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Autore: AyaAya96    16/11/2011    0 recensioni
Questa è una fanfiction che ha come protagonisti la rockstar giapponese Miyavi e un secondo personaggio, frutto della mia fantasia, di nome Rosa. Ispirato al drama "Kimi Wa Petto", ma con un trama totalmente diversa... leggete e scoprirete ^^
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Miyavi
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Mi avvicinai: Il ragazzo era riverso sui sacchetti dell’immondizia accatastati sotto il lampione, con la guancia destra affondata in una sportina scura.
La pioggia l’aveva infradiciato, e i capelli bagnati gli erano rimasti incollati sul viso. Con una mano, delicatamente, glieli scostai. Accidenti, ricordavo di averlo già visto, da qualche parte.
Mi rialzai di scatto, spaventata. Non importava chi fosse, era sdraiato su un cumulo di immondizia, di certo non era un persona rispettabile. Strinsi il manico dell’ombrello, mordendomi le labbra, mentre poggiavo a terra la spazzatura che avevo portato da casa.
Ma perché era lì? Era morto? Svenuto?
Di nuovo, mi piegai su di lui, stavolta afferrandogli il polso. Il cuore batteva, sì, ma era anche bollente. Aveva la febbre? Gli misi una mano sulla fronte: rovente.
E ora? Che faccio?
Lasciarlo lì sotto la pioggia non era certo una buona idea: non volevo avere niente e nessuno sulla coscienza.
Appoggiai l’ombrello al muro, e tentai di metterlo a sedere.
Sudava e ansimava terribilmente.
Con una mano gli levai velocemente le schifezze che aveva addosso, e tentai di metterlo in piedi, invano. Sebbene avesse un fisico esile, non era per nulla leggero. Alla fine, dovendo però rinunciare all’ombrello, riuscii a caricarmelo sulle spalle, e cominciai a correre verso casa.
Sentivo il suo respiro sul mio collo, e la cosa mi metteva ansia, ricordandomi ogni secondo di più quanto stupido e irresponsabile fosse ciò che stavo facendo.
Finalmente, intravidi il cancello del mio condominio, e un sorriso mi scappò involontario.
Oramai anch’io ero fradicia, e la frangia mi si era appiccicata sulla fronte impedendomi in parte anche la vista. Dopo essere riuscita a liberare una mano, frugai nelle tasche del cappotto e trovata la chiave aprii il cancello.
Tentando di non far rumore salii le scale del condominio, soffocando gli insulti e i lamenti che a chiunque sarebbero usciti spontanei con più di 60 kili sulle spalle, salendo per un’infinita scalinata a chiocciola.
Arrivai all’ultimo piano sfinita: scaricando bruscamente a terra il ragazzo che avevo sulle spalle, mi aggrappai alla maniglia, inserendo e voltando la chiave. La porta si aprii con un cigolio e trascinai dentro casa il malato, controllando che nessuno mi vedesse.
Richiusi la porta, sbattendoci contro la schiena e scivolando lungo la sua superficie fino a terra, sedendomi sul pavimento. Davanti a me, sdraiato sul parchè, tremava il ragazzo che avevo appena salvato dalla pioggia. Puzzava terribilmente di immondizia, e i suoi vestiti erano laceri e sporchi. I capelli spettinati gli invadevano il viso, neri corvini.
Possibile che queste cose capitassero solo a me? Mi ero trasferita da appena due settimane, e mi ritrovavo con uno sconosciuto malato sul ciglio di casa. Sospirai, e raggiungendolo a gattoni, lo alzai, stavolta con più successo, e lo portai sul divano, dove lo feci sdraiare. Corsi in bagno, tornando con una bacinella d’acqua e qualche asciugamano. Adagiai il ragazzo sopra un cuscino, e intingendo una salvietta nel catino, la strizzai e gliela sistemai sulla fronte. Gli tolsi il gilè di pelle sintetica, lasciandolo in canottiera. Solo allora notai che era pieno di tatuaggi: sullo sterno, e sulle braccia. Un’enorme scritta che gli cingeva il collo attirò la mia attenzione: UN-DO. Era scritto in caratteri molto spessi, nell’alfabeto occidentale. La sfiorai incantata con la punta delle dita, ma un colpo di tosse del ragazzo mi riportò alla realtà, e svelta gli tolsi scarpe e calze, portandole all’entrata. Frugando tra gli scatoloni che ancora infestavano l’appartamento trovai una coperta di lana e lo coprii dalla testa ai piedi. Gli cambiai di nuovo la salvietta sulla fronte prima di provargli la febbre: 39°.
Una tachipirina, una tachipirina.  
Ne avevo sempre in borsa una, per le emergenze. Presi un bicchiere d’acqua, e aiutai il ragazzo a ingerire la pillola e a bere. Non potevo più fare altro che aspettare, giusto?
Ora la febbre avrebbe dovuto cominciare a scendere…
Mi appoggiai al divano, sfinita. Il mio sguardo scivolò sul gilè che avevo poggiato sul tavolo. Sarebbe stato meglio lavarlo, visto quanto puzzava. Lo afferrai, svuotando le tasche: qualche moneta, una caramella alla fragola e qualche cartaccia. Nessun documento. Lo rigettai sul tavolo, e alzandomi raggiunsi la poltrona di fronte al divano. Il ragazzo aveva smesso di ansimare, e sembrava anche più tranquillo. Mi avvicinai, scrutando i lineamenti del suo viso.
Dove l’ho già visto?   
Era senza dubbio un bel ragazzo. Un bellissimo ragazzo. Era esile e slanciato, aveva una pelle chiarissima, senza alcuna imperfezione. Portava tre piercing: uno al labbro inferiore, uno alla narice e uno sul sopracciglio. Aveva anche diversi orecchini.
La cosa che però si notava di più erano i suoi tatuaggi. Le braccia erano piene di numeri e scritte in giapponese. Su un braccio aveva anche una scritta che sembrava inglese.
Portare così tanti tatuaggi in Giappone non era una buona cosa: anche chi ne portava solo uno, se questo era troppo in vista, era considerato un malavitoso.
Forse ho fatto veramente male a portarlo qui.
Non sapevo neppure chi fosse. E se avesse avuto a che fare con la Yakuza? Istintivamente mi allontanai, mentre la mia mente si riempiva di terribili supposizioni.
Il ragazzo, con un mugolio si voltò di lato, dandomi la schiena, facendo cadere a terra la salvietta bagnata che aveva sulla fronte. Eppure sembrava veramente indifeso. Mi avvicinai, strizzando l’asciugamano per poi bagnarlo nuovamente. Lo riposai con cautela sulla sua fronte, scostandogli i capelli, che pian piano si stavano asciugando del tutto.
Aveva il visetto di un bimbo, ma di certo aveva più di 18 anni.
Forse 20.
Mi risedetti a terra, posando i gomiti sulla ginocchia. Avevo sonno, i miei occhi cominciavano a chiudersi da soli. Però dormire con in casa uno sconosciuto, seppur malato, non mi rendeva per nulla sicura. Mi alzai e mi risedetti sulla poltrona, e inconsciamente, scivolai nel sonno.
 
Quando mi svegliai la prima cosa che sentii fu la lana che pizzicava su tutto il mio corpo. Aprii gli occhi, stanchi. Davanti a me un soffitto bianco. Del freddo, sulla fronte. Alzai un braccio, sfiorando con la mano qualcosa di soffice e umido che avevo appoggiata sul viso. Solo quel gesto bastò per stancarmi.
Dove diavolo sono?
Cercai di fare mente locale: qualcuno la sera prima, mi aveva salvato.
E prima di quello?
Non riuscivo a ricordare. Raccogliendo tutte le mie forze mi misi a sedere, accorgendomi solo allora del terribile malditesta che avevo. La salvietta bagnata che avevo sulla fronte mi cadde in grembo, e con un gesto stanco la lanciai a terra. Davanti a me c’era una ragazza, sui 20 anni circa. Aveva il viso tondo, un divertente naso a patata e una bocca rosea e sottile. Dormiva, tenendo la testa a penzoloni sul petto: i capelli le ricadevo in avanti, spettinati, e la frangia le copriva l’intera fronte. Aveva ancora addosso il cappotto, nonostante non ce ne fosse bisogno.
E’ lei che mi ha portato qui?
Mi guardai intorno: Non conoscevo quell’appartamento. Quindi dov’ero? Mi alzai a tentoni, raggiungendo la finestra, spalancandola: un vicolo che non avevo mai visto.
E ora? Che faccio?
La testa mi stava scoppiando. Non riuscivo a pensare: l’unico sentimento che dominava il mio corpo era la paura. Voltai lo sguardo e riconobbi la mia giacca sul tavolo. L’afferrai e corsi barcollando verso l’entrata. Aprii la porta, e senza preoccuparmi di richiuderla mi fiondai giù per le scale, correndo, finchè alla seconda rampa non inciampai rovinando a terra.
Mi guardai il braccio: sangue. Cosa diavolo stavo facendo?
- Giovanotto… si sente bene? –
Una voce tremante, anziana. Mi voltai di scatto. Chissà che faccia che avevo: la signora di fronte a me sembrava davvero preoccupata. Mi alzai, facendomi leva con il braccio sano, mentre tentavo di fingere un sorriso.
- Non si preoccupi signora, sto bene. –
Risi, una pessima risata. Chinai il capo e scesi le scale, stavolta con più cautela. Finalmente arrivai all’entrata. La spalancai, e corsi nel vialetto. Il cancello era chiuso, non avevo pensato ad aprirlo dall’interno. Lo scavalcai, rovinando sull’asfalto del vicolo parallelo al condominio. Mi inginocchiai a terra, trattenendo un gemito. Avevo freddo, paura, e stavo male.
Mi ero svegliato in una casa che non conoscevo, sdraiato di fronte ad una donna che non conoscevo. Non sapevo in che città ero, niente mi suggeriva qualcosa.
E il peggio fra tutto, era che non ricordavo nulla di come fossi arrivato lì.
 
- Signorina Kato! Signorina Kato! –
Una voce squillante, fastidiosa mi svegliò di colpo. Mi alzai all’istante, sull’attenti, scatenando le risate della classe. Solo allora mi resi conto che ero nel bel mezzo della lezione.
- Signorina Kato, mi dispiace averla svegliata, ma qui si studia, non si dorme! –
Sbraitò l’insegnate, scandendo istericamente l’ultima parola pronunciata.
Chinai il capo imbarazzata.
- Mi scusi. Non ricapiterà. –
- Lo spero bene. –
Sussurrò accida, chiudendo il libro che aveva tra le mani.
La campanella, suono amico, squillò dopo qualche istante.
 
- Rosa, si può sapere cos’hai oggi? – Yumi mi seguiva tenendo i libri stretti sul petto, con un’espressione preoccupata sul viso. Mi voltai, fissandola di traverso. Non avevo una bella faccia, ne ero consapevole, ed ero anche consapevole del fatto che quello che era successo a lezione non era nella mia norma. Ma diavolo, perché nessuno capiva mai quand’era il momento di non rivolgermi la parola?
- Nulla. –
- Come nulla? Nemmeno quando siamo rimaste sveglie fino alle 6 di mattina il giorno dopo ti sei addormentata a scuola. Qualcosa DEVE essere successo. –
Sbuffai, raggiungendo la fermata dell’autobus. Sentivo puntato su di me lo sguardo di Yumi, probabilmente eccitata e incuriosita all’idea di cosa mi avesse tenuta occupata la notte per lasciarmi in quello stato la mattina dopo.
- Non vuoi raccontarmi proprio nulla? –
Si lamentò Yumi, fingendosi offesa.
- Guarda che i tuoi genitori mi hanno lasciato il loro numero per le emergenze. –
Sorrise perfida, facendo dondolare il suo cellulare davanti ai miei occhi.
- Non lo faresti mai. –
Risposi, scettica.
- Ah, sì? –
Sentii il “beep” dei tasti che venivano schiacciati, e preoccupata mi voltai.
- Buongiorno. Salve, sono Yumi, l’a…
Le tappai la bocca appena in tempo strappandole il telefono di mano e chiudendo impacciata la chiamata. – Sei pazza? –
- Perché? Non credi che i tuoi genitori debbano sapere se la loro figlia ha problemi a scuola? –
La fulminai con lo sguardo, mordendomi le labbra solo per impedire che dalla mia bocca non uscisse un fiume di insulti.
- E va bene! – dissi, mollandole i polsi.
- Allora? Allora? –
- Ieri sera ho pescato un ragazzo dall’immondizia. –
Dissi, infilando il mento sotto la sciarpa rossa.
- Cosa? Un barbone? – Yumi non sembrava soddisfatta della mia risposta.
- No, era un ragazzo giovane, forse della mia età. Aveva la febbre, perciò l’ho portato a casa. –
- Cosa? Ma che razza di incosciente sei? –
Mi voltai, sorpresa di quanto poco umana fosse stata la sua reazione.
- Scherzi? Hai visto come pioveva ieri notte? Secondo te avrei dovuto lasciarlo lì? –
- Perché no? –
Ribatté lei. – Comunque, che hai fatto alla fine, l’hai davvero portato a casa tua? –
- Già… e non sai che mal di schiena. Sembrava tanto esile ma alla fine era più pesante di un macigno. –
- L… l’hai portato sulla schiena? –
Yumi si alzò di scatto, alzando tremendamente la voce. Portai l’indice alla bocca, fissandola con occhi truci, finchè non si risedette.
- Rosa, ma cosa ti salta in testa? Non lo conoscevi neppure? E se fosse stato un malavitoso? –
- In effetti era pieno di tatuaggi… -
- Cosa?! – Di nuovo, alzò la voce. La gente che aspettava con noi alla fermata stava cominciando a guardarci male.
- Non ho controllato bene, ma quelli sulle braccia e quello sullo sterno erano piuttosto evidenti. –
Yumi si passò una mano tra i capelli. Lo faceva spesso.
- Oddio, allora era proprio un malavitoso. Dio, Rosa, ma un po’ di buonsenso no, eh? –
Feci spallucce, infilando le mani nel cappotto.
- Comunque non c’è da preoccuparsi. Stamattina, quando mi sono svegliata, se n’era già andato. –
- Senza dirti nulla? Non ti ha nemmeno ringraziato? –
- Ti ho detto che stamattina non c’era più. Non l’ho visto neanche uscire. –
- Oh, bene. Speriamo solo non si ripresenti. –
Non risposi. In verità, non ero sollevata. Ma nemmeno preoccupata. Solo.. in ansia? Nervosa? Non sapevo neppure dire come mi sentivo.
L’autobus si fermò davanti a noi, e stancamente mi alzai dalla panchina, salendo a bordo. Yumi mi seguì con il suo solito passo frizzante, mentre la vedevo estrarre una rivista dalla borsa.
Cercai i primi due posti liberi vicini, e appena trovati sprofondai nel sedile di fianco al finestrino, voltando lo sguardo alla città che a malapena intravedevo attraverso il finestrino appannato.
Yumi si sedette accanto a me, con le auricolari nelle orecchie e gli occhi vispi puntati sulle foto del suo giornale di gossip.
Feci scivolare lo sguardo stancamente sulle foto stampate sulle pagine, chiedendomi che gusto ci fosse nel sapere della vita privata degli idols. In fondo erano persone normali, e in quanto tali avevano il diritto di avere una loro privacy e non avevano di certo il dovere di informare i fan di ogni secondo della loro vita.
Poi il mio sguardo si fermò su un’immagine. Un’immagine che avevo già visto.
- UN… DO. –
Feci scivolare lentamente le dita su quella foto, su quella scritta che ero sicura di aver già visto.
Yumi mi guardava perplessa. – Rosa, tutto ok? –
Non le risposi neppure: le presi la rivista e osservai confusa la foto che avevo intravisto.
Era un uomo, sui 25 anni, circa, con i capelli lunghi castani che gli sfioravano le spalle. Aveva uno sguardo penetrante, due occhi neri come la notte e la pelle candida, bagnata di sudore. In mano, teneva un microfono: un cantante.
- Ah, quello? E’ Miyavi. Non lo conosci? –
- Miyavi? – Ripetei, guardandola con gli occhi sbarrati. Ovvio che non lo conoscevo bene, l’avevo sentito nominare, ma non avevo mai neppure ascoltato una sua canzone. Per me era sempre stato uno di quei tanti idols che apparivano di tanto in tanto in tv o sulle riviste dando mostra di sé.
- Questo tatuaggio… - sfiorai la foto dove era ritratta la scritta “UN-DO”, esattamente sullo sterno dell’uomo. Anche gli altri tatuaggi, sulle braccia, erano identici. Ma il volto… quello della foto era decisamente più vecchio. Il ragazzo che avevo salvato ieri, era decisamente più giovane. Un cosplay forse? Eppure i lineamenti del viso erano gli stessi…
- Rosa, stai bene? –
- Sì, benissimo. – Le restituii la rivista con un gesto brusco, imponendo alla miriade di pensieri che mi affollavano la testa di tacere.
 
Quando raggiunsi la soglia di casa, non ero ancora riuscita a calmarmi. 
Sebbene mi imponessi di dimenticare, il mio cervello continuava a ritornare sullo stesso pensiero.
Stavo per infilare le chiavi nella serratura della porta, quando sentii dei passi dietro di me. Mi voltai di scatto spaventata.
- Rosa? –
La signora Satoshi mi fissava confusa. Quella non era certo la giusta reazione alla vista di una innocente vecchietta.
- Mi scusi… buongiorno. –
Chinai il capo, tentando di star calma, ma soprattutto di apparire tale.
- Senti Rosa, stamattina ho visto un ragazzo scendere per le scale, lo conosci? –
Alzai lo sguardo, gli occhi sbarrati.
- N-no… perché? –
- L’ho visto scendere dagli ultimi piani di corsa, e sai essendo la padrona del condominio mi sono un po’ preoccupata, sai, non avendolo mai visto… –
- Capisco perfettamente. – Sorrisi.
La signora Satoshi guardò verso le scale che si radunavano a chiocciola lungo l’edificio, pensierosa.
- Eppure ho chiesto ad ogni porta… -
Ma deve sempre farsi gli affari degli altri questa nonnetta? Non ha proprio niente da fare tutto il giorno?
- In ogni caso, - Riprese,
- Il fatto è che l’ho visto rotolare per un’intera rampa di scale… gli avevo anche chiesto se stava bene, ma anche se mi ha detto di non preoccuparsi, era evidente che stesse sanguinando. Ho dovuto persino pulire il pavimento. –
- Sanguinava? –
- Sì, probabilmente si sarà ferito nel cadere. Sarà stato un ladro? Correre con tutta quella fretta… -
Ferito? Ma è idiota? Correva per le scale? Con la febbre che aveva?
- Grazie delle informazioni, starò attenta. –
Chinai il capo e senza lasciarle il tempo di dire nulla, entrai in casa e richiusi la porta. Guardai fuori dalla finestra: stava piovigginando.
Avrei dovuto fare qualcosa: conciato com’era di sicuro non era andato lontano, trovarlo forse non sarebbe stato poi così difficile.
Le parole di Yumi mi risuonarono in testa: “Rosa, ma cosa ti salta in testa? Non lo conoscevi neppure? E se fosse stato un malavitoso?”
Già. Restava il fatto che non lo conoscevo. E restava il fatto che ora non era più un problema mio.
Avevo fatto tutto quello che avevo potuto in fondo, no? Ero stata anche fin troppo gentile.
Mi spogliai, e mi sedetti sul divano. A terra c’era ancora la bacinella d’acqua. L’afferrai per le maniglie e la portai in bagno, rovesciando l’acqua nel lavandino.
L’immagine riflessa nel mio specchio mi attrasse come una calamita: istinto femminile, o disperato senso di colpa?
Poggiai le mani sui bordi del lavandino, e fissai negli occhi il mio riflesso. Sembrava una sfida tra me, la parte razionale del mio essere, e la mia copia nello specchio, la coscienza repentina che mi guardava con disprezzo.
- Aah! E va bene! –
Mi fiondai all’entrata, e infilato il cappotto uscii, richiudendomi la porta alle spalle.
 
Chissà dov’ero. Avevo vagato per tutto il giorno tra vicoli, strade, senza avere la minima idea di dove stessi andando. In più, mi sentivo morire: la testa mi scoppiava, la ferita sul braccio mi bruciava da pazzi, avevo fame e sete. Mi aggrappai ad un muretto, alzando lo sguardo al cielo. L’ultimo ricordo che avevo era il soffitto dell’appartamento di Tokyo, poi nient’altro.
Come fossi arrivato lì, non me lo ricordavo: non sapevo neppure dove fosse, quel “lì”.
Mi sedetti a terra, sfinito. Avevo una voglia pazza di scoppiare a piangere, di gridare… volevo svegliarmi da quell’incubo. Alzai di nuovo gli occhi al cielo.
- Ma perché tutto a me? Mi odi per caso? –
Una goccia d’acqua cadde dal cielo, solcandomi la guancia come una gelida lacrima.
Una, due, tre. Stava cominciando a piovere.
- Perfetto. –
Mi coprii il capo con il cappuccio del mio gilè, e avvicinai le ginocchia al petto, abbracciandole.
Ero in uno stato orribile. Chissà cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse visto in quello stato: vedevo già i titoli sui giornali… “MIYAVI, trovato collassato sul ciglio della strada”
Scossi la testa, stringendo le ginocchia al il petto.
Voltai stancamente lo sguardo, poggiando la testa sulla spalla. Davanti a me, per terra, c’era un giornale. Allungando una mano lo salvai dalla pioggia, e me lo misi in grembo.
Almeno avrei saputo che giorno era.
Aprii il giornale e lo scossi un attimo prima di leggere la data: 09/11/2010.
Spalancai gli occhi. Non poteva essere vero. La data era sbagliata, doveva esserlo.
E’ uno scherzo?
Mi alzai, in preda al panico. Mi guardai intorno: non era possibile. Di nuovo, rilessi la data sul giornale. Forse era solo un errore di stampa.
Una coppia s’introdusse nel vicolo, passandomi di fianco. Una donna, sui 20 anni, e un uomo sui 30 circa, camminavano svelti sotto un ombrello sgualcito. La prima era proprio una bella ragazza: aveva il viso tondo e gli occhi grandi, sembrava quasi una bambola. Il secondo invece, non aveva un bel viso: Gli zigomi troppo alti, gli occhi troppo piccoli. In compenso aveva un fisico ammirevole, ma forse anche troppo palestrato. Entrambi avevano sguardi truci, e i loro discorsi sembravano tutto tranne che amichevoli. Però, non importava, non avevo tempo per queste cose. Barcollando li raggiunsi, afferrando la ragazza per una spalla. Questa si girò, con gli occhi spalancati e un’espressione confusa dipinta sul volto.
- Scusi, sa dirmi che giorno è? In che anno siamo? –
La mia voce era terrorizzata, e probabilmente anche il mio viso aveva assunto un’espressione sconvolta.
- Mollami, barbone! – Urlò la ragazza, spingendomi a terra. Le mie mani strisciarono sull’asfalto, graffiandosi. Trattenni un gemito di dolore, e provai a rialzarmi.
- Hey, tu! – Una mano mi afferrò la canotta, mettendomi in piedi. L’uomo che avevo di fronte e che mi minacciava con il suo pugno era senza dubbio l’amante della ragazza.
- Cosa credi di fare? Cerchi guai? –
- No, io, veramente… -
- Amore, smettila! –
La donna afferrò le spalle del suo fidanzato, con occhi supplichevoli e voce tremante.
L’uomo mollò la presa, e io, senza più forze, caddi direttamente tra le braccia della ragazza, che rispose con un urlo agghiacciante.
Sentii di nuovo la mano dell’uomo afferrarmi la giacca, e spingermi via dal petto della donna, l’istante dopo un dolore lancinante al naso, il sapore del ferro in bocca e l’asfalto sotto il corpo.
Mi aveva tirato un pugno.
- Sei pazzo? Vuoi ucciderlo? Non è successo nulla! –
- Nulla? Questo lo chiami nulla? Anche l’altra volta allora era “nulla”? –
Voglio morire…  
Alzai il petto, poggiando i gomiti a terra. Anche la vista ora cominciava a farmi brutti scherzi: vedevo sfocato, i suoni giungevano lontani e persino sensazioni come il tatto o l’olfatto cominciavano a venir meno.
- Diventerò pazza per colpa tua! –
Urlò la ragazza, afferrando l’ombrello e incamminandosi verso la fine del vicolo. L’uomo stava per raggiungerla, quando alla scenetta si aggiunse un terzo attore. – Hey, tu! –
L’uomo ora era seduto di fianco a me, con una mano premuta sulla guancia sinistra. Chi l’aveva colpito? Mi voltai verso il suo aggressore: una ragazza. Un momento, io quella ragazza la conoscevo.
- Che cazzo vuoi, puttana?! –
- Voglio che ti togli dalla mia strada, pezzo di merda. O vuoi che continui? –
La ragazza mostrò il pugno, e l’uomo a terra per un istante sembrò spaventato. Poi la sua attenzione fu attirata dalla sua fidanzata, che all’arrivo della ragazza si era fermata, tornando poi però sui suoi passi. L’uomo sputò a terra, e fissando la sua avversaria con sguardo minaccioso si alzò e si mise a rincorrere la sua donna, ormai lontana.
La ragazza che mi aveva salvato rimase in piedi per qualche secondo, poi mi si avvicinò e s’accovacciò al mio fianco.
- Stai bene? –
Ti sembra che stia bene?
Mi aiutò ad alzarmi, e trascinandomi tenendo il mio braccio sulle sue spalle prendemmo il vicolo che s’incrociava perpendicolarmente con quello dove ci trovavamo prima. Da lì in poi, persi i sensi.
   
 
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