Anime & Manga > Inazuma Eleven
Ricorda la storia  |      
Autore: Albicocca    15/11/2011    10 recensioni
[Corretta nel giorno 23/09/12]
«Cosa vuoi?» sussurrò, puntando lo sguardo sul pavimento di marmo scuro, per poi alzarlo di poco, facendosi rapire dal movimento oscillante dei capelli della ragazza.
«Parlare con te, Reize.»
«Di cosa?» alzò lo sguardo e lo puntò in quello di lei.
«Di quello che è successo alla Gemini» rispose lei con fare ovvio.
«Non sono cose che ti riguardano»

Ai Touchi e Midorikawa Ryuuji. La loro storia insieme e divisi.
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Jordan/Ryuuji
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Autore: Albicocca (è un pochino meglio di MiamChan_, no, è decisamente migliore.)
Genere: Malinconico a tratti, romantico, sentimentale, un po’ commedia.
Coppia: Ai Touchi – Ryuuji Midorikawa.
Note: fottutamente corretta. Alcune cose le ho cambiate. Mi sono accorta che in passato ero una vera analfabeta. Menomale che ho preso la decisione di riscriverla. 

 

 

 
 

Love.

 

 

«Il vero amore non è quello a prima vista, il vero amore è quello che nasce da lunghe e vere amicizie, ma ti accorgi di questo vero amore solo quando la persona ti lascia.»
«Tu davvero credi che sia realmente così?»
«Io non lo credo, io so che è così.»
 

 

 

 
Ero accoccolata sul davanzale della finestra di camera mia con addosso una coperta abbastanza pesante e tra le mani una tazza di cioccolata calda appena fatta, mentre le gocce di pioggia si infrangevano su di essa, terminando la loro discesa dal cielo. Adoravo rimanere ore e ore a fissare la pioggia scendere, cercando la fine.
Avevo sempre creduto che la pioggia, metaforicamente parlando, fosse un anima suicida, che cercava la morte non riuscendo a vivere tra nuvole. E, ovviamente, sapevo che fosse una fantasia di una bambina di sei anni che in un giorno di pioggia, annoiata, contava le gocce che si infrangevano sul vetro delle enorme finestra del salotto di casa propria.
Ma non avevo mai smesso di pensarla così; era più semplice credere questo, che imparare a memoria ciò che aveva riportato la scienza dopo anni di studio.
Rendeva la pioggia più misteriosa e affascinante. Più magica. E non un fenomeno meteorologico dovuto all’evaporazione dell’acqua.
Mi piaceva ascoltare anche il ticchettio delle gocce che si infrangevano al suolo, come una melodia triste e fuori tempo, che andava diminuendo o crescendo, come anche a voler lavare noi umani dai nostri peccati, o la superficie del nostro pianeta. Sembrava che tentasse di lasciarci un messaggio, che però noi non capivamo, troppo indaffarati per cogliere le sfumature di questa Terra che ci ospitava.
Sorrisi, scuotendo la testa, per poi portatami alle labbra la tazza per sorseggiare il liquido caldo che conteneva e riscaldarmi la gola, non staccando però, lo sguardo dalle gocce di pioggia. Le guardavo infrangersi sul vetro per poi continuare a scendere in picchiata verso il suolo.
Mi perdevo in troppi pensieri quando fuori pioveva ed ero costretta a rimanere dentro casa, anche se la cosa non mi dispiaceva.
Preferivo sempre stare in casa mia che in giro per la città.
Forse perché casa mia aveva quell’aria calda e familiare che mi era sempre mancata, forse perché lì mi sentivo al sicuro, perché, anche se non era tanto grande, in due ci stavamo benissimo; anche se non era una villa, noi la consideravamo tale.
Perché era casa nostra; perché era maledettamente casa mia, quella che avevo creduto di aver perso per sempre e di non riaver mai più.
La mia vita era sempre stata un continuo di alti e bassi, a volte più bassi che alti. Era una di quelle da romanzi romantici-drammatici, dove la protagonista era la solita sfigata di turno, orfana e brutta, senza nemmeno qualcuno che le volesse bene.
L’unica differenza che io avevo da quella categoria, era che qualcuno che ci tenesse a me, lo avevo. Mio fratello maggiore, la persona più importante della mia vita.
Il ragazzo che mi aveva sempre protetto e mai lasciata sola; il ragazzo che anche con un solo sguardo sapeva leggermi dentro e capire che qualcosa non andava; quello che mi consigliava quando non sapevo che fare anche se era maledettamente irresponsabile.
Anche se a volte litigavamo, anche se dicevo di odiarlo, anche se lui mi ignorava, rimaneva comunque il mio adorato fratellone; quello che non mi avrebbe mai lasciato, nemmeno per salvarsi la vita.
Sapevo che mi voleva bene come io volevo bene a lui, sapevo che mi considerava la sua principessa e l’unica ragazza che avrebbe amato davvero.
Io ero la sua principessa e lui il mio principe.
Adoravo quando mi chiamava così, mi faceva sentire protetta e ben voluta. Mi faceva sentire maledettamente importante per qualcuno, cosa che accadeva di rado, poiché io non ero brava a fare amicizia, forse per colpa del mio essere troppo distaccata. O forse del fatto che avevo paura di essere rifiutata, perché io ero tutto tranne che una ragazza simpatica, bella e allegra.
Io ero una ragazza fredda, glaciale, amante del silenzio, una divora libri, anche quelli di psicoanalisi. A nessuna persona con un po’ di sale in zucca sarebbe venuto in mente di voler diventare amica ad una persona così lunatica come me.
Sì, perché ero lunatica; il carattere cambiava radicalmente, ogni cinque minuti, e nessuno sapeva come facessi, ma mi usciva naturale.
Ma nessuno sapeva, tranne Shuuji, del mio essere insicuro, timido e dolce, quello che si nascondeva nei meandri di me stessa. Sapevo farlo uscire solo con mio fratello, e quando ero sola, oppure quando sentivo che le persone intorno a me mi volevano veramente bene. Ero fatta così, e purtroppo nessuno mi avrebbe potuto far cambiare. Era impossibile poter cambiare il carattere che mi ritrovavo, anche perché ero un po’ come quel cubo tutto colorato che nessuno riesce a completare; troppo complicata.
Complicata.
Ecco l’aggettivo che mi racchiudeva in una sola parola.
Complicata perché ero un cubo di Rubik umano. E odiavo esserlo, ma lo ero.
Infondo il destino ci fa essere ciò che odiamo, per darci una lezione ed imparare ad amare i propri difetti.
Sospirai appoggiandomi con la schiena al muro del davanzale, per poi spostare lo sguardo dalle gocce di pioggia che ancora si infrangevano sul vetro della finestra, sulla mia camera, estremamente disordinata.
Il letto era ancora da rifare, i libri, che dovevano essere nella libreria dietro la porta in mogano, erano tutti sparsi sul pavimento, mentre la scrivania era piena di carte inutili. E io non avevo proprio voglia di riordinare quel casino. Ci avrei pensato dopo, e poi, Shuuji ronfava ancora alla grande visto che erano le otto di mattina.
Poggiai i piedi sul pavimento, per poi alzarmi e dirigermi verso la porta, con in mano la tazza, ormai vuota, che avevo usato per bere la cioccolata calda, mentre la coperta cadeva a terra provocando un piccolo rumore che a malapena sentì.
Un brivido freddo mi attraversò quando uscì dalla mia stanza; indossavo solo un pigiama poco pensate, lungo fino alle ginocchia di un rosa aranciato, che faceva a pugni con il colore dei miei capelli, legati in una coda alta. 
Mi diressi in cucina e posai la tazza nel lavabo, per poi dirigermi nel piccolo salotto.
Come avevo detto prima, come casa, non era tanto grande. C’erano due camere, una per me e una per mio fratello, un bagno, una cucina, una lavanderia e un piccolo soggiorno, con fuori un piccolo giardino che curavo quando non avevo niente da fare.
Non avremmo potuto scegliere casa perfetta. Ed ero felice di questo.
Mi sedetti sul divano e subito qualcosa attirò la mia attenzione: sul tavolino c’era una foto. La presi in mano, e la scrutai attentamente. Non l’avevo mai vista in giro, ma qualcosa mi fece capire che era di Shuuji, e che l’aveva rimasta lì.
La fotografia raffigurava due bambini, il maschietto più grande della femminuccia, con stampati sulle labbra, due sorrisi sdentati. Sembravano felici. Molto felici.
All’improvviso mi accorsi che quei due bambini li conoscevo. Anche molto; eravamo io e Shuuji.
Ciò che mi aveva lasciata più sorpresa era il fatto che non ero a conoscenza dell’esistenza di questa foto. Credevo che fossero andate perse tutte quel giorno…
I ricordi che avevo tentato di dimenticare, non riuscendoci evidentemente, si fecero prepotenti nella mia mente, mentre la pioggia si infrangeva sui vetri della porta finestra del soggiorno.
PiovevaPioveva come quel giorno.
E mi persi tra i ricordi che avrei voluto dimenticare con la pioggia come unica compagna.
 

 

Flashbacks.
 
 
Due bambini guardavano attentamente, seduti su un letto affianco ad una finestra enorme, la pioggia abbattersi violentemente al suolo, mentre grandi lacrime rigavano ad entrambi le guance. 
Erano abbracciati, e la bambina più piccola tremava ancora, per quello che avevano vissuto, e il ragazzino, che poteva avere circa otto anni, cercava di calmarla sussurrandole all’orecchio che sarebbe andato tutto bene, cercando di convincere anche se stesso, ma inutilmente. 
Sapeva che era successo qualcosa. Sapeva anche che non avrebbe più rivisto i suoi genitori. 
Ma doveva essere forte, lo doveva alla sua sorellina, Ai. 
Doveva proteggerla. 
Questo era il suo compito; quello che gli aveva affidato suo padre, quando li aveva chiusi in quello stanzino, al terzo piano di casa loro. 
Lui doveva proteggere Ai. 
Lui lo avrebbe fatto mettendo anche in pericolo la propria vita, se avrebbe dovuto. 
Non avrebbe esitato. Sarebbe anche morto per proteggerla.
Questo era sicuro. Lo avrebbe fatto.
Ormai aveva deciso, nessuno gli avrebbe mai fatto cambiare idea.
Chiuse gli occhi, stringendo a sé la sorellina, che ormai dormiva. 
«Ti proteggerò, mia piccola principessa, te lo prometto
E continuava a piovere, sempre più forte, mentre la piccola Ai sentiva quella promessa che il fratello avrebbe mantenuto per sempre.
 
__________________________
 
 
Orfanotrofio.
Aveva sentito molto spesso quella parola alla televisione, ma non avrebbe mai creduto di vederne uno dal vivo. E ora, ci stava andando a vivere.
Oppure che ci avrebbe vissuto fino a che, qualche persona di buon cuore, l’avrebbe adottata, portandola via da lì.

Sapeva che fosse un luogo dove i bambini senza genitori o parenti venivano mandati a vivere, perché nessuno poteva occuparsi di loro.
Ed era proprio quello che stava succedendo a lei; i suoi genitori erano morti due mesi prima, e per tutte quella pratiche giuridiche o come si chiamavano, era passato tanto tempo in cui, lei e suo fratello, avevano vissuto con un avvocato che aveva deciso di mandar avanti la loro causa, poiché non avevano parenti, o almeno non si erano presentati all’udienza.
Avrebbe dovuto vivere con altri bambine e bambini. 
E questo la spaventava. 
Non era mai stata brava a fare amicizia. E sicuramente non avrebbe mai fatto amicizia con nessuno. 
Si avvinghiò alla spalla del fratello, che abbassò lo sguardo e le sorrise rassicurante; tentò di ricambiare, ma, evidentemente, le uscì solo una buffa smorfia, poiché il maggiore stava ridacchiando sommessamente. 
Mise su un broncio adorabile, e Shuuji le sorrise una seconda volta. 
«Non preoccuparti, andrà tutto bene, Ai-chan!»
Lei lo guardò. 
«Ci credo, tu non hai problemi nel fare amicizia, Shuuji!»
Il ragazzino sospirò.
Ai lo fissò con i suoi penetranti occhi rossicci, che alcune volte, come in quel momento, potevano mettere in soggezione.
«Okay, se lo dici tu, Nee-sama..ti credo.» 
Ed insieme, tendonsi per mano, misero per la prima volta piede al Sun Garden.
 
_______________________________
 
 
Era la vigilia di Natale, quando Ai lo conobbe. 
Il primo Natale che avrebbe passato al Sun Garden. E anche il primo senza i suoi genitori.
Era seduta su una delle poltrone rosso scarlatto del enorme salotto dell’orfanotrofio, con il fuoco che scoppiettava nel camino a pochi centimetri da lei. 
Faceva molto freddo, anche perché la temperatura era sotto lo zero, e nevicava. 
La sala di ritrovo era addobbata a festa, un enorme albero di Natale era decorato in mezzo al soggiorno, tante ghirlande erano appese ai muri, e un profumo di biscotti al cioccolato si sentiva nell’aria. 
I bambini e le bambine giocavano, e si sentivano delle risate rumorose. E qualche volta un lamento da parte di Nagumo che aveva voglia di mangiare i biscotti, ma puntualmente Suzuno gli dava una botta in testa con un cuscino facendolo zittire. E ovviamente non poteva mancare la risata cristallina di Maki che batteva le mani tutta contenta, seguita dai borbottii contrariati di Haruya. 
Sfogliò con aria annoiata il libro di favole di An, mentre l’amichetta stava litigando per l’ennesima volta, forse, con Shigeto. 
Quei due, volte, sembravano come cane e gatto che solo Reina era capace di dividere.
All’improvviso sentì lo scatto del portone in mogano d’ingresso, come se qualcuno lo stesse aprendo da fuori. Si voltò, mentre tutta la sala si zittiva, attendendo che la porta si aprisse. 
Perfino Nagumo e Suzuno avevano smesso di litigare e osservavano ansiosi l’ingresso.
Quando finalmente si aprì, tutti guardano attentamente ciò che si mostrava sull’uscio della porta. 
Un bambino dagli strani capelli verde pistacchio, accompagnato dal signor Fujimoto, il responsabile dell’istituto, stava tremando per il freddo. 
Tutti i bambini erano estremamente confusi. 
Dalla porta della cucina usci la signorina Kazumi, la ragazza –visto che aveva al massimo ventisei anni- che si occupava di loro, con un passo affrettato. Appena arrivata davanti al superiore lo ignorò completamente e guardò il bambino, che poteva avere si e no otto anni, la stessa età di suo fratello, pensò Ai, mentre la signorina lo trascinava a forza dentro all’orfanotrofio, facendolo sedere sul divanetto color panna, per poi correre in cucina ed uscire dopo pochi minuti con in mano una tazza di latte caldo e un biscotto. 
Mise in mano al bambino sconosciuto la tazza mentre gli infilava il biscotto direttamente in bocca. 
In tutto questo il bambino dai capelli verdi non aveva minimente fatto una piega. 
Lo scrutò per bene, mentre lui, rosso in viso, si nascondeva dietro alla tazza del latte, che in verità era quasi più grande di lui. 
Tutti, come lei, stavano fissando il nuovo arrivato. 
La signorina Kazumi si era diretta, con il superiore, al piano di sopra, dove c’era l’ufficio di lui, per parlare, sicuramente, del ragazzino, quindi bambini erano rimasti soli, in un silenzio innaturale. 
All’improvviso una voce risuonò forte in tutto il salone. 
«Ehi, tu, pistacchietto, come ti chiami?»
 
Ed inevitabilmente un grosso dizionario finì in testa a Nagumo Haruya. 
«Ryuuji Midorikawa.» sussurrò lui.
«Allora benvenuto al Sun Garden, Ryuuji-chan.» la voce gentile di Hiroto gli diede il benvenuto, e così sorrise. 
E così, senza preavviso, il nero luccicante e il rosso violetto si incontrarono.
 
 
Fine flashbacks.
 

 

Un brivido mi attraversò la schiena.
Quei ricordi avevano svegliato in me, emozioni che non provavo da troppo tempo.
Nero.
Il color dell’inchiostro. Del carbone, del petrolio. Di una notte senza stelle. Della morte.
I suoi occhi.
 

 
 
 

«Una stella rappresenta noi esseri umani; ogni volta che noi nasciamo ne nasce una nuova, ogni volta che noi moriamo ne muore un'altra. »
«Alcune volte sembri molto profonda. »
«No, è semplicemente il modo in cui io vedo il mondo, infondo appare diverso se lo vedi da un'altra prospettiva. »
 

 

 

C’erano alcune volte in cui avevo bisogno di pensare, di rimanere da solo con me stesso, dove il silenzio regnava sovrano e potevo perdermi nei miei pensieri, alcuni semplici, altri più complicati e contorti. Soprattutto quest’ultimi.
Mi veniva da chiedermi se l’universo fosse davvero infinito o se davvero fossimo i soli ad abitare in esso.
Mi piaceva rifugiarmi in soffitta. O come la definiva Maki ogni volta che Terumi la nominava,“l’antro polveroso”. Aveva una certa avversità per questo luogo, aveva paura che ci abitasse qualche vampiro, mostro o zombie. Sì, quella ragazza a volte volava con la fantasia; tutta colpa dei romanzi che si comprava, li divorava letteralmente e poi sognava ad occhi aperti di trovare il suo principe azzurro o il suo ragazzo perfetto.
Erano quelle le volte che Haruya la portava di nuovo sul pianeta terra dicendole, con il suo solito fare arrogante, che mai avrebbe trovato un ragazzo perfetto. E lei gli lanciava i suoi romanzi in testa, sotto il consiglio di Fuusuke, che godeva a vederli litigare, anche se lui e Reina portavano avanti la tesi che quei due insieme sarebbero stati benissimo.
Questo lo pensavo anche io, ma non mi ero mai pronunciato apertamente. Se quei due si piacevano buon per loro, sarei stato felice sicuramente. E avrei anche minacciato Haruya di non far soffrire Maki, perché non l’avrei mai perdonato se fosse successo: infondo quella ragazzina –dovevo smetterla di chiamarla così, visto che ormai aveva diciotto anni- era una delle mie migliori amiche. Guai a chi l’avrebbe fatta soffrire.
Lì veniva fuori la parte bastarda del mio carattere, quella che usciva raramente, anche perché ero una persona mite, gentile con tutti e che regalava sorrisi dolci a chiunque. Ero un tipo timido ed insicuro ma chi toccava le persone a cui tenevo sarebbe diventato cibo per gatti randagi.
Sapevo di essere un controsenso bello e buono, e, sinceramente, mi piaceva esserlo, anche se a volte il sembrare troppo dolce, troppo disponibile con chiunque, portava le persone ad approfittarsi di me. E questo non mi era mai andato a genio.
Odiavo essere considerato un debole, uno con cui non valeva la pena provare. Era stato questo, forse, a farmi accettare l’offerta del signor Hitomiko per entrare nell’Aliea Gakuen, quando avevo undici anni. La proposta di potere, per un bambino orfano, che non aveva nessuno se non se stesso, era qualcosa di positivo. 
Soprattutto per un tipo come me. Un tipo che si nascondeva dietro la timidezza, anche se dentro di sé aveva una forza enorme.
Ero fatto così, e a miei amici andava benissimo. Sapevano che non mi piaceva stare al centro dell’attenzione, sapevano che non mi sarei mai trovato una ragazza perché quasi tutte mi mettevano i piedi in testa, credendo di essere superiori a me.
Sapevano leggermi negli occhi, qualunque cosa succedesse. Sapevano se ero felice, se invece stavo uno schifo.
E tutto questo perché erano gli unici che conoscevano tutto di me. Gli unici che avevano capito ciò che ero e ciò che non ero.
E gli ero grato.
Vivevo con loro da quando avevo compiuto diciotto anni, due anni prima. Ed ero felice di vivere lì, nella nostra casa, tra i litigi di Suzuno e Nagumo a prima mattina per dei ghiaccioli, gli urli di Terumi perché aveva trovato un brufolo sul suo perfetto viso, le colazioni ottime di Reina e i suoi sorrisi dolci, i sospiri sognanti di Maki ogni volta che voltava pagina di uno dei suoi romanzi e gli urli di Hiroto quando non trovava il suo gel per farsi i capelli.
Li adoravo, anche se a volte avrei voluto ucciderli con le mie mani.
Chiusi gli occhi, mentre il rumore della pioggia batteva sul l’unica finestra della soffitta.
Mi venne in mente una frase che avevo sentito da qualche parte, forse era stato qualcuno a dirmelo, ma non lo ricordavo, però quelle parole mi erano sempre rimaste in mente.
La pioggia è come una anima suicida, non riesce a vivere tra le nuvole, e non trovando altro posto, si getta al suolo, lasciandosi morire.
Era pura poesia, o almeno così mi era sembrata. Una frase astratta, ma piena di significato.
Pioveva da due giorni, ormai.
Quando pioveva non si poteva fare niente se non restare chiusi in casa a guardare la televisione o a fare un gioco di gruppo, se si stava insieme. Solo i più coraggiosi avevano il coraggio di uscire. E ovviamente noi non eravamo tra quelli. Soprattutto con Terumi e i suoi capelli.
Decisi di scendere dopo pochi minuti, per vedere se quei sciagurati avevano distrutto casa. Erano capaci di tutto, ormai li conoscevo. E poi ero chiuso lì dentro da ormai due ore, visto che ero salito alle sei, ed ormai erano le otto passate.
Mi svegliavo presto anche perché mi piaceva vedere l’alba. E anche il tramonto, ma soprattutto l’alba.
Adoravo veder sorgere il sole, adoravo guardare quel colore tra l’azzurro e il rosso. Ed anche se pioveva, non potevo mai perdermi quello spettacolo, non avrei mai passato una buona giornata senza.
Arrivai dopo pochi secondi in cucina dove Reina stava preparando la colazione, come al suo solito. Era lei la mamma di casa, come la chiamava Hiroto quando lo sgridava perché ne aveva fatta una delle sue, cosa che capitava spesso.
Quel maledetto bastardo era capace di combinarne tante in un solo giorno, ed era ancora un mistero di come ci riuscisse.
  «Buongiorno, Ryuuji!» mi salutò lei, con il suo solito sorriso dolce.
Ricambiai stampandogli un bacio sulla guancia, facendola arrossire.
Risi.
Era adorabile vederla rossa in viso.
  «La devi finire di fare così! Un buongiorno può di certo bastare…» e poi rise anche lei.
  «Ma lo faccio perché ti voglio bene, Reina!
»
Ed era vero. Reina era una di quelle persone che ti capitava d’incontrare una sola volta nella vita, ed io ero stato fortunato a farlo.
  «Testa di cazzo!
»
  «Buongiorno Fuusuke» salutai.
  «Tu non mi chiami testa di cazzo, Fiocco di neve
  «Buongiorno anche a te Nagumo» disse Reina, porgendo, al primo una tazza di latte freddo e al secondo un’altra di caffè caldo, amaro.
Erano diversi anche in fatto di gusti. Ed era normale che a prima mattina litigassero anche per un motivo stupido, come per il bagno oppure il fatto che Fuusuke si era svegliato prima di Haruya, o all’incontrario. Sembrava che per loro tutto fosse una gara. E forse lo era.
Trovavano un motivo, anche senza senso, per poter litigare.
E io ero convinto che così dimostrassero il loro affetto. Litigando certo, ma lo dimostravano così. Non era due tipi che si mettevano a gridare “Ti voglio bene”, e io non ce li vedevo nemmeno a farlo.
  «La mia piastra! Dov’è finita la mia bellissima piastra italiana..?!
» sentimmo piagnucolare l’ex-capitano della Zeus.
Quel ragazzo era strano. Ma dopo due anni non ci facevo più caso, anche se i primi mesi, quando pronunciava il nome della sua piastra come se fosse la sua fidanzata –in quel momento si chiamava Emma, perché era italiana- rimanevo allibito. Immobile.
Adesso non ci facevo più caso nemmeno quando urlava che gli era finito il fondotinta.
Entrò in cucina con i capelli tutt’altro che in ordine come al solito, anzi, sembrava Samara di The Ring, versione bionda.
  «Ho perso la mia adorata Emma…»
  «Vedrai che la ritroverai, Terumi-kun» gli sorrise Reina, porgendogli il suo caffè senza zucchero e caffeina.
Ancora mi chiedevo se esisteva un caffè senza caffeina. Ma erano solo i miei dubbi, intanto lui sorseggiava quell’acqua colorata come se fosse la cosa più buona che avesse mai bevuto.
Maki entrò in cucina con il naso tra le pagine di un nuovo romanzo rosa e, senza nemmeno salutare, si sedette al suo posto e Reina le porse la sua colazione; frittelle e sciroppo d’acero.
Solo Maki poteva mangiare così alle otto di mattina.
  «Si saluta, ventilatore!» ringhiò Nagumo, indignato.
  «Ciao, tulipano, come va stamattina?» salutò lei con fare ironico, non scollando lo sguardo dalle pagine.
Quei due stavano incominciando.
  «Invece di litigare, che ne dite di mangiare?» Terumi li guardò acido.
  «Buooooongiorno gentaglia!» urlò Hiroto con un sorriso stampato sulle labbra.
  «Zitto deficiente!»
  «Ma non hai niente da fare che urlare alle otto e un quarto di mattina?!»
  «Testa di pomodoro siediti e taci che devo scoprire cosa farà Antonio per farsi perdonare da Anita! Spero che le canti una canzone in spagnolo!»
  «Buongiorno anche a te, Hiroto.»
  «Hiroto.»
Ecco, stessa scena tutte le mattine. Lui entrava e in tutti, in diversi modi, lo salutavamo. E lui se la rideva.
Non potevo di certo biasimarlo.
Ci sedemmo tutti e incominciammo a fare colazione.
  «Mi sono ricordato di una cosa, prima…» tutti ci voltammo verso l’albino, confusi.
  «Cosa?» domandò Haruya.
  «Fra due giorni è il compleanno di… Ai.
» sussurrò guardandomi negli occhi.
Azzurro contro nero.
Oh cazzo.
Mi erano andati di traverso i cereali e adesso tossivo cercando di non vomitare anche i polmoni.
Com’era possibile che sentir solo nominare quel nome rischiavo di morire?
  «Tutto bene, Ryuuji-chan?» mi domandò il mio migliore amico guardandomi con i suoi occhi verdeacqua. Ero sicuro che non si stesse preoccupando del fatto che i cereali stessero viaggiando per i miei polmoni, ma per il fatto che Fuusuke aveva nominato Ai.
  «Sì… - tossicchiai un altro po’ – sto bene, Hiroto.»
  «Sicuro?»
  «Sì, non sto morendo, grazie!»
  «Oh bene...»
  «Comunque continua, Suzuno.» gli dissi, sorridendo.
Lui sospirò.
Allontanai da me la mia colazione. La cosa si stava facendo preoccupante.
  «Ecco.. avevo in mente di andarla a trovare..»
  «Per me va bene.» gli sorrisi, cercando di essere convincente.
Perché non andava per niente bene.
Lui mi guardò scrutandomi per bene, come se volesse leggermi dentro. E ci sarebbe riuscito se io non mi fossi alzato, averi ringraziato e sarei salito su, in camera mia, chiudendomi dentro a chiave.
Non potevo credere che l’avrei rivista. Ce, non che avessi qualcosa contro di lei, anzi, era una mia grande amica e le volevo bene. Però non la vedevo da tanto tempo.
Non sapevo cosa mi stava succedendo. Sentimenti contrastanti dentro di me si stavano dando battaglia. E la cosa non mi piaceva minimamente. Mi appoggiai sulla porta, per poi sedermi a terra, con la schiena poggiata su di essa.
Chissà perché, un ricordo, si fece largo nella mia mente.

 
 

Flashback.
 
 
Un ragazzo stava camminando per i corridoi bui, mentre i suoi passi risuonavano nel silenzio che li caratterizzava.
Reize, il capitano delle Gemini Storm, si stava dirigendo verso la sua camera, dove si sarebbe sfogato.
Avevano appena perso contro la Raimon. Quella maledetta Raimon.
La Gemini aveva perso.
Stentava ancora a crederci.
Accelerò il passo, ma qualcosa lo bloccò. 
Più precisamente, una stretta non troppo forte, gli stringeva il polso, non permettendogli di andare avanti. 
Si voltò, infastidito. 
Davanti a lui c’era una ragazzina parecchio bassa, dai lunghi capelli viola che luccicano sotto l’unica luce del corridoio e gli occhi rosso-violetti che lo guardavano glaciali. 
IC era davanti a lui, in tutta la sua freddezza e bellezza eterea. 
«Cosa vuoi?» sussurrò, puntando lo sguardo sul pavimento di marmo scuro, per poi alzarlo di poco, facendosi rapire dal movimento oscillante dei capelli della ragazza.
«Parlare con te, Reize.» 
«Di cosa?» alzò lo sguardo e lo puntò in quello di lei. 
«Di quello che è successo alla Gemini» rispose lei con fare ovvio. 
«Non sono cose che ti riguardano» 
Lei rise. 
Una risata senza divertimento, una risata morta. 
Che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque, ma non a Reize. 
«Non è assolutamente vero, Reize. Sai bene che sfogarti ti aiuterebbe, ma sei troppo orgoglioso… in questo momento» bisbigliò lei.
«IC, non ho niente da dirti.» 
Rise una seconda volta. 
«Lo dici tu, anzi, menti. Sai benissimo che dovresti parlare con qualcuno. E io sono disposta ad ascoltarti.»
Maledetta ragazzina. 
Si, aveva bisogno di parlare, ma non con lei. 
Lei non avrebbe capito. 
«Sì. Hai ragione… ma non con te, IC.» rivelò lui. 
«E perché?» domandò la ragazzina, guardandolo con sguardo di sfida. 
«Perché non è cosa che ti dovrebbe interessare.» 
«Ma io mi interesso lo stesso, oppure non ti avrei cercato, Ryuuji!» 
Il ragazzo alzò lo sguardo sorpreso. 
«Come…?» sussurrò confuso. 
Lei sorrise. 
Non il solito sorriso freddo o canzonatorio, no, un sorriso dolce. 
Reize annuì. E lei lo trascinò verso la sua camera. 
Quella sera IC l’aveva ascoltato e capito. 
Quella sera erano ritornati Ryuuji e Ai. 
 
 
Fine Flashback.

 
Lei.
Lei che anche se faceva parte di un'altra squadra superiore alla mia.
Lei che anche se aveva un carattere freddo, glaciale.
Lei che anche se diceva di non sopportarmi.
Lei mi aveva ascoltato, come nessun’altro aveva mai fatto.
 
 
 
 
 

«Ciò che mi manca di più in questo momento è un abbraccio di mia madre, e il suo profumo…»
«A me invece? A me manca mio padre e il suo sorriso, così bello e semplice.»
«La vita è ingiusta, alcune volte.»
«No, la vita è così perché deve esserlo. Il suo è un lavoro duro; deve far nascere, deve far crescere, deve far innamorare, e alla fine deve far morire. E secondo te lei non vorrebbe delle ferie?»
«La vita in ferie…»
«Ma non può averle. Lei è così. Lei vive con noi. Noi siamo vita. Lei vive dentro di noi.»

 

 

Ai guardò attentamente suo fratello.
I capelli grigi erano in disordine e gli occhi neri erano semi chiusi, mentre gli occhiali, erano storti sul naso.
Shuuji aveva ancora la testa nel mondo dei sogni. Non si era nemmeno ricordato di fargli gli auguri per il suo compleanno.
24 Gennaio.
Compiva i suoi diciotto anni, e anche se non avrebbe fatto una festa pretendeva degli auguri, almeno da parte di suo fratello, che non accennava ad aprir bocca se non per borbottare qualche parola senza senso.
Si alzò dalla sedia e si diresse in cucina per prendere il suo cornetto alla nutella, appena uscito dal forno.
Gli diede un morso, uscendo dalla cucina e guardando malissimo il fratello, che continuava a sonnecchiare con il viso spalmato sul tavolino del soggiorno.
Borbottò un insulto e prese la sua giacca in pelle nera, e aprì la porta d’ingresso per andarsi a fare un giro.
Non avrebbe mai creduto di trovare, sul l’uscio di casa sua, sette persone che conosceva molto bene. E soprattutto non avrebbe mai creduto di rivedere quegli occhi neri come la notte.
  «Voi?» sussurrò incredula.
  «Auguri, amore!» urlò Maki buttandosi addosso alla sua vecchia amica, e facendola cadere a terra.
La ragazza dai capelli azzurri/verdi rise, contagiando anche l’altra, mentre Reina si avvicinava, per aiutarla ad alzarsi.
  «Auguri» disse Reina per poi abbracciarla stretta.
  «R-R-eina n-n-on respiro!» si lamentò l’amica, tossicchiando leggermente.
  «Oh, scusami!»
  «Non cresci nemmeno di qualche centimetro, nanerottola» ridacchiò Haruya, guardandola dall’alto.
Lei gli fece la linguaccia, per poi scoppiare a ridere. «Sei sempre il solito Nagumo-san!»
  «Ai.» la voce gelida di Suzuno gli arrivò alle orecchie, e si voltò.
  «Fuusuke-san!» gli saltò addosso, abbracciandolo.
Lui trattenne una risata.
  «Oh no, Fiocco di Neve sta ridendo, adesso ad agosto nevicherà e a Natale andremo al mare!» ironizzò il rosso.
  «Smettila, tulipano!»
  «Non litigate, per favore!» sorrise lei, interrompendo l’inizio di una nuova discussione.
  «Ai, auguri!» il sorriso del rosso era enorme, e lei ricambiò.
  «Grazie, Hiroto-san!»
  «Auguri, Ai!»
  «Oh, Terumi-san, ci sei anche tu!» e lo abbracciò.
Si rese conto solo in quel momento che Ryuuji era seduto sul divano di casa sua, e quindi si diresse verso di lui, sperando che non la sentisse.
Non lo vedeva da tanto tempo.
Si era tagliato i capelli, e ora li portava corti. Era diventato molto più alto… e più bello.
Ma cosa andava a pensare?!
Scosse la testa, e si sedette affianco a lui.
  «Ehi.»
  «Oh, ciao Ai.»
Non disse niente, abbassando lo sguardo.
  «Auguri» sussurrò dopo poco.
Lei sorrise, ringraziandolo, mentre nella sala entrava Shuuji, con un sorriso disegnato sulle labbra.
  «Allora sorellina, ti è piaciuta la sorpresa?» domandò lui, ghignante.
  «Quindi è un idea tua?» ringhiò lei.
Era sorpresa.
  «No, di Fuusuke. Ma volevo prendermi il merito per una volta!» ridacchiò.
No, non lo era più.
Sorrise, ringraziando tutti ed invitandoli ad andare in cucina per fare colazione.
Ovviamente nessuno rifiutò. Come perdersi in magnifici cornetti?
La mattinata la passarono così, divertendosi e raccontandosi ciò che facevano. Qualche volta ci scappava anche qualche ricordo di quand’erano piccoli.
Ryuuji aveva sempre pensato che Ai fosse una ragazza abbastanza bella, speciale.
Ma non aveva mai pensato che un solo suo sorriso l’avrebbe fatto arrossire in maniera smisurata. Oppure che quando lei gli rivolgeva la parola, incominciava a balbettare.
Ed era proprio di questo che stavano parlando Shuuji, Maki, Fuusuke e Hiroto, tutti e quattro riuniti nella cucina come se stessero preparando un piano di conquista, mentre in salone stava succedendo una terza guerra mondiale, poiché Haruya aveva proposto una battaglia con i cuscini.
Ovviamente qualche volta si sentiva un urlo di Terumi che malediva tutti di star rovinando i suoi magnifici capelli.
  «Tu cosa pensi Shuuji?» domandò Maki.
Il ragazzo rispose subito «Oh, lui la ama. Lei deve solo accorgersene!»
  «E la stessa cosa che penso io!” ghignò Hiroto, e i due si scambiarono il cinque.
  «Ma non se ne accorgeranno mai, se stiamo tutti insieme.» pronunciò Maki, decisa.
Il rosso benedì il fatto che leggesse romanzi rosa a non finire.
  «Dobbiamo lasciarli da soli.»
Fuusuke annuì.
  «Ci vuole solo un bacio, poi faranno da soli!» ridacchiò malizioso il ragazzo dagli occhi verdeacqua.
  «Sì, e io ti giuro che spacco la faccia al tuo migliore amico, se osa andare oltre un semplice bacio, Kiyama!»
Oh, Shuuji Touchi faceva su serio, questa volta.
 
 
Ryuuji non si chiese perché il suo migliore amico lo stesse letteralmente trascinando in uno stanzino, come Ai non si chiese perché Maki stesse facendo lo stesso.
Quando si trovarono chiusi a chiave li dentro però, sorse qualche dubbio.
  «L’hanno fatto apposta.»
  «Da cosa ne deduci, Sherlock?» domandò ironicamente la ragazza, seduta su uno scatolone che la reggeva perfettamente, facendo dondolare le gambe.
Invece Midorikawa era seduto per terra.
  «Secondo te perché l’hanno fatto?» rispose con un'altra domanda il ragazzo dai capelli verdi.
  «Sinceramente? Non lo so.» sospirò “Cosa passa per la mente di quei due è sempre stato un mistero per tutta l’umanità!»
  «Uhm, concordo.» tacque, poi continuò «Che si fa?»
  «Non chiedermelo, non ne ho idea.» disse chiaramente Ai.
  «Si ma non fare l’acida, per favore…» nascose un sorriso.
  «Io non faccio l’acida, Midorikawa!»
Scese il silenzio.
Nessuno dei due sapeva cosa dire. Come rompere quel silenzio insopportabile. Non si resero conto che qualcosa in quell’aria, in quel silenzio stava cambiando. Che qualcosa stava per succedere.
E poi successe, così all’improvviso che entrambi non se ne resero conto.
Ai si avvicinò a Ryuuji, che la guardò.
Erano troppo vicini, troppo per lui.
Lei invece non sapeva che fare, non sapeva perché ma aveva bisogno di avvicinarsi al ragazzo di fronte a lei.
E all’improvviso le loro labbra si toccarono.
Delicatamente. Semplicemente. Perfettamente.
Combaciavano come due tasselli di un puzzle. E le emozioni che provarono al quel semplice tocco erano decisamente troppo per entrambi.
Scosse. Brividi. Farfalle nello stomaco.
Un miscuglio di emozioni forti.
Lei si sedette sulle sue gambe, mentre lui approfondiva il bacio.
Altre scosse, altri brividi, altre farfalle che sbattevano le ali libere nei loro stomaci.
Appena le loro labbra si staccarono, si guardarono negli occhi, confusi.
   «Wow.»
Solo quello uscì dalle labbra di Ai, prima che Ryuuji la baciasse di nuovo. E ancora, e ancora.
 
  «Ma quando escono dallo stanzino? Quando mia sorella avrà partorito almeno quattordici bambini?!»
 

 
 

«Mi capisci quando dico che l’amore è un sentimento unico, Ai?»
«No, non riesco a capirlo. Non capisco cosa intendi con amore.»
«Lo capirai, forse. Mai dire mai. Infondo il tuo nome significa amore, no?»
«Sì, Ryuuji, il mio nome significa amore
«Allora, amore proverai.»

 

 


 
Albicocca.
Ho passato un intero pomeriggio a rileggerla e a correggerla perché gli errori che c'erano, facevano paura.
Tecnicamente non ho niente da dire e non mi va di cambiare l'angolo quindi metterò tra le virgolette quello che avevo scritto in passaaaato e ciao. lol 
"Allora, questa cosa, perché non ho il coraggio di definirla one-shot per un concorso, è una su una coppia che il mio cervello a partorito quest’estate, quando non aveva niente da fare e girovagavo su internet, dove ho scoperto l’esistenza di questo personaggio (Ai), quindi praticamente alla fine, questa coppia la trovo carina.
Impossibile ma carina.
Il mio progetto per il concorso era una oneshot su Reina, ma poi non chiedetemi come sono arrivata a scrivere su di loro, perché non lo so.
So solo che mi sono impegnata.
Ho cercato di scrivere meglio che potevo.
Spero solo che vi piaccia, perché, se devo essere sincera a me piace un po’.
Piccolo appunto per chi non lo avesse capito.
Le frasi tra le virgolette che ci sono all’inizio di ogni parte sono certi discorsi che Ryuuji e Ai hanno fatto quella notte del Flashback di Ryuuji.
Non chiedetemi perché, ma mi piaceva così.
Ah, un'altra cosa.
Lasciatemi una recensione, sia positiva, che negativa, perché voglio anche un parere su questa coppia.
Ora vi lascio,
baci,
la vostra Miam"
   
 
Leggi le 10 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Inazuma Eleven / Vai alla pagina dell'autore: Albicocca