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Autore: Natalja_Aljona    15/11/2011    1 recensioni
Capelli raccolti, capelli stille di grano, capelli luce di stelle, le sue stelle nelle tue mani.
Treccia sfatta sul vestito chiaro, chioma ribelle, arricciata, scompigliata, sciolti tra le braci delle tue mani, quei capelli.
E lei, a giocarci sempre, con quei capelli, ad intrecciarseli ancora con le dita leggere, a sfiorarti gli occhi, poi, con quelle dita, sbriciolare un sorriso sul timido rossore del volto e ridere, ridere, ridere di te.
Squarcio di cielo, cielo e vertigine, cielo e voragine.
Lei sorride da capogiro e tu davvero non ragioni.
"Alja, mi fai venire le vertigini".
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Gee

Avrei potuto, e no, non ce l'avrei fatta


Quello che non ho è di farla franca
Quello che non ho è quel che non mi manca
Quello che non ho sono le tue parole
Per guadagnarmi il cielo, per conquistarmi il sole

(Quello che non ho, Fabrizio De André)


Lui la ricordava sempre un po' distratta

Pensierosa, la treccia bionda sulla spalla sinistra, lo sguardo perso, il vestito blu

Pareva sempre vederci di più, lei, nei marciapiedi innevati della periferia di Liverpool

S'era innamorato, pur consapevole che lontani dalla Grecia e dalla Russia

Sarebbero sempre stati solo un ragazzino un po' sregolato ed uno scriccioletto nordico

Che troppo poco spesso chinava la testa alle convenzioni


Passato discutibile, presente legalmente perseguibile.

Sguardo sicuro, fin troppo.

Una mal interpretazione della sua miopia, immaginava lui, ma la cosa non gli creava particolari problemi.

Non quanto la miopia, perlomeno.

E poi che diamine aveva da guardare sempre la ragazza dei fiammiferi?

Strinse i denti, scosse la testa, li guardò un po' male, ma non disse niente.

Non avrebbe dovuto ascoltare i discorsi degli altri su di lui, Brian George Gibson.

Avrebbe voluto rispondere, ma erano Inglesi, quelli, e l'inglese lo capiva poco, Gee.

E poi...

E poi era difficile da spiegare.


Avrei potuto scioglierle la treccia, se non avessi rischiato di tirarle i capelli.

Avrei potuto dirle qualcosa in cui non mi avesse ancora preceduto Omero, anche se è proprio Omero stesso, a precedermi.

Avrei potuto stringerle la mano realizzando, preferibilmente prima, di non essere esattamente Ettorre domator di cavalli dopo il duello con il Telamonio.

Avrei potuto salutarla con una frase più romantica di “And the Greeks have won Xerxes”, per quanto questa sia la prima frase in inglese che abbia giudicato opportuno imparare.

Ora parliamoci chiaro, però.

Io non lo so, se lei ha idea di chi sia Serse, se desidera fargli una pernacchia quanto me, ricordando il trionfo di Salamina, se l'ha odiato quanto me quando, alle Termopili, ha osato sconfiggere gli Spartani.

Ora che ci penso, è meglio che non lo sappia, questo.

I miei concittadini devono essere sempre i primi, per lei.

Oh, io non c'ero, alle Termopili.

Potrei essere frainteso, su quest'ultimo argomento, ma ho quindici anni e, mio malgrado, sono nato nel 1821 e non ai tempi di Temistocle.

Ma questo non è che un dettaglio, credetemi.


Gliel'ho sciolta, la treccia, stamattina.

Se l'era fatta talmente male ch'era più arruffata di mio nonno quando gli ho starnutito in faccia per sette volte consecutive, e non è stata una bella scena, quella.

M'ha sfidato a duello, nonno Leonida, momentaneamente dimentico del fatto che fossi sangue del suo stesso sangue, il figlio di sua figlia, il primogenito, l'unico nipote maschio e teoricamente l'erede e tutte quelle storie lì .

Si son stupiti, quei mezzi beoti dei miei amici, quando ho giurato di volermi arruolare nell'Esercito Miceneo, che Agamennone sarebbe stato un comandante di certo meno brutale del nonnino, se solo fosse stato ancora fra noi.

Beh, sì, l'ho sciolta, la sua treccia, quei capelli che sognavo di passarmi tra le dita come la lama calda della mia ultima battaglia, gliel'ho sciolta e poi ho lasciato cadere il nastro nella neve, l'ho guardata e l'ho capito, Zeus, che la mia lama l'aveva lei.

Mi sono arreso, forse per la prima volta, le ho stretto la mano, mi son guardato intorno e ho pensato che così, tra il cielo e la neve, senza testimoni, con un romanticismo che, lo giuro, non ho avuto mai, avrei potuto rubarle un bacio.

Ed è finita proprio come alle Termopili, che guarda a caso sono uno Spartano, io, come un cretino con la mano sulla sua guancia, a consumarla con gli occhi e a domandarmi disperatamente come diamine facesse l'Aiace con Tecmessa, se cercasse di dirle qualcosa in particolare o soltanto di non farle cadere la spada su un piede.

E' finita che non sapevo neanche da che parte girarmi, la guardavo e l'imploravo con lo sguardo: “Alja, se sai che si fa adesso dimmelo, ti prego”.

E lei rideva, rideva, rideva e mi scompigliava i capelli, rideva e m'indicava la bancarella delle castagne, rideva, capelli biondi scompigliati, occhi lucidi di neve ed io ormai non lo sapevo più, quanto m'incantava, e chissà se lo sapeva lei.

Geórgos.

Un cretino che tendeva a rivolgersi a lei come ad un compagno di falange.

Oh, ma ho dei bei ricordi, io, del mio ultimo compagno di falange.

Era della Tessaglia, e mentre affilavo lo xiphos non facevo che chiedergli del caro, vecchio Filottete.

Son di Larissa, benedetto ragazzo, mica della Magnesia!”, era arrivato a gridare un giorno, piantandomi la lancia nel tallone.

Ho ringraziato per il paragone col Pelìde, certo, ma poi son rimasto zitto fino al tramonto, per evidenza di cose.

Però è stato un grande, Filo, quando ha acchiappato i dardi d'Eracle e ha massacrato Pariduccio, non è vero?”, insistevo, o meglio, insistetti quando il tallone fu nuovamente presentabile.

-Oh, vogliamo scherzare? Figuriamoci se ne ho mai dubitato- era solito rispondermi, decisamente meno entusiasta di quanto la circostanza richiedesse.

Geórgos.

L'eroe spartano della prossima Iliade, volendo.

Un decerebrato, pure senza sforzarsi.

Ma quel giorno una cosa intelligente l'ho fatta, l'ha ammesso anche lei, l'avrebbe ammesso il nonno, anche se non avrei dovuto interpretarlo esattamente come un complimento, temo.

C'era il Mersey, a Liverpool, la città di mio padre e del suo.

A pensarci bene c'è anche adesso, ma com'era quella sera, forse, non sarà mai più.

Non era come l'Eurota o l'Enisej, i fiumi delle città in cui siamo nati.

No, non così.

Ma l'ho baciata, io, in riva al Mersey, l'ho baciata che avevo appena inghiottito una castagna, e Aiace sa perché non ho aspettato un secondo, che poi m'è anche andata di traverso, ma non occorre entrare nei dettagli.

L'ho baciata ch'era quasi notte, quel giorno, in riva al Mersey.

L'ho baciata e poi son inciampato e cascato nel fiume, ma nel cadere l'ho presa per mano, ho rivisto i suoi occhi, le sue lacrime di sabbia ch'eran il sole della sera, della sera quasi notte, della nostra sera al fiume, le ho sorriso e qualcosa le volevo dire, sì.

Ma stavo cadendo nel fiume e non era esattamente da sottovalutare, la cosa.

Così una frase da poeta rubacuori proprio non gliel'ho detta, ma le volevo un bene dell'anima io, contavo che l'avesse capito.

E poi, chissà come -ma io lo sapevo, accidenti a me, come, il fiume è diventato tutt'un tratto molto più vicino di lei, e l'unica cosa che potevo dire in mia difesa era che quella frase, no, non l'aveva mai detta, Omero.

-Non ci sono le pantegane, qui, vero?-



Note

Gee, George, Geórgos.

E' relativamente bacato, lui.

Lui a Natal'ja vuole bene davvero, un bene folle, ma non è che sappia tanto come comportarsi.

Vive tra l'Iliade e le nuvole, tra la Sparta d'un tempo, Liverpool, i sogni e la galera, George.

E questi...questi sono gli Alja e Gee dei giorni di Liverpool, ch'era il 1836 e avevano undici e quindici anni, ma l'epoca e la povertà li hanno fatti crescere in fretta, e così un po' cercano di fermare il tempo, e rubano a quel tempo anche il tempo di scherzare, loro.

Il prossimo capitolo sarà su Natal'ja, il prossimo capitolo farà capire tanto.

Sarà diverso dai precendenti, ma per adesso non dico altro.

Sperando che anche questo vi sia piaciuto, a presto! ;)

Marty

  
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