siete più uomini, né soldati, ma rifiuti, reclute senza speranza, cioè- e un ampio sorriso gli tagliò il viso contratto –i miei nuovi giocattoli. E sapete cosa succede quando un giocattolo non diverte più?-.
E con un gesto plateale puntò la pistola sui due uomini a terra, senza degnarli di uno sguardo.
-Viene buttato senza alcuna remora-.
Ma non sparò.
Rinfoderò la pistola, contento del suo spettacolino e del volto macchiato di paura di Doolin; quindi con voce metallica, incolore, fredda come il corpo di Daniel, ordinò: -Lasciate quel cane a morire nella polvere, il Maggiore Lonesson vi accompagnerà ai vostri dormitori. Disfate i bagagli e tornate qui tra venti minuti. Inizieremo subito l’addestramento-.
Il Maggiore, un uomo corpulento, dal naso schiacciato e gli occhi incavati, face loro cenno di seguirlo mentre si dirigeva verso un enorme capannone nero. In pochi ebbero il coraggio di lanciare un’ultima occhiata di compassione alla recluta Andy.
 
Come aveva affermato il Sergente, il massacro fisico, o “addestramento” come preferiva chiamarlo, iniziò subito. E non si fermò. Ore di corsa nella polvere, flessioni, percorsi ad ostacoli. Senza pause, senza acqua, senza pietà.
Ogni giorno Lonesson, dall’alto della collinetta terrosa su cui amava posizionarsi per osservare le reclute, prendeva placidamente appunti sui disperati uomini che troppo tardi si erano resi conto di aver regalato la loro vita ad un pazzo. Ridacchiava quando pensava al suo apprendistato sotto il Sergente Carries, senza saperne nemmeno il motivo. Senz’altro, si diceva, doveva essere sufficiente sapere che quei giorni erano finiti per sempre per  metterlo di buon umore.
Un più di qua, un meno di là. Nei tre giorni successivi al loro ingresso nell’accampamento, Lonesson creò dal nulla una graduatoria delle reclute per Carries, dividendoli in due gruppi.
Era un lavoro noioso, ma reso interessante dalle potenti grida di Carries quando uno dei suoi giocattoli si fermava senza il suo consenso. Incredibilmente, nessun altro giovane ci rimise la vita: praticamente era un record per il Sergente.
La notte di mercoledì, congedati gli ormai sfiniti neo soldati, Carries si era recato dal suo Maggiore. Con i corti capelli pieni di sottile polvere, con la sua espressione arcigna, con quegli occhi neri come l’inferno, Quel sadico assassino avrebbe spaventato chiunque mentre spuntava da dietro la collina, con la luna, quasi del tutto coperta, che gli faceva da candido mantello.
Ma non Lonesson. Il Maggiore, senza scomporsi, affermò: -Ecco il rapporto capo, le dirò che non è stato facile scegliere, ma penso di aver fatto il meglio. Senza dubbio sarà un bello spettacolo-.
Carries grugnì soddisfatto: non aprì la busta che il suo aiutante gli aveva passato, non ne aveva bisogno. Era sicuro che il suo vecchio amico avesse svolto la sua mansione in modo impeccabile, come ogni settimana del resto.
Un sorriso lugubre gli tagliò il volto, mettendo in risalto due file di denti ingialliti dal fumo.
Non vedeva l’ora di iniziare.
 
Un violento allarme riempì con il suo frastuono tutto il dormitorio dei cadetti. Venti secondi dopo l’inizio della sirena, quando tutti, benchè fossero appena le quattro del mattino, erano balzati in piedi sebbene assonnati, Carries, con volto contrariato, e Lonesson entrarono nell’enorme e sporca sala dei cadetti.
-Cattive notizie bambinoni, avete scelto il momento peggiore per servire il vostro paese: siamo in guerra-.
Tutta la stanchezza negli occhi dei ragazzi fu come risucchiata da questa affermazione, tanto forte quanto inaspettata.
Qualcuno provò a fare qualche domanda: chi? Come? Perché?
Ma il Sergente li zittì prontamente.
-Tutte queste informazioni non sono affari vostri. Voi siete strumenti della stato da ora. Personalmente non vi considero pronti per il fronte, ma gli spocchiosi che siedono più in alto di me hanno bisogno di carne da far macellare, e hanno pensato subito a voi ragazzi-.
Un brivido percorse i più lucidi dei cadetti.
-Ma, fortunatamente per alcuni di voi, non tutti dovrete andare. Sappiamo dal comando centrale che un’avanguardia di terroristi conta di entrare nei Stati Uniti dal Texas, passando proprio da qui. È chiaro che non contano di doversi aspettare troppa resistenza da delle misere reclute e, se posso permettermi, hanno dannatamente ragione. Purtroppo, nessuno dai piani alti intende scomodarsi per difendere questo lurida ammasso di polvere, quindi dovremo cavarcela da soli. Ora, voi siete in venti, quindi abbiamo deciso di dividervi in due gruppi: il primo gruppo, La squadra “L”, andrà con il Maggiore Lonesson in elicottero ad attaccare una delle basi dei terroristi piazzate vicino al confine con il Messico, l’altra, la squadra “C”, resterà qui con me ad aspettare quei bastardi ed a fargli mangiare il fucile.
So che L’idea non vi piace, ma farete meglio ad abituarvici. Ormai siete in ballo, la vita o la morte dipendono solo dalla vostra determinazione-.
 
Quando fu chiamato il suo nome, Jason strinse con forza i pugni.
-Cazzo, che sfiga!-; non faceva che ripetere dentro di se queste tre parole, da quando aveva lasciato il dormitorio a quando, preso il suo equipaggiamento malandato, era salito sull’elicottero militare con Lonesson e gli altri nove disgraziati costretti ad andare in territorio nemico.
Proprio il Maggiore, vedendolo furioso, gli aveva più volte intimato di “mantenere la tensione per il campo di battaglia”: ci avrebbero messo parecchie ore, perché dovevano scendere oltre il confine ed andare in auto da sud, in modo da “prendere quei bastardi di sorpresa”. E ogni volta che lo diceva, lasciava esplodere la sua grassa risata porcina.
Era incomprensibile per i soldati come lui potesse stare così calmo: molti credettero di star esagerando solo perché non sapevano cosa aspettarsi. Ma non Jason Garros. Lui sapeva, o almeno era convinto di sapere, perché il Maggiore fosse così calmo: dopo aver fatto il lacchè di quel disturbato di Carries, neanche la morte doveva più spaventarlo.
Atterrarono che erano ormai le nove di sera, dopo aver superato abbastanza il bersaglio da poter procedere senza rischi di destare sospetti. Con i fucili imbracciati e i passamontagna pronti per essere piazzati in volto per difendere dalla sabbia, i dieci della squadra “L”, nella loro mimetica grigio topo, aspettavano nel blindato, pregando Dio di salvare le loro anime il giorno dopo.
 
Venerdì, all’alba, nell’accampamento di Carries, il freddo del mattino lambiva appena le parti scoperte dei volti contratti dalla paura dei cadetti.
Stringevano nervosamente le armi, sistemandosele sottobraccio nella vana speranza di trovare un modo comodo per imbracciarli. Giravano liberamente per il terreno sabbioso che circondava dormitori e refettorio, in spasmodica attesa.
Carries, dall’alto della sua collinetta, scrutava l’orizzonte per avvistare gli invasori. Quando li vide, sfrecciare sulla sabbia sul loro blindato scuro, sentì l’adrenalina fremere nel suo corpo. Diede l’allarme e, vedendo i suoi ragazzi aggiustarsi l’elmetto, tremando come foglie al vento, si sedette: sapeva che nessuno, preso dalla frenesia dello scontro, sarebbe andato fin lassù a scomodarlo.
E quando il pesante mezzo sfondò il cancello, ammaccandosi appena sul paraurti, vide un esiguo numero di sagome dileguarsi nel polverone alzato dalle ruote.
 
-Allora ragazzi, sarà semplicissimo: Arriviamo con calma, approfittiamo dell’ora e, visto che i più staranno ancora dormendo, ci apposteremo e tireremo giù le vedette cercando di non scatenare un pandemonio. Poi, entreremo-.
Il piano di Lonesson sembrava efficace agli inesperti soldati. Solo Jason aveva qualche dubbio a riguardo. Erano davvero così sicuri che i terroristi stessero dormendo? Come avrebbero fatto a non far attivare l’allarme, loro che erano tutto meno che tiratori scelti? E Soprattutto, sarebbero davvero stati in grado di uccidere un uomo senza preoccupazioni? Le mille domande furono però messe a tacere da un’acuta sirena militare.
-Porca puttana- ruggì il Maggiore –devono averci individuati-.
Il silenzio della paura calò tra i soldati, mentre la voce del pilota del mezzo, evidentemente agitata, chiedeva istruzioni con febbrile insistenza. Dopo una decina di secondi, Lonesson gli gridò: -Cazzo. Non abbiamo scelta ragazzo: manovra 12, sfodiamo dal cancello principale-.
Per qualunque altro soldato quella scelta sarebbe apparsa perfettamente normale: quando attacchi e vieni avvistato, l’unica possibilità è sperare che il mezzo regga allo sfondamento del cancello, se  non vuoi fuggire.
Ma alle reclute della squadra “L” quella sembrò una follia inutile, che aumentò il livello già alto di adrenalina nei loro corpi tesi come corde di violino.
L’auto accelerò di colpo mentre sfrecciava sul deserto.
 -Reggetevi- gridò il Maggiore.
Molti chiusero gli occhi e, dopo pochi secondi, avvertirono la pesante collisione, metallo su metallo.
L’autò si ribaltò nella polvere, creando il perfetto diversivo per gli uomini: spalacato il portello, Lonesson iniziò a incitare i suoi ad uscire di corsa protetti dalla nuvola sollevatasi.
-..E mi raccomando, cercate di non farvi ammazzare!-.
 
Nell’accampamento americano la folle sparatoria era iniziata da poco, ma già c’erano i primi caduti. Soldatucoli spaventati, eliminati da proiettili vaganti. Gli uomini del sergente erano rimasti in sette.
Dalla collina, Carries osservava la scena: come bestie, i soldati si inseguivano nella polvere, più preoccupati di uccidere, nella frenesia, che di salvarsi. Conosceva quella paura, l’aveva provata anche lui: il brutale istinto di sopravvivenza che ti dice di mangiare, se non si vuole essere mangiati.
Aveva contato pochi avversari per i suoi uomini: senza quelli già caduti, ne restavano otto: un buon risultato tutto sommato per i suoi.
I proiettili volavano come mosche, mietendo vite con una facilità allarmante. In mezzora, anche i più codardi, nascostisi, erano stati costretti dalla situazione ad uscire allo scoperto.
Quattro contro cinque per i suoi soldati. Era soddisfatto. L’indice destro iniziò a battere con fare nevrotico sulla pelle della sua cintura. Mancava ancora poco, e non vedeva l’ora di sapere il risultato di quello scontro.
Dopo un’altra mezzora, gli spari si fermarono improvvisamente. Un uomo armato, nella sua pesante mimetica grigia ed elmetto, puntava il fucile sporco di terra e sangue ad uno che, con le mani alzate, implorava muto pietà.
 
Appena sceso, Jason iniziò a correre. Nel vento che, come per miracolo, si era alzato, il soldato nella mimetica grigia sarebbe stato un bersaglio estremamente difficile da colpire. Il suo piano era trovare una posizione appena sopraelevata e da lì sparare sui soldati nel panico per l’attacco a sorpresa: facile e sicuro.
Gongolandosi, sicuro di aver trovato la strada migliore per uscirne integro, intravide un’ombra verdastra che gli dava le spalle: un’occasione unica. Rallentando, prese il fucile, lo alzò a livello della testa e, con le braccia tremanti si accinse a premere il grilletto.
Ma non ne era in grado. La mano ondeggiava rapida in un rigido moto di panico, incapace di premere quel dannato pulsante che l’avrebbe avvicinato alla salvezza.
Non era dunque in grado di uccidere?
Iniziò a sudare, mentre mancavano ormai meno di cinque metri dal soldato che, nei due secondi in cui Garros era rimasto incapace di eliminarlo, non si era ancora mosso.
Jason si ripeteva di farlo, che non voleva morire, che non voleva essere un debole.
-Fallo-, un unico imperativo occupava la sua mente, e gli martellava le tempie. Si avvicinò ancora, ripetendosi di agire.
A pochi metri dal suo bersaglio, sembrò decidere di rassegnarsi.
Ma uno scoppio, un rumore di sparo lo fece trasalire. Nella paura, dimenticò tutto e, senza pensarci, piantò alla sua vittima tre proiettili sulla schiena.
Questi cadde con un grido, strozzato dal passamontagna di cui anche lui ed i suoi compagni erano forniti.
Solo dopo, quando si ritrovò a correre con il fucile sottobraccio, si rese conto, con una lacrima sporca di sabbia, che qualcosa, in quel fatidico attimo, si era spezzato.
Ma, fortunatamente per lui, la frenesia che lo circondava non gli diede tempo di sentirsi in colpa: continuò ad avanzare ed a sparare a tutte le ombre non grigie che incrociava.
Cadevano come birilli, e lui non era stato ancora colpito.
Passarono i minuti, le ore, forse i giorni: lui non sapeva da quanto tempo era lì a lottare per la sua vita: non ebbe il tempo di pensarci neanche per un attimo.
Sedutosi un attimo dietro una baracca scura, calda come il sole ed isolata da tutti gli altri edifici del confuso accampamento, si guardò indietro, verso il campo di battaglia, con il fiatone ed il cuore come  un martello pneumatico.
Vide molti cadaveri, troppi per lasciarlo indifferente, sia verdi che grigi. Ma sentiva ancora degli spari.
Chiuse gli occhi, si ripetè ancora che doveva farlo e che non poteva arrendersi proprio adesso, e balzò di nuovo in campo aperto, alla ricerca di altri aggressori da allontanare per sempre.
Ad un tratto, sentì vicinissimo a sé uno sparo, che sembrò sibilare alla sua destra. Quasi d’istinto, si voltò, si mise il fucile davanti all’occhio destro e, con passo lento, iniziò ad aspettare un movimento.
D’un tratto, dalla polvere, uscì l’inconfondibile sagoma di un uomo in piedi: appena il vento calò un po’, entrambi, Jason e la sagoma, si resero conto di essere uno di fronte all’altro, entrambi con i fucili puntati sul nemico.
Ai piedi dell’uomo in verde, un compagno di Jason giaceva in un lago di sangue.
Furono attimi lunghissimi: sembrava che quei due fossero gli ultimi uomini sulla terra, perché intorno a loro era il silenzio.
Ma dopo qualche eterno secondo, il soldato in verde tentò di sparare. A vuoto.
 
Per tutta la durata della scontro, Lonessen era rimasto in disparte, senza interferire. Nascosto in un angolo buio, attento a non farsi scoprire, era rimasto in attesa di non sentire più spari. Quando finalmente accadde, il Maggiore, uscì dal suo buco con naturalezza. Si guardò intorno, e vide i due uomini che si puntavano i fucili contro.
In un attimo, fu di nuovo immobile.
Non sapeva cosa sarebbe successo, ma era davvero curioso.
Strinse il Walkie-talkie  con più forza mentre i due continuavano, come statue, a rimanere immobili.
Poi, finalmente, qualcosa accadde, ed un sorriso rilassato gli comparve sul viso. Se la vista non lo ingannava, avevano vinto la battaglia.
 
Carries scese dalla collina con fare tranquillo, senza badare ai cadaveri insanguinati che schiacciava sotto i suoi pesanti scarponi.
Con un sorriso maligno, sussurrò al Walkie-Talkie: -A quanto pare, abbiamo un vincitore-.
Messosi in tasca la macchinetta, alzò lo sguardo sorridendo ed iniziò a battere sonoramente le mani verso i due ancora in piedi.
 
A vuoto. Incredulo, immobile come un cadavere, l’uomo in verde abbassò lento il fucile. I fremiti che lo facevano vibrare prima di aver tentato di sparare sparirono. Era già morto, e lo sapeva. Jason lo guardò mentre appoggiava in terra l’arma ed alzava le mani: ce l’aveva fatta, era ancora vivo. Non riusciva quasi a crederci. Non sparò subito, voleva godersi quella beatitudine che la coscienza di non essere morto gli infuse in tutto il corpo. Ma la sua euforia durò poco.
Pochi secchi, ritmati battiti di mani squarciarono l’aria alla sua sinistra.
Incredulo, vide una figura possente camminare rilassato verso di loro. Non fu difficile riconoscere in quei tratti di pietra il Sergente Carries.
Sconvolto dalla fatica, confuso, Jason lasciò cadere il fucile, mentre l’altro uomo di fronte a lui si chiedeva perché il sergente stesse facendo così.
Carries esclamò, appena fu abbastanza vicino ai due: -Complimenti! A quanto pare siete gli ultimi sopravvissuti. Oh, è stato un vero spettacolo. Ora però potete anche togliervi i passamontagna ragazzi-.
Jason, che ancora ignorava cosa stesse succedendo, lasciò cadere il fucile e si levò la maschera. Il suo volto paonazzo e coperto di sudore spiccava in modo evidente sul grigio topo della sua uniforme.
Vedendolo, anche l’altro, in fretta e furia, si spogliò, dando all’uomo in verde un volto: quello di Chris Tanner, compagno di Jason sotto Carries, membro della squadra “C”.
Senza nemmeno la forza di chiedere spiegazione, inorriditi all’idea di avere, senza sapere come o perché, ucciso a sangue freddo i propri compagni, furono entrambi scossi dai conati. Ora quei manichini senza volto erano “qualcuno”, e ciò cambiava tutto.
I loro pensieri, spaventosamente simili, furono interrotti dall’arrivo di Lonessen che, allegro, annunciava al superiore di avere vinto.
Carries, per nulla scontento, portò i due in dormitorio per farli dormire su quel turbinante vortice di massacro di cui erano stati gli artefici.
 
Come prevedibile, nessuno dei due soldati dormì, né aprì bocca: erano entrambi troppo scossi, e pieni d’odio per farlo. Jason, in particolare, aveva paura che se avesse parlato tutto il suo risentimento se ne sarebbe andato, e lui voleva usarlo per uccidere quel bastardo di Carries.
Chris, invece, era semplicemente a pezzi, sia nel corpo che nello spirito. Era andato avanti convinto di star combattendo per il proprio paese, e poi per sé stesso; ma quando realizzò di aver sparso senza remore sangue inutilmente, la sua mente collassò in un abisso di cupa disperazione.
Quando quindi la mattina dopo, un placido sabato mattina, Sergente e Maggiore li vennero a prendere, li trovarono svegli, ma per niente lucidi, accecati com’erano dall’odio e dal rimorso. I loro volti erano segnati da pesanti occhiaie e tracce di terra secca.
Carries ordinò loro di seguirli, poi non disse altro.
I due cadetti furono scortati nuovamente sul campo di battaglia. Questo era posizionato sul lato sud dell’accampamento, mentre l’addestramento si era sempre svolta dall’altra parte degli edifici, ragion per cui sarebbe stato impossibile per Jason riconoscere quel posto come familiare. La certezza poi di essere in territorio nemico gli lasciava ben poco tempo di dedicarsi all’osservazione. I cadaveri, notò subito lui, erano spariti.
Dopo una marcia di qualche minuto, immersa nel più completo silenzio, i quattro si fermarono davanti ad un grosso edificio scuro: lo stesso dietro cui Jason si era riparato la mattina prima. Il solo ricordo lo fece trasalire.
Estratta una chiave, Carries aprì la piccola porta che gli stava di fronte e fece entrare gli altri.
I soldati davanti, i superiori dietro, entrarono in questo enorme stanzone buio.
Ma prima ancora che dalla completa assenza di luce, questi furono colpiti da un tremendo fetore di cadavere in putrefazione.
Chris vomitò anche l’anima a quel odore mostruoso, mentre Jason rimase impassibile anche se nauseato.
-Questa è la fase finale del vostro percorso da reclute, quando uscirete da qui sarete veri soldati, macchine per uccidere-.
La voce di Carries si mischiò a bassi rantoli che, provenienti dal fondo della stanza, non erano stati inizialmente notati dai giovani cadetti-.
-Qui giacciono i caduti, coloro che, per un motivo o per un altro, non hanno concluso il loro apprendistato. Vivi o morti che fossero-.
La voce incolore del Sergente era tanto gelida da far rabbrividire.
Concentrati su questa, nessuno dei due notò i leggeri passi dei due uomini in uniforme entrati nel container.
-Jason- Lo chiamò il Sergente con voce grave: -Tu sei il vincitore della sfida che io ho sottoposto ai miei uomini per trovare il migliore tra essi. Congratulazioni! Ora- disse, e caricò un fucile lucente: -dovrai finire l’opera- e ne puntò il manico sulla sua schiena. Jason lo afferrò con fare tremante, mentre Chris, in silenzio, aspettava di morire. Aveva capito come sarebbe finito: tra gli scartati, insieme alle sue vittime. Sperava, con la morte, di raggiungere una sorta di redenzione; fu quasi sollevato da questa idea.
Ma alzata l’arma, Jason non sparò. Calò la canna del fucile e sussurrò un flebile: -No-.
In un secondo, si girò di scatto, puntò il fucile in faccia a Carries e sparò senza esitazione.
Ma non successe niente.
Incredulo, Jason fissò il suo volto terrorizzato su quello del sergente a cui aveva appena sparato, senza però riuscire ad ucciderlo.
-Un vero peccato, Garros, saresti stato un valido acquisto-.
Senza che lui dicesse altro, i due uomini in uniforme entrati poco prima afferrarono per le braccia Jason, gli tolsero il fucile, appena caricato a salve dal sergente, e lo colpirono alle gambe con due pesanti pestoni. Questi crollo a terra con un urlo.
Chris, che aveva assistitò alla scena alla fioca luce che filtrava dalla porta socchiusa, cadde in ginocchio sconvolto.
Cosa sarebbe successo ora?
-No- disse Carries, come leggendogli il pensiero: -Non vi ucciderò-.
Uscì dal container seguito dai suoi uomini, lasciando a terra le due ex reclute.
Quindi, si girò, guardò Chris negli occhi e disse, con sguardo folle: -Non sono mica un mostro-.
E, infine, richiuse a chiave. Si allontanò sentendo, con espressione amareggiata, le urla disperate della recluta Tanner.
 
Quella sera, Carries e Lonessen iniziarono a chiacchierare per colmare il silenzio lasciato dalle reclute.
-Allora, amico mio, a quanto siamo?-
-Se non sbaglio, Sergente, sta vincendo lei trentadue a ventinove-
-Davvero? Le ultime battaglie le ha sempre vinte la tua squadra, perché sono a trentadue da mesi. Mi sa che ti scegli i migliori per recuperare lo svantaggio, o sbaglio?-
-Non oserei mai imbrogliare qualcuno in modo così vile, signore- annunciò con un sorriso viscido.
-Spero tu sia onesto, almeno stavolta-.
Un lungo silenzio calò tra i due. Poi, fu spezzato.
-Bene Sergente, io mi ritiro. Ci vediamo dimani-
-D’accordo Lonessen, a domani. Ah- lo fermò mentre il Maggiore si avviava al dormitorio.
-Si, signore?-
-Fai in modo che il prossimo carico sia puntuale, sai che odio aspettare-.
Un sorriso calmo rilassò le labbra scarne di Lonessen.
-Non si preoccupi, Sergente. Lunedì il mezzo arriverà alle cinque spaccate. Buonanotte signore-.
Carries lo lasciò andare con un cenno. Ogni volta che, al sabato, Lonessen si congedava, Carries era costretto a pensare. Ed ogni volta, ghignando truce, finiva per soffermarsi eccitato da una frenesia febbrile al lunedì che lo aspettava, ed ai nuovi giocattoli che gli sarebbero stati consegnati.
  
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