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Autore: berlinene    14/11/2011    6 recensioni
Una raccolta di shot che hanno come protagonisti i Toho Boys e la “mia” Toho Girl Yasu Wakabayashi. Una serie di storielline ad ambientazione scolastica (e dintorni) che non hanno nessunissima pretesa, se non quella di strapparvi qualche sorriso e regalarvi un po’ di sano fluff - che non guasta mai... insomma per far tornare tutti al liceo... suvvia, alzi la mano chi non ha desiderato, almeno una volta, sedersi fra i banchi dell'Istituto Toho...
Genere: Commedia, Fluff, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Siamo durante il primo anno, Yasu e Ken non stanno ancora insieme... però...

Parla con me

Il suo tocco era leggero e attento come sempre. Le dita trascorsero leggere sullo zigomo, sul lato del naso, sul sopracciglio e tutto attorno all’occhio.
“Non c’è niente di rotto” lo rassicurò con un sorriso. “Però ora mi racconti chi ha fatto un occhio nero a un campione di karate” lo prese in giro, scendendo agilmente dalle sue ginocchia.
Per un attimo aveva avuto l’istinto di cingerle i fianchi con le mani e trattenerla lì, guardarla ancora, anche se con un occhio solo, visto che l’altro era gonfio e semichiuso, e poi magari fare un po’ di scena, giusto per strapparle qualche coccola.
Yasu non aspettò la sua risposta, aveva imparato che non sempre i ragazzi volevano raccontare le loro cose e ne aveva preso atto. Invece gli domandò se voleva qualcosa, un tè, un panino…
“Non ti preoccupare, posso fare da solo.” L’educazione gli aveva fatto rispondere così, ma, dentro, il cuore gli batteva forte e suggeriva a gran voce, sì che puoi fare qualcosa, stai qui accanto a me, o siediti ancora sulle mie ginocchia…  
Come aveva fatto prima...

Ken era tornato in anticipo dall’allenamento, proprio per quel piccolo incidente. Era entrato nell’appartamento, aveva preso un po’ di ghiaccio dal frigo e, sedutosi sul divano, se l’era appoggiato sull’occhio colpito. Dopo pochi minuti era rientrata anche Yasu, gridando il suo solito “Salve a tutti”. Appena si era voltata e lo aveva scorto sul divano, si era avvicinata e, preoccupata, gli aveva chiesto cosa gli fosse successo. In tutta risposta, lui aveva allontanato il ghiaccio a mostrare l’occhio gonfio, ormai diventato, probabilmente, di un bel viola scuro.
Lei aveva aggrottato le sopracciglia e sfoderato un sorrisetto sghembo, insieme dolce e un po’ beffardo. “Niente male… certo che sei davvero una fonte inesauribile di infortuni” aveva commentato. “Fammi dare un’occhiata”. Aveva lasciato cadere lo zaino e si era inginocchiata sul divano vicino a lui, ma, sotto di lei, il cuscino cedeva e non le dava la stabilità necessaria per poter procedere all’esame. Così, con grande stupore di Ken, Yasu aveva fatto roteare una gamba fino a posizionarsi a cavallo delle sua ginocchia. Mentre il portiere quasi tratteneva il fiato, la ragazza, soddisfatta del punto di osservazione che aveva infine trovato, gli aveva tastato piano le ossa della faccia, assicurandosi che non ci fossero fratture. Poi, con la stessa naturalezza, aveva portato indietro la gamba ed era tornata in piedi, allontanando così dal volto di Ken il suo profumo dolce e fruttato e le sagome dei seni piccoli, appena suggerite dalla camicetta della divisa scolastica.

“Comunque è stato uno scontro aereo, non ho fatto a botte” spiegò il portiere, nel tentativo di fare un po’ di conversazione.
“E dire che pensavo di averlo avuto io un… duro scontro…”ribatté con un sorriso amaro.
“Cosa è successo? Non hai fatto a botte vero?” le chiese divertito, ma anche un po’ preoccupato. La cosa non lo avrebbe sorpreso più di tanto.
“Oh no” rispose Yasu, agitando la mano, come per minimizzare. “Per fortuna mia madre è oltre la portata del mio braccio”.
Ora, non è che Ken avesse molta dimestichezza con le ragazze… e non solo in quel senso , proprio non ci aveva mai avuto a che fare. Nessuna sorella, nessuna amica nel vero senso della parola. A parte Yasu, ovviamente. Eppure una cosa l’aveva imparata: quelle, le ragazze, avevano sempre una gran voglia di raccontare gli affari loro e potevano andare avanti a commentarci e ricamarci su per ore. Quasi come... un bisogno fisiologico e in questo Yasu non faceva eccezione. E siccome l’aveva vista un po’ triste, pensò che forse si voleva sfogare… E che, forse, l’avrebbe fatto con lui, se solo fosse riuscito a metterla a suo agio…
Peccato che, mentre Ken si faceva questo film, Yasu fosse sparita in camera sua, portandosi dietro lo zaino. Il portiere scrollò le spalle e si mise a sfogliare una rivista, rimandando il progetto “ti va di parlare?” a un momento più propizio.
Dopo qualche minuto, Yasu uscì dalla camera, per scomparire di nuovo in cucina. La sentì armeggiare per un bel po’, come se, incredibilmente, stesse preparando qualcosa. Che strano: non era il suo turno in cucina e quando le toccava, comunque, di solito ricorreva ai surgelati, se non alla rosticceria. Dopo una mezz’ora abbondante, però, un buon profumo di cioccolato iniziò a spandersi per la casa. Se non fosse stato per l’occhio che gli pulsava dolorosamente, si sarebbe alzato per vedere cosa stesse succedendo.
Si era quasi deciso a farlo comunque, quando Yasu riapparve, in mano un vassoio con due bicchieri di latte e due muffin al cioccolato, i responsabili di quel delizioso profumo.
“Nanny diceva che sono la soluzione a tutti i mali” spiegò Yasu, accennando ai dolcetti, mentre appoggiava il vassoio sul basso tavolino del salotto. “Farli ti rilassa e mangiarli ti fa dimenticare i dolori, diceva lei. Ti anticipo che la prima cosa ha funzionato fino a un certo punto, ma credo valga la pena di tentare la seconda. Sarà che cucinare, in generale, non mi rilassa, anzi… e non fare quella faccia, sono l’unica cosa che mi viene oggettivamente buona”. Quindi prese un muffin e lo addentò, ostentando un’aria soddisfatta, come a riprova che non erano velenosi.
Un po’ riluttante, Ken ne prese uno e ne staccò un morsetto, rendendosi conto che era davvero buono. Di lì a un secondo, lo finì.
“Ce ne sono altri” gongolò Yasu, “vado a prenderli!”. Tornò con altri quattro muffin e del ghiaccio per sostituire quello, ormai sciolto, di Ken.
“Grazie!” esclamò allegro, afferrando un altro dolcetto.
“Sembra funzioni” lo canzonò Yasu, sfilandogli dalle dita la busta, che ormai conteneva solo acqua, e chinandosi per appoggiargli sull’occhio il ghiaccio appena preso dal frigo.
“Sì, sto… meglio” rispose Ken, facendo sparire anche il secondo muffin e andando a sostituire la mano di Yasu con la propria, sfiorandogliela appena. “E… tu?” mormorò, arrossendo un po’.
Yasu raddrizzò la schiena, poi prese il proprio bicchiere di latte e si lasciò cadere vicino a lui sul divano. “Dovrei averci fatto l’abitudine ma è una cosa…” si morse le labbra, e a Ken parve che avesse gli occhi lucidi. “Che continua a darmi sui nervi…” Yasu trangugiò un sorso di latte e il portiere si mise di tre quarti per poterla osservare con l’occhio buono, tentando di rivolgergli uno sguardo interessato e incoraggiante, ma non troppo curioso.
Mica facile, eh, soprattutto con un occhio solo.
Lei sbatté le palpebre, prese un’altra sorsata, e poi sospirò: “Mia madre e la sua smania per i buoni partiti. Continua a parlarmi di tutti i figli dei suoi conoscenti in Europa e in Giappone, dicendomi che dovrei incontrarli. I miei… tsk… ostentano tanta apertura mentale, e poi… finiranno per organizzarmi un omiai… Credo che neanche tuo padre arriverebbe a tanto…”
 “Mah, su mio padre non ci metterei la mano sul fuoco… e meno male che non ha figlie femmine” rispose allegro, per sdrammatizzare. In realtà quei discorsi gli davano sorprendentemente fastidio, forse perché gli dispiaceva vedere come la sua amica, sempre così solare e spensierata, se ne facesse un cruccio. “Ma i tuoi…” continuò, “no, non ce li vedo… alla fine… hanno sempre rispettato le tue scelte”.
Yasu rivolse lo sguardo a terra e tirò su col naso. Poi rialzò la testa e accennò un sorriso.
“E poi, comunque, se dovesse succedere, ho pronte due soluzioni.” Affermò e si mise a contare con le dita: “Uno, mi converto al cattolicesimo ed entro in convento. Due, visto che son voluta tornare in Giappone, per essere giapponese…” Si alzò in piedi, posò il bicchiere, e si mise di fronte al divano. “Seppuko!” gridò mimando il gesto di ficcarsi una lama nella pancia e cadere in ginocchio sui cuscini, fino a poggiare la testa sulla spalliera. Si voltò, con la fronte ancora poggiata allo schienale. “Vuoi essere il mio kaishakunin?”
“Quale onore” disse pomposo, brandendo l’involto del ghiaccio come una spada e minando il gesto di tagliarle la testa.
Yasu si fece cadere teatralmente, andando a poggiare il capo in grembo a Ken. “Beh, sei l’unico che conosco che sa vagamente tenere in mano una katana…”
“Ah, ah, va bene cercherò di far pratica. E comunque tu, mia piccola bushi, dovresti fare jigai: tagliarti la gola con un coltello, senza dimenticare di legarti prima assieme le ginocchia per assumere, anche nella morte, una posizione onorevole… come si addice a una nobildonna” sentenziò.
“Che culo” commentò Yasu storcendo la bocca. “Peccato, mi piaceva più la cosa da samurai” mugugnò. Poi il volto della ragazza tornò a rabbuiarsi. “Voglio solo studiare, Ken, diventare una brava fisioterapista… e vivere del mio lavoro… che mi diseredino, mi dimentichino pure… tanto Genzo non mi abbandonerà e lui è la sola famiglia che sento davvero mia” esalò, reprimendo un singhiozzo.
Il portiere le passò una mano sui capelli corti e mossi. Così particolari… come lei. “Ehi, ehi” le sussurrò. “E noi?”
“Beh, certo, adoro anche la nostra buffa ‘famiglia Toho’” rispose subito, l’espressione che tornava serena. Fece una pausa poi riprese: “Però la cosa del samurai mi ha scombinato i programmi… dovrò cercare una terza soluzione”.
“Ho un’idea” disse Ken dopo una breve – troppo breve- riflessione.
“È altrettanto splatter?” chiese Yasu, speranzosa.
“Dipende” rispose Ken, soffocando una risata.
“E sarebbe?” insisté la ragazza, impaziente.
“Sposa me” disse d’un fiato. Mentre lo diceva, si immaginava Yasu vestita in abiti tradizionali e lui che le teneva le mani… ma un secondo dopo si rese conto di averla sparata grossa. Sfruttò al volo il sorriso beato che quel flash gli aveva disegnato sulle labbra, trasformandolo in un ghigno, che poteva voler dire tutto e niente.
“Che… cosa?” balbettò lei, guardandolo sconvolta.
Ken esitò. Ormai doveva dare una risposta brillante se non voleva essere preso per uno sfigato.
“Che se i tuoi ti vogliono costringere a sposare qualcuno, tu vieni da me e li battiamo sul tempo” disse sfoderando un sorriso furbetto, mentre il cuore gli batteva forte. Chissà se lei lo sentiva
Lo guardò ancora seria, poi le labbra di Yasu si piegarono e il corpo cominciò a sussultare, finché non scoppiò in una fragorosa risata. Quando ebbe ripreso fiato, si ricompose ed esclamò: “Ma quando mai! Presto diventerete dei calciatori famosi e sarete circondati da attrici, modelle e vallette bellissime… e della vecchia Yasu non vi ricorderete neppure…” concluse in tono melodrammatico.
“Dimentichi che per uno che è – parole tue - una fonte inesauribile di infortuni, una moglie fisioterapista sarebbe un investimento assai più proficuo di una qualche soubrette” spiegò, con una risatina nervosa.
“Beh, certo, anche quando diventerai un calciatore famoso, modelle e vallette scapperanno vedendoti così…” rise, rimettendosi seduta e dandogli una pacca sul petto. “Anche se… dovresti solo…” allungò una mano per spettinargli i capelli e sistemarli in modo che un ciuffo cadesse a coprire l’occhio pesto. “Ecco qua, sei di nuovo bellissimo, anzi, ti dirò, così hai qualcosa di enigmatico… senza contare che, da questa prospettiva, ti sembrerò ancora più carina”.
Si alzò svelta, forse era un po’ arrossita. Raccolse i muffin residui e borbottò qualcosa sul metterli da parte per Hyuga, Sawada e Sorimachi, sparendo in cucina.
Ken la osservò allontanarsi, il fisico sportivo ma ben fatto che si indovinava sotto la tuta.
Chissà se avrebbe mai avuto il coraggio di dirle che a lui, carina, sembrava sempre, pensò con un sospiro.
“Che poi” riprese Yasu, riapparendo sulla soglia del soggiorno, sorriso ironico, braccia conserte e una spalla poggiata allo stipite. “Cosa ti fa credere che io sarei d’accordo?”

   
 
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