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Autore: _Shantel    16/11/2011    13 recensioni
Il sogno di ogni ragazza è stato sempre quello di incontrare il principe azzurro: bello, ricco, sensuale e fantastico, e quale migliore rappresentazione moderna di questo ideale c’è oggigiorno? Ma un calciatore, chi sennò?
Celeste Fiore non è d’accordo. Lei sogna l’amore, quello vero, quello epico e quello che ha smosso mari e monti per secoli. Non si sognerebbe mai di stare con un rinoceronte senza cervello.
Leonardo Sogno, invece, del calcio, ne fa la sua vita. È il bomber della Magica, l’idolo del momento, il ragazzo più sexy d’Italia. Ama divertirsi e non pensare al domani, ma soprattutto l’amore non sa nemmeno cosa sia.
Ma, ahimé, si sa che le vie dell’amore sono infinite e cosa succederebbe se Celeste e Leonardo, per un caso fortuito, si incontrassero?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 11

Betato (con sudore) da nes_sie

La stanghetta del foglio di Word lampeggiava sullo sfondo bianco da ormai venti minuti abbondanti. Forse anche mezz'ora, e le parole si rifiutavano categoricamente di riempire quel maledetto vuoto, come se avessero deciso di ammutinarsi contro la sottoscritta. L'idea che mi era balenata in testa qualche giorno prima sembrava essere solo un buco nell'acqua, dato che già trovavo difficoltà nello scrivere anche una sola, misera frase. E questo era uno dei primi sintomi del cosiddetto blocco dello scrittore, ne ero più che certa, che sarebbe potuto durare giorni, mesi, addirittura anni! Avrei potuto fare in tempo a laurearmi, diventare un'insoddisfatta professoressa di lettere isterica, l'incubo di qualsiasi studente per la sua stabilità mentale, sposata con un fioraio dal futuro incerto e con un numero imprecisato di marmocchi per casa che, con i loro pianti e le loro urla, mi avrebbero portato alla pazzia.
Stai insieme a quello lì da nemmeno una settimana, e già ti immagini come sua moglie e madre dei suoi figli? Siamo sicuri che sei ancora Celeste e che tu non sia un alieno con le sue fattezze? Ragioni come una ragazzina sognatrice e romantica...
Dovevo essere già ad un passo dalla follia, se mi vedevo condividere la mia vita futura insieme a Ruben. Anche perché non ero mai stata un'inguaribile romantica che si immaginava già in abito da sposa, davanti all'altare con il ragazzo che conoscevano da un mese scarso, anzi: non avevo mai nemmeno pensato al matrimonio come a qualcosa di concreto. Era strano che lo facessi proprio adesso, ma molto probabilmente era colpa del mio romanzo e del maledetto blocco mentale che mi aveva fatto innervosire.
Come avrebbe detto Manzoni “Questo romanzo non s'ha da fare”. Chiusi il computer portatile, senza nemmeno salvare il file, perché era rimasto immutato dal giorno precedente e lo spinsi lungo il tavolo. Avrei preferito buttarlo per terra e calpestarlo, ma il malcapitato non aveva nessuna colpa. E, oltretutto, con il mio stipendio di gelataia e con i soldi che i genitori di Robbeo gli inviavano mensilmente, non saremmo riusciti a permetterci un altro computer. Era già tanto che non andavamo in giro con le pezze sul sedere anche se, di tanto in tanto, Romeo sembrava davvero un pezzente con quei vestiti di seconda mano che gli regalava suo padre. Tutto in casa Ciuccio era tramandato: la macchina scassata, i vestiti ormai di tonalità spente per i troppi lavaggi, la stupidità... Era nel DNA della famiglia Ciuccio essere degli idioti patentati. Lo era Romeo, lo era suo fratello Marcello e suo padre Roberto. Molto probabilmente era il gene Y di quella famiglia ad essere difettoso e a trasmettere la stupidità di generazione in generazione.
Mi alzai dal tavolo della cucina, trascinandomi svogliatamente verso il salotto, dove il mio migliore amico, seduto sul tappeto, aveva monopolizzato il televisore per giocare alla Playstation – la prima, quella risalente alla Guerra d'Indipendenza Americana –, mentre Venera era intenta a sfogliare svogliatamente una rivista trovata chissà dove. Mi accomodai accanto alla mia amica, guardando sconvolta Ciuccio che, con la lingua di fuori, urlava contro il televisore.
«Passa quella maledetta palla!» Sbottò Romeo, alterato.
Ovviamente, a cosa poteva giocare se non a Wefa, Tifa... FIFA!
Che razza di nome...
Il Fifa del 1930, c'erano perfino i dinosauri in campo per quanto era vecchio quel gioco.
«Lo sai, vero, che non ti sentono nemmeno se ti sgoli?» Domandò retorica Ven, alzando lo sguardo dalla rivista.
«Per cosa mi hai preso, per uno scemo?» Borbottò Romeo, senza distogliere l'attenzione dal suo videogame, e ondeggiando a destra e a manca per seguire la corsa del suo calciatore.
«Io?» Trillò Ven, indicandosi. «Ma cosa vai a pensare! Tu risplendi per intelligenza, Robbeo, la tua saggezza straripa da ogni tuo poro!»
«Mi stai prendendo per il culo?»
«Sei davvero perspicace, Ciuccio, mi complimento con te.» Ribatté la mia amica riportando lo sguardo sulla rivista. «Ed io che pensavo che fossi davvero un idiota! Vuol dire che un neurone si è salvato dal suicidio di massa degli altri suoi compari.»
«Più il tempo passa e più tu diventi davvero spassosa,» la rimbeccò il mio migliore amico, spegnendo la Play, forse perché infastidito. «Oltre che cessa, ma questo era sottinteso.» aggiunse soddisfatto, sedendosi.... anzi, sbracandosi di fianco a me.
«Il bue che dice cornuto all'asino.» Borbottò Ven, senza degnare nemmeno di uno sguardo Robbeo.
«Cornuto a chi?» Si stizzì Romeo, guardandola truce.
Ven alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa per la disperazione.
«Lascia perdere, Robbè,» sbuffò. «È più probabile che Paris Hilton si faccia suora piuttosto che tu capisca un semplice detto italiano.»
«Mamma mia, sei insopportabile come un cactus nel culo,» sbottò irritato ed io lo guardai di traverso, incenerendolo quasi con gli occhi. Non sopportavo il linguaggio sgarbato che adottava ogni qualvolta ne avesse l'occasione. Altro difetto tramandato con il gene Y della famiglia Ciuccio, anche se questo modo di parlare era un po' comune a tutte le persone dotate di Walter.
«Secondo me scopare ti renderebbe perlomeno sopportabile, anche se non credo che troverai mai un ragazzo che abbia il coraggio di vederti nuda!»
«E magari a te ti renderebbe meno stupido,» rispose per le rime Ven, con un sorriso beffardo. «Sai, ventidue anni di astinenza sono tanti e il testosterone ti avrà divorato l'intera materia grigia.»
«Non sono ventidue, mia cara. Si dà il caso che io abbia bungato, a differenza tua!»
Ven abbassò per un attimo la rivista e guardò sconcertata Robbeo che le stava facendo una linguaccia. In realtà la mia amica aveva ragione: Romeo, più passavano gli anni, più si rincitrulliva. Oltre che rimanere il bambino di cinque anni che avevo conosciuto al parco giochi e che, da in piedi, si era dondolato sull'altalena per fare colpo su di me, riuscendo solo a cadere rovinosamente a terra e rompersi la testa. Forse era stato quel trauma a renderlo così deficiente. Se non si fosse sfracellato, molto probabilmente a quest'ora sarebbe stato una specie di Einstein.
«Ed io perdo ancora tempo a battibeccare con te.» Disse Ven, scuotendo la testa e tornando a leggere.Robbeo la guardò un'ultima volta di traverso, prima di incrociare le braccia al petto e affondare nello schienale del divano. Sospirai rumorosamente e mi impossessai del telecomando della televisione. Da quando era arrivata Ven, avevo detto addio alla tranquillità. Non che prima casa Ciuccio-Fiore fosse un'oasi di pace, con colombe che svolazzavano di qua e di là e con scenari utopici, dato che erano più le volte in cui lo sbranavo perché lasciava in giro le sue cose o perché non abbassava la tavoletta del water. Ma Robbeo trovava irritante la presenza di Ven in casa nostra, non erano mai andati d'accordo e ancora non mi capacitavo del motivo.
Accesi la televisione, approfittando di quel momento di silenzio, e decisi di seguire il consiglio di Simone e farmi un giretto su Sky Sport. La cosa non mi allettava affatto, dato che quel canale era per me come l'acqua santa e il crocifisso per Regan, ma quel damerino proveniente dalla triste e grigia Londra mi aveva messo la pulce nell'orecchio. Dovevo capire perché mi avesse detto, con quel suo maledetto sorrisino sornione, di guardare quel canale.
«Dove sta Sky Sport?» Domandai, voltandomi verso Romeo.
Lui sciolse le braccia ed impallidì, perfino le lentiggini persero colore da quanto era turbato.
«Pe-pe-pe,» balbettò.
«Leonardo mode on.» Bofonchiai contrariata.
«Devo andare a recuperare il kit per l'esorcismo?» Domandò ironica Ven, con un sopracciglio inarcato.
«No, tranquilla,» sbuffai, cominciando fare zapping sui canali di Sky. «Devo solo controllare una cosa.»
Romeo scattò in piedi come se il divano fosse diventato d'un tratto di fuoco, e ci passò davanti a passo svelto sotto il nostro sguardo confuso.
«Dove vai?» Chiesi corrucciata.
«Devo fare la cacca.»  Rispose meccanicamente, sparendo dal salotto.
Robbeo era strano nell'ultimo periodo, e il suo comportamento era diventato ancora più misterioso da qualche giorno a quella parte. Tutto era successo da quando era rientrato nella sua vita il vecchio amico di bevute Ruben, fino a degenerare nell'ultimo periodo. Mi stava nascondendo qualcosa, ma sicuramente non mi avrebbe rivelato la verità, nemmeno se lo avessi chiuso e incatenato in un bagno sudicio, e lo avessi costretto con giochi sadici. Scrollai le spalle, allontanando quel sospetto, e continuai a cambiare canali in continuazione fino a quando, per fortuna, capitai sui canali di sport. Su uno di quelli c'era la replica di una vecchia partita del Milan. Che cosa avrei dovuto vedere su quei canali, a parte degli uomini preistorici in calzoncini che si agitavano? Mancava loro solo la clava e sarebbero stati dei perfetti Fred Flistones. Sbuffai annoiata, appoggiando il mento la palmo delle mano e cambiai di nuovo canale, trovando solo ed esclusivamente noiosissime partite di qualsiasi tipo. A che gioco stava giocando Simone? Perché cavolo mi aveva insinuato il dubbio? Tutto d'un tratto, la tele si spense senza motivo.
«Ma che è successo?» Sbottai, premendo freneticamente sul tasto on, come se quello l'avesse fatta tornare tra di noi. «Spero che non sia andata al creatore, perché sennò Robbeo si accontenterà di una scatola di cartone che si finge televisore.» Borbottai, alzandomi e prendendo a sberle il televisore.
«Cel, calmati. Se fai così lo mandi davvero all'altro mondo,» mi rimproverò bonariamente Ven. «Magari è solo saltata la corrente.»
Provai allora ad accendere la luce del soggiorno, ma non successe nulla, segno che anche quella volta la mia migliore amica aveva ragione. Aggrottai le sopracciglia e con passo rinocerontico andai in corridoio per controllare il contatore. Sollevai la levetta della corrente, anche se mi sembrava strano che la luce fosse saltata così, senza motivo.
«È andata via la corrente, eh?» Domandò sornione Robbeo, uscendo dal bagno.
«A parte che non hai tirato l'acqua,» gli feci presente schifata. «Comunque, come fai a sapere che è andata via la luce?» Domandai, entrando in modalità Venera-detective-Conan.
Robbeo mi guardò stralunato, poi mi sorrise come un ebeta, rinchiudendosi di nuovo in bagno e lamentandosi per un mal di pancia che non ero sicura avesse. Scossi la testa, sconsolata perché ormai quel ragazzo era irrecuperabile, e tornai in salotto, spegnendo sia la luce che avevo acceso poco prima, che il televisore. Tanto ormai era chiaro che Simone  fosse un deficiente. Forse aveva bevuto troppo tè, da abitante dell'Inglesilandia qual era, e la troppa teina gli aveva dato alla testa. Mi sedetti a peso morto accanto alla mia amica, chiudendo gli occhi e cercando di rilassarmi, oltre che tentare di farmi passare il blocco dello scrittore. Ma Ven non sembrava del mio stesso parere e mi lanciò uno sguardo di sottecchi, allungandomi poi sotto il naso la rivista che stava leggendo fino a qualche minuto prima.
«Visto?» Domandò con un sorrisino.
«Cosa?»
Abbassai lo sguardo sul giornale e, proprio nel mezzo, era stata piazzata una foto del mio ragazzo che stringeva una spalla a quella talpa rachitica di Leonardo, stretto nelle spalle e che accennava un timido sorriso. Visti così, la star sembrava Ruben e non Sogno, il campione della Magica.
«Il mio ragazzo è andato a finire su 'Chi'... interessante,» commentai, per niente eccitata dalla grande scoperta di Ven. «Magari hanno pensato che fosse il fidanzato di Leonardo.» scrollai le spalle e mi abbandonai contro lo schienale del divano.
«Non la foto! Leggi l'articolo!» Esclamò, ammollandomi il giornale tra le mani.
Roteai gli occhi, spazientita, rantolando anche per il nervoso e cominciai a leggere il trafiletto. Nella prima parte, il giornalista elogiava Sogno, ricamando la descrizione del calciatore migliore del mondo; velocemente aveva menzionato una ragazza senza volto e senza nome che nell'ultimo periodo accompagnava Leonardo per le vie di Roma. Non mi stupiva la cosa, anche perché Ruben mi aveva già accennato al fatto che Sogno stesse cercando di mettere la testa apposto e che si stava frequentando con un ragazza.
«Wow, Leonardo ha la pischella.» Borbottai, tendendole la rivista.
«Continua a leggere!» Mi rimbeccò lei.
«Non puoi dirmelo tu che diamine c'è scritto, così tagliamo la testa al toro?» Sbottai, nervosa.
Ven sbuffò, più che altro per togliersi una ciocca di capelli scuri che le era scappata dalla coda di cavallo e che le stava solleticando il naso, poi mi trafisse con i suoi intensi occhi blu.
«Leonardo sarà al centro sportivo Gianicolo questo pomeriggio,» piegò il braccio e scrutò con attenzione il suo orologio. «Anzi, è già al centro sportivo Gianicolo,» rettificò con un sorriso. «Per allenare i pulcini. È una specie di opera di beneficenza.»
«Buon per lui. Spero non gli venga una crisi di nervi a stare a contatto ravvicinato con quei marmocchi col moccolo al naso.»
«Potremmo andare, no? Almeno passiamo un pomeriggio diverso. Non che non mi dispiaccia litigare con Robbeo ogni santo minuto, vedere te che scribacchi al computer tutto il dì, o stare seduta su questo comodissimo divano,» parlò senza sosta, con un sorriso stampato sulle labbra. «Che, peraltro, ora avrà assunto la forma delle mie chiappe. Però, sai, ogni tanto uscire non sarebbe male.»
«Perché sarà davvero divertente vedere dei bambocci, futuri bisonti ignoranti, allenati da quel caprone di Leonardo...» Commentai.
«Magari ci sarà anche Ruben. Anzi, sicuramente sarà lì! E non hai voglia di vederlo? Di passare un po' di tempo con lui?»
Guardai Ven di sottecchi, con le braccia incrociate e una specie di smorfia sul volto simile ad una specie di broncio scocciato. In effetti, quel giorno, non ci eravamo né visti e né sentiti. Non che volessi uscire tutti i giorni con lui, ma Ruben non si era fatto sentire quella mattina per chissà quale strano motivo. Scattai in piedi e mi diressi velocemente verso la mia camera per vestirmi e rendermi presentabile. Già il mio ragazzo mi aveva visto con l'orribile vestitino grigio bucherellato, che usavo come indumento da casa ed era un miracolo se non fosse fuggito davanti a quella visione sexy quanto un macaco intento a spulciarsi. Scelsi un semplice paio di jeans chiari e una camicetta grigia tendente all'azzurro a maniche lunghe, il tutto completato con le Converse che un tempo erano state bianche, ma che adesso propendevano verso il nero. Speditamente uscii dalla mia stanza e bussai alla porta del bagno dentro al quale si era barricato Romeo. Era da circa dieci minuti che era chiuso lì dentro e cominciavo seriamente a credere che fosse stato risucchiato dal gabinetto.
«Robbeo, se il water non ti ha inghiottito, batti un colpo!» Esclamai, tendendo l'orecchio per sentire un qualsiasi rumore provenire dal bagno.
«Che vuoi?» Domandò, aprendo la porta e appoggiandosi allo stipite della porta con fare da  dongiovanni ammaliatore. Peccato che il suoi sex appeal era pari a quello di un'acciuga, anche quando si sforzava di sembrare sexy.
«Vestiti,» gli ordinai. «Devi portarci al centro sportivo Gianicolo.»
«Non ci potete andare coi mezzi?» Borbottò scocciato.
«Lo sai quanto è pericoloso per due ragazze come noi salire su un autobus, eh? Potrebbero importunarci, seguirci, violentarci da qualche parte!»
«Ma è pomeriggio, Cel! E i mezzi sono sicuri a quest'ora,» sbuffò «E poi, appena vedono Ven, scappano per lo spavento!» Ridacchiò divertito.
Presi un respiro profondo e gli afferrai con decisione il padiglione auricolare, trascinandolo verso camera sua e spingendolo dentro il vano con poca grazia.
«TU CI PORTI AL CENTRO SPORTIVO GIANICOLO,» scandii, puntandogli un dito contro e facendolo indietreggiare. «E non voglio sentire repliche! Ora vestiti e prendi qualcosa per il tuo problema intestinale. Una limonata, un Imodium...»
Lasciai la frase in sospeso e mi chiusi la porta della camera di Robbeo alle spalle. Poco dopo, dalla mia stanza, uscì Ven, vestita con un paio di pantaloni neri abbinato ad un golfino verde scuro.
«Allora, andiamo?» Mi chiese, puntellando le mani sui fianchi.
«Come? Con il tappeto volante?»
La mia migliore amica rilassò le spalle e abbandonò le braccia lungo i fianchi, arricciando le labbra in un'espressione quasi schifata.
«Dobbiamo andare con il bolide?»
«È l'unico mezzo di trasporto che abbiamo.» Risposi, scrollando le spalle e andando in salotto per finire di prepararmi.
«Allora arriveremo domani mattina.» Borbottò, seguendomi.
Afferrai il giubbotto di pelle dall'appendiabiti e il foulard che annodai attorno al collo. Ven mi imitò, indossando il suo trench blu scuro e afferrando la sua borsa a tracolla. Dopo qualche secondo, Robbeo uscì dalla sua stanza, facendo una piroetta e avvicinandosi sinuoso a noi, ammiccando di tanto in tanto.
«Ecco l'uomo più desiderato del pianeta.» Disse con tono suadente, facendo seguire a quella frase un'improvvisata canzone swing in stile Michael Bublè, in un improbabile e maccheronico inglese.
«Ehi, Uomo Più Desiderato Del Pianeta,» lo richiamò con sufficienza Ven. «Hai la maglietta al contrario.»
Robbeo abbassò lo sguardo e arrossì di colpo, mimetizzandosi con la sua capigliatura vermiglia.  Soffocai una risata con il palmo della mano, mentre lui si toglieva velocemente la maglietta e la rivoltava.
«Che fisico possente, Robbeo.» Lo schernì Ven, ammiccando.
«Ah, ah, ah, spiritosa! Tanto lo so che provi attrazione per il sottoscritto!»
La mia amica aggrottò le sopracciglia, poi scoppiò in una fragorosa risata, piegandosi in due per quanto si stava divertendo. Si asciugò rapidamente una lacrima, poi si ricompose, tornando seria per qualche secondo.
«Non sono così disperata, Robbeo,» disse. «E  anche se tu fossi l'unico uomo rimasto sulla terra, piuttosto diventerei lesbica.»
Si scoccarono un'ultima occhiata di sfida, prima di uscire di casa seguiti a ruota dalla sottoscritta. Velocemente, grazie al nostro magnifico e gracchiante ascensore che sembrava essere uscito da un film horror, arrivammo al piano terra ed uscimmo dalla nostra palazzina. La macchina di Robbeo spiccò rispetto alle altre parcheggiate nei dintorni. Sarebbe stata riconoscibile anche in un parcheggio sovraffollato dell'Ikea quel rottame, e non solo per il color ruggine, ma soprattutto per lo scotch che la teneva ancora insieme. Se avesse ceduto il nastro adesivo, sarebbe collassata su se stessa come un fragile castello di carte.
«Pronti ad infrangere la barriera del suono con quella macchina super rapida?» Domandò ironica Ven, fermandosi si fronte al macinino.
«Non capisco cosa abbiate tutti contro la mia macchina,» borbottò Robbeo, salendo sul bolide. «È così bella!»
«Prenoto la visita dall'oculista?» Domandai ironica, sedendomi sui sedili posteriori insieme a Ven.
Robbeo borbottò qualcosa, scrollando le spalle e mettendo in moto il pandino mezzo scassato. Il motore brontolò per qualche secondo, prima di partire con qualche sobbalzo ed immettersi nelle vie di Roma.
«Ma come mai volete andare al Gianicolo?» Domandò Romeo, guardandoci dallo specchietto retrovisore. «Vi è venuta voglia di fare un po' di sport?»
«Ma quale sport!» Esclamai, da brava pigrona qual ero. «Leonardo allena i pulcini. E con lui ci sarà anche Ruben. Quei due sono inseparabili, ci manca poco che si sposino.»
«Non... non sono sicuro che sia una buona idea.» Disse con voce tremolante, guardandoci preoccupato. Chissà come mai, quando si parlava di quei due, si allarmava sempre. Dovevo per caso cominciare a pensare che Ruben e Leonardo fossero davvero della sponda opposta alla mia? Ven si sporse in avanti, tra i due sedili anteriori e diede qualche pacca sulla spalla a Robbeo.
«Tranquillo, Anna dai capelli rossi,» ridacchiò. «Ci divertiremo.» E si scambiò un sguardo d'intesa con il mio migliore amico.
Non sapevo se essere sospettosa o meno. I comportamenti dei miei amici e del mio ragazzo erano sempre ambigui, quasi fossero tutti custodi di un segreto che non mi era dato sapere. Ma più mi dicevo che c'era qualcosa che mi stavano nascondendo, più non riuscivo a trovare questo qualcosa. Di cosa mai avrebbero potuto tenermi all'oscuro? Di una festa a sorpresa? O del fatto che magari Ruben era un maniaco-barra-ladro-barra-qualsiasi altre cosa?
«Ragazzi siete strani,» diedi voce ai miei pensieri. «Ho come l'impressione che mi stiate nascondendo qualcosa.» Assottigliai lo sguardo e lo puntai prima su Robbeo poi su Ven. Quest'ultima sorrise placidamente, stringendo con forza la spalla del rosso.
«Macché!» Disse tranquillamente la mia amica. «Cosa mai dovremmo nasconderti?»
«Qualcosa su Ruben.»
«Sì, in effetti il ragazzo è un po' strano,» disse Ven, appoggiandosi allo schienale e alzando una nuvola di polvere. «Ma non credo ci sia da preoccuparsi o da farsi venire i dubbi. Nonostante tutto è un ragazzo a posto, no, Robbè?»
Il rosso annuì prontamente, con gesti meccanici senza nemmeno distogliere lo sguardo dalla strada che, lenta, si muoveva sotto di noi. Arricciai le labbra, guardando sospettosa Ven che mi sorrideva tranquillamente. Scrollai le spalle e sospirai. Magari era solo la mia mente contorta che cercava casini anche dove non c'erano.
Circa mezz'ora dopo, durante i quali avevamo percorso solo cinque o sei kilometri, Robbeo parcheggiò la macchina fuori dall'imponente centro sportivo Gianicolo. Era circondato dal verde, da alti alberi e cespugli vari e sorgeva su alcune terrazze. E se l'esterno mi aveva lasciata a bocca aperta, l'interno era ancora più incantevole. C'erano numerose strutture, ognuna delle quali era adibita ad un diverso sport, oltre ad alcuni bar all'aperto e panchine immerse nel verde di quel luogo. Seguimmo le indicazioni scritte su alcuni cartelli e raggiungemmo il campo di calcio dove stavano giocando i marmocchi. Contrariamente alle mie aspettative, gli spalti erano stati quasi completamente riempiti, come se stesse giocando una squadra di professionisti. Quell'affluenza di gente era sicuramente da attribuire alla presenza di Leonardo e alla speranza di ricevere un suo autografo, perché altrimenti nessuna persona avrebbe sprecato il suo prezioso tempo per guardare dei bambini propensi a buttare la loro esistenza nel gabinetto per inseguire il sogno di diventare calciatore.
Genitori a parte, ovviamente.
Fortunatamente Ven adocchiò tre posti in terza fila e, spintonando di qua e di là, riuscimmo a raggiungerli e sederci vicino ad alcune galline urlanti, per goderci la partita. E dai nostri meravigliosi posti riuscivo perfino a vedere la panchina dell'allenatore. Come aveva detto Ven, Ruben era lì insieme a Leonardo, entrambi vestiti con la tuta della Roma. Stavano tutti e due a bordo campo ed ebbi, ancora una volta, come l'impressione che la star fosse il mio ragazzo e non Sogno. Leonardo, che di fianco a Ruben pareva un puffo, se ne stava ricurvo, strette nelle spalle striminzite si guardava intorno come spaesato. Nonostante tutto quello che si diceva sul suo conto, cioè che fosse un menoso, stronzo, sciupafemmine ed anche violento, date le ultime indiscrezioni sulla sua espulsione, quel Leonardo Sogno mi faceva tanta tenerezza. Sembrava quasi che il ragazzo che era qualche metro davanti a me fosse tutt'altra persona rispetto a quello che descrivevano solitamente.
«Ti rendi conto che tutta questa gente è qui solo per quel tappo rachitico e mezzo cieco?» Domandai retorica, rivolta a Ven che sedeva alla mia sinistra. «Sembra quasi un eroe nazionale e l'unico merito che ha, se così si può chiamare, è quello di correre dietro un pallone. Roba da matti!»
«Non essere sempre così cinica!» Mi rimbeccò la mia amica, dandomi una pacca sulla spalla. «Ognuno ha i suoi idoli. Tu Emily Bronte e loro Leonardo Sogno.»
«Sei sicura di essere Venera, la mia migliore amica, quella che odiava calcio e calciatori come me?» Domandai confusa, con un'espressione accigliata.
«No, sono un fantasma che ha assunto le fattezze della tua migliore amica solo per perseguitarti. Uhuhu!» Rispose con voce roca, protendendo le mani verso di me per dare più enfasi alla sua terribile imitazione di uno spirito. «Lamentarsi continuamente non cambierà le cose, no?» Tornò seria e si tolse una ciocca di capelli che le era ricaduta sul viso a causa del vento .«Lasciali sognare, lasciali venerare il loro eroe  e fregatene di quanto siano stupidi e di quanto sia ingiusto che i calciatori prendano una barca di soldi per nulla.»
Abbassai lo sguardo e mi ravvivai i capelli con un rapido gesto della mano.
«Già, hai ragione,» Annuii, alzando gli occhi e sorridendo alla mia amica. «È inutile che io continui a lamentarmi, anche se questo non cambierà il mio pensiero su di loro.»
Ven ridacchiò ed entrambe tornammo a guardare il campo davanti a noi. O meglio, non i verso bambini che giocavano, dei quali non mi interessava proprio nulla, ma verso la panchina dell'allenatore.  Ruben seguiva attentamente la partita, alzando il braccio di tanto in tanto per richiamare l'attenzione di qualche baby-giocatore per dargli qualche dritta, mentre Leonardo seguiva ogni passo ed ogni movimento del mio ragazzo impacciatamente   e goffamente.
«Leonardo, Leonardo, Leonardo!» Cominciarono ad urlare gli spettatori, invocando il nome del loro beniamino, seguendo il ritmo scandito dal battito delle loro mani. «Leonardo, Leonardo!» Continuarono e Ruben diede una leggera gomitata al suo amico ed entrambi alzarono le mani in aria, cominciando a sventolarle per salutare il pubblico e girando su loro stessi per avere l'intera visuale della folla urlante che acclamava Sogno.
«Perché saluta anche Ruben?» Chiesi perplessa, ma la mia domanda non era rivolta a nessuno in particolare.
«Vorrà avere anche lui il suo piccolo momento di gloria. Sta solo sfruttando la popolarità di Leonardo, magari.» Ipotizzò Ven, facendo spallucce.
La imitai, convinta quanto lei delle sue parole. In fondo, per arrotondare, faceva il modello e di certo desiderava essere famoso, magari avere un quarto della popolarità del suo caro amico Leonardo.
«Sogno, sposami!» Gridò una ragazza dietro di noi, scattando in piedi e mettendosi le mani tra i capelli.
«Pittore sei un grande!» Sbraitò una voce maschile.
«Pittore scopami!» Gli fece eco sempre la stessa ragazza infoiata di poco prima. Mi voltai e la guardai schifata, sia per i suoi gusti discutibili che per la sua bassezza morale. Ma cosa potevo aspettarmi da una che portava un paio di shorts striminziti, grandi quanto le mie mutande, e una maglietta scollata quasi fino all'ombelico.
«Perché lo chiamano Pittore?» Domandò dubbiosa Ven.
«Ma perché è un genio del calcio!» Gli rispose prontamente Robbeo, scattando in piedi con gli occhi che gli luccicavano e un pugno proteso verso l'infinito. «Perché è il miglior calciatore vivente. È il più grande giocatore che questo sport abbia mai avuto! Quando pensi che la partita sia finita in un misero pareggio, ecco che Sogno tira fuori dal cappello una delle sue magie per far vincere la Roma.»
«Ma questo non spiega perché Pittore,» gli fece notare scocciata. «Capivo se si fosse chiamato Mago, Abracadabra, Harry Potter o Ron Weasley. Ma il soprannome che ha non c'entra un bel nulla con la descrizione che mi hai appena fatto.»
«Noto che quando parlo non mi ascolti!» La rimbeccò, avvicinandosi al suo viso. «La prima cosa che ho detto di lui è che è un G E N I O!»
«Per cui vive in una lampada magica ed esaudisce i desideri di un pezzente con manie di grandezza?»
«Quanto sei tonta, Venerdì,» sospirò, scuotendo la testa e incrociando le braccia. «Genio come colui che portava il suo stesso nome secoli e secoli fa!»
«Leonardo Da Vinci?» Domandò timorosa la mia amica.
Robbeo saltò sulla sua sedia e urlò un che fece tremare la terra, e per poco a causa di quella risposta, Ven non svenne.
«Vuoi dirmi che voi paragonate quel carciofo ad uno dei più grandi geni che il mondo abbia avuto?»
Il rosso annuì con vigore, cominciando poi ad inneggiare al suo idolo, ondeggiando le braccia da una parte e dell'altra.
«Farò finta di non aver sentito questa sciocchezza.» Borbottò la mia amica.Aveva avuto quasi la mia stessa reazione, nell'udire quell'immensa idiozia. Era un miracolo se quelli che avevano dato a Leonardo quel soprannome sapevano chi fosse Da Vinci. Appoggiai il gomito al ginocchio, mentre col palmo della mano mi reggevo la testa. Quella partita era una noia mortale e gli schiamazzi intorno a noi erano insopportabili.
«Quanto sei figo Leo!» Urlò una delle galline che mi era seduta accanto.
«Lo scoperei all'istante! Guarda quanto è sexy!» Si unì a quella la sua amica.
«Oddio ragazze, oddio! Ci sta salutando! E ci sorride anche!» Gracchiò la terza Barbie, scattando in piedi per sventolare le mani.
Alzai lo sguardo e notai che sia Leo che Ruben stavano guardando nella mia direzione e che il mio ragazzo mi stava anche sorridendo. Ricambia, stiracchiando le labbra e alzando una mano in segno di saluto.
«Ma che vole quel cesso che ci sorride?» Domandò Barbie numero 1, inorridita.
«Oddio, che mostro!» Le fece eco l'altra oca giuliva.
«Chissà perché Leo se lo porta sempre dietro a quello sfigato. Dovrebbero rinchiuderlo in uno zoo, talmente è brutto.»
Quelle tre galline spennate stanno parlando del tuo ragazzo, non so se te ne sei accorta...
Galline cieche, oltre che spennate, aggiungerei! Avevano di certo bisogno di una visita oculistica, magari insieme a Robbeo, dato che ritenevano Ruben un cessi ambulante e Leonardo l'uomo più bello esistente sulla terra. Ma, di certo, non era quello il problema. I gusti erano gusti, in fondo, ma quei tre animali da cortile non potevano permettersi di parlar male del ragazzo di Celeste Fiore, quando Celeste Fiore era nei paraggi. Voltai lentamente la testa verso le ragazze che avevano osato offendere Ruben, con gli occhi resi a due fessure con i quali, se solo avessi potuto, le avrei incenerite.
«Che avete detto?» Sibilai e le tre oche mi guardarono con sufficienza, parlottando sommessamente tra di loro.
«Che Ruben, quel mostriciattolo che si porta sempre dietro Leonardo, è un cesso. È rivoltante.»«Come osi, razza di gallina con le labbra siliconate?» Sbottai, alzandomi in piedi e puntandole il mio famoso dito indice contro.
Le tre Barbie civettuole si scambiarono uno sguardo d'intesa, prima di scoppiare a ridere sguaiatamente.
«Non sarai mica la sua ragazza?» Azzardò una.
«Sì, lo sono! Complimenti per averlo intuito, Sherlock.» Risposi imbestialita, incrociando le braccia.
«Oh mio Dio!» Esclamò quella con le labbra a canotto, ridendo come un'idiota. «Non credevo che ci fosse qualcuno con un tale coraggio.»
«Beh,» intervenne la sua amica. «Lei non è che avrebbe potuto aspirare a qualcosa di meglio. Ruben è quasi al suo livello.»
Strinsi i pugni, sentendomi profondamente offesa. Non avrei dovuto dar peso a quelle galline. Avrei dovuto ignorarle fin da subito perché erano esseri non in grado di pensare, ma ogni volta che si parlava di me o delle persone a me care, offendendo gratuitamente, senza nessun motivo, mi infervoravo.
Feci un passo verso di loro, con il solo intento di prenderle a sberle, anche se non ero mai stato un tipo particolarmente violento. Ma quelle tre avevano prosciugato la mia già limitata pazienza nel giro di pochi minuti. Solo che Ven fu più veloce di me e riuscì a fermarmi prima che commettessi un triplice omicidio.
«Cel, che ti prende?»
«Hanno offeso Ruben. E anche me.» Risposi e per poco non cominciò ad uscirmi il fumo dalle orecchie.
«Ma fregatene!» Mi riprese, lanciando un'occhiataccia alle tre ragazze. «Non ti curar di loro, ma guarda e passa.»Le Barbie-galline-spennate guardarono dubbiose la mia amica, pensando forse che Ven fosse impazzita tutto d'un tratto. Sorrisi beffarda, di fronte al loro sguardo vacuo e tornai a sedermi, ancora furente ma con l'unica intenzione di non badare più alle provocazioni delle ragazze sedute alla mia destra, che continuavano a ridacchiare di me e Ruben.
La partita durò ancora qualche minuto, dieci al massimo anche se mi sembrò che fossero passati dei secoli. Appena la competizione si concluse, la gente cominciò a scendere dagli spalti in massa, accerchiando Leonardo e il povero Ruben alla ricerca di qualche autografo o di una fotografia con il proprio beniamino.
«E adesso?» Domandai, guardandomi intorno. Gli spalti erano praticamente vuoti, gli unici rimasti seduti eravamo noi tre. «Ruben e il carciofo sono stati inghiottiti da un'orda barbarica.»
«Aspettiamo,» disse semplicemente Ve, scrollando le spalle. «Prima o poi se ne andranno le sanguisughe.»
Annuii con poca convinzione ed attendemmo con calma, e tanta, troppa noia, che la folla urlante di ragazze arrapate e di uomini che praticavano il Culto Sogno, scemasse e lasciasse Ruben e il carciofo un attimo per respirare.
Cominciammo a scendere dagli spalti quando anche l'ultimo bambino si allontanò da loro, circa venti lunghissimi minuti dopo che la partita si era conclusa e li raggiungemmo in campo. Nonostante mi avesse notato tra gli spalti poco prima – o magari stava sorridendo per convenzione, senza un vero destinatario –, Ruben sembrava stupito di vedermi lì, mentre Leonardo abbassava lo sguardo con insistenza, rivolgendo di tanto in tanto una rapida occhiata al suo 'marito'. Anche lui aveva un che di sospetto, come se fosse un complice involontario di uno stupido scherzo, come se fosse stato messo in mezzo a qualcosa che lui non gradiva. La voce squillante di Ven, però, mi fece perdere la linea del mio pensiero e mi ritrovai a sorridere con un ebete al mio ragazzo.
«Sorpresa!»


 
Sono. Ufficialmente. Fottuto.
Questo fu l’unico pensiero che la mia mente formulò quando mi ritrovai la figura di Celeste Fiore, alias la mia ragazza, alias l’unica persona che non aveva ancora capito chi fossi, davanti agli occhi. Come diavolo aveva fatto a sapere della partita di beneficenza?
«B-Bello!» Incespicai.
Subito un sopracciglio biondo le si inarcò, e le braccia le si incrociarono al petto. Brutto segno. Anzi, bruttissimo.
«Hai visto? Siamo venuti a trovarvi, non sei contento?» Rispose la Tappa, puntandomi quegli occhi indagatori addosso e facendomi sentire come un uovo di cioccolato il giorno prima di Pasqua. «Perché non ci avevi detto che eravate qui?» Insistette.
«Già. Perché?» Si aggiunse Celeste, assottigliando lo sguardo e cominciando a sbattere la punta delle sue All Star sull’erba sintetica del campo.
Ora ero ufficialmente fottuto.
Per quale motivo non l’avevo invitata alla centocinquantesima partita di beneficenza sponsorizzata dalla società in favore del reparto pediatria dell’ospedale Bambin Gesù di Roma? La risposta era più che ovvia. Leonardo Sogno sarebbe stato l’ospite d’onore della cerimonia. e per quanto avessi desiderato che Celeste mi accompagnasse in questa noiosissima giornata trascorsa stando dietro a dei marmocchi, non l’avevo avvertita perché altrimenti c’era il rischio che scoprisse ogni cosa. Mi ero salvato per miracolo poco prima, vedendola sugli spalti insieme ai miei fan. Fortunatamente Ruben indossava la stessa tuta della Magica e lo scambio di persona avrebbe retto il gioco all’ormai incrollabile Torre di Bugie che stavo costruendo. Se non avessi dovuto tenere per me quelle scappatoie, tutti mi avrebbero fatto i complimenti perché i colpi di genio erano sempre più frequenti e mi scocciava che l’unico testimone della mia furbizia fosse Ruben. Celeste sarebbe stata fiera di me se l’avesse saputo.
Peccato che tutti le intuizioni servono solamente a tenerla all’oscuro sulla tua professione. Manco facessi il becchino, la pornostar o, peggio, lo gigolò.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Domandò quella Ven-Non-So-Cosa, avanzando di un passo.
«Si può sapere perché non mi hai chiamata? Ti vergognavi di me? Dovevi per caso incontrarti di nascosto con qualche gallina decerebrata?» Mi attaccò subito Cel, sparando domande a raffica.
Deglutii a fatica e cercai l’aiuto del mio Ego.
Ah, guarda chi è tornato strisciando.
Smettila, mi serve una balla.
Cosa ti avevo detto riguardo alla biondina? Dovevi lasciarla perdere quando eri ancora in tempo per svignartela.
Quanto la fai lunga, mi serve unicamente l’ennesima bugia per salvarmi il culo.
Mah, non so. Non è che mi fidi molto dopo che mi hai voltato le spalle.
Guarda che posso anche rivolgermi a tuo cugino.
No, non oseresti.
Vuoi sfidarmi?
Va bene, va bene, ma lasciamo il Buon Senso fuori da tutta questa storia. Dunque, ti serve una balla. Vediamo. Beh, è ovvio! Basterà dirle che non l’hai invitata solamente perché odia il calcio e quindi la partita non le sarebbe interessata.
Grande!
Lo so, modestie a parte sono il tuo Ego.
«Beh, p-perché io sapevo che il calcio non ti interessava.» Tagliai corto.
Ora rincarerei la dose con un’altra domanda.
«Mi sorge spontaneo un dubbio,» dissi, ritrovando un po’ di spavalderia. «Perché tu sei qui se le partite ti fanno schifo?».
«È quello che le sto chiedendo da quando siamo usciti.»Commentò Robbeo, grattandosi la nuca nel modo più scimmiesco che avevo mai visto.
Celeste per un momento perse quella sicurezza che nascondeva nello sguardo quando aveva cominciato a fare domande, ma ben presto la gnappetta arrivò in suo soccorso.
«Beh? Non può aver voglia di vedere il suo ragazzo? Ha bisogno di un invito scritto?» Puntualizzò acida, e io desiderai con tutto il cuore che tornasse a Puffolandia.
Stavo per risponderle per le rime, quando una mano si posò sulla mia spalla e ritrovai gli occhi semichiusi del vero Ruben che mi cercavano.
«D-Do-Do-Dobbi-Dobbiamo an-andare a-al r-ri-rice-ricevimento.» Tentò di dire, indicando una villetta immersa nel verde, proprio nel mezzo del centro sportivo.
Sbuffai, ricordando amaramente che una volta partecipato alla partita di beneficenza, mi sarei dovuto sorbire due ore di chiacchiere da salotto con alcuni dirigenti della Roma e di altre società, tra cui gli sponsor della squadra.
«Va bene.» Brontolai, poi mi voltai verso la mia ragazza. Di certo non indossava un tailleur di Chanel e nemmeno un qualsiasi capo d’abbigliamento che potesse in qualche modo andare bene con la cerimonia cui avremmo partecipato, ma d’altronde anche io ero in tuta, non dovevo fare troppo lo schizzinoso. Celeste non era la solita ragazza, lo avevo sempre saputo. Se avessi voluto fare bella figura alla festa, avrei rimorchiato uno schianto di modella con le gambe lunghe dieci chilometri e un’arachide al posto del cervello.
«Vuoi venire con me?» Le domandai, allungando una mano e porgendogliela.
Immediatamente quegli occhi grandi come due biglie color del cielo si spalancarono e quel poco di lucido che era rimasto nella mia mente, si annebbiò del tutto. Ogni sua mossa mi spiazzava, ogni suo gesto era una continua sorpresa per me. Giorno per giorno, scoprivo un nuovo lato del suo carattere: la Celeste Fiore acida e arrogante, la Celeste Fiore cinica e maniaca della pulizia, la Celeste Fiore scrittrice, la Celeste Fiore imbarazzata, la Celeste Fiore innamorata… di me.
«Ma… non ho nulla di adatto.» Soffiò, guardandosi amaramente le scarpe da ginnastica sporche e consunte.
L’afferrai per la mano prima che potesse sfuggirmi. «Per me sei perfetta.» Ridacchiai, facendola arrossire.
«Ma a ‘sto posto se magna? Perché c’ho ‘na fame che sto pe’ svenì.» Borbottò Romeo, avvicinandosi e scrutando la villetta alle mie spalle.
«Dovrebbe esserci il buffet.» Risposi, non troppo sicuro.
«O-Of-Off-Offrono lo c-cha-champagne.» Aggiunse Ruben, sorridendo timidamente quando Venera lo afferrò sottobraccio.
«Allora cosa stiamo aspettando?» Disse poi, incamminandosi e facendoci strada.
Romeo scrollò le spalle e si infilò le mani in tasca, curvando la schiena e assomigliando quasi ad uno di quegli appendiabiti sbilenchi. «Basta che se magna.» Commentò e noi lo seguimmo.
L’interno della villetta era addobbato a festa. Le pareti erano interamente sostituite da grandi vetrate da cui si poteva ammirare tutto il centro sportivo mentre gli ospiti sorseggiavano flûte di champagne e parlottavano d’affari. Ero sicuro che sarei morto di noia se Celeste non fosse venuta lì con me, considerando che quella era più che altro una riunione per dirigenti.
«E tu vai di solito a queste feste?» Chiese Celeste sbalordita, guardandosi intorno come se non avesse mai partecipato ad un ricevimento.
Feci spallucce. «Se Leonardo mi fa imbucare, sì. Se magna a gratisse.»
«Sei il solito ignorante.» Commentò acida, fissandomi di sbieco, poi il suo sguardo tornò agli ospiti che ormai avevano notato la mia presenza.
Era ufficiale: ci stavano fissando.
«Lo sapevo!» Commentò Celeste, lisciandosi i jeans alla bell’è meglio. «Sapevo che questi vestiti non erano adatti!»
Si agitava nervosa, attirando ancora di più l’attenzione degli ospiti su di noi. La presi per mano e la condussi in un angolo della sala, mentre vidi gli altri sparpagliarsi tra la folla e Robbeo che assaliva letteralmente il buffet.
«Vuoi qualcosa da bere?» Le chiesi, almeno per impiegare un po’ il tempo.
«No.» Sbuffò lei, puntando quelle iridi cristalline sulle ragazze in abito da cocktail sparse per la sala. Era evidente che mi mangiassero con gli occhi mentre ciarlavano tra loro, ma io non avevo dato il minimo peso a quegli sguardi.
«Ehi, che hai?» Le domandai, vedendola inquieta.
«Voglio andarmene, non mi piace il modo in cui mi guardano queste persone,» sbuffò. «Sembra che aspettino solo di buttarmi fuori a pedate.»
«Se è per questo, dovrebbero cacciare anche me!» Ridacchiai, tentando di allentare la tensione.
Le strappai un sorrisetto, dopodiché non potei fare a meno di notare tra la folla lo sguardo del signor Cavalli che mi scrutava. Non avevo idea che anche il presidente della A.S. Roma in persona avesse partecipato a quel meeting, ma non potevo certo avvicinarmi col rischio che Celeste potesse scoprire tutto.
«Chi è quel vecchio che ti fissa?» Commentò subito lei.
Certo non le sfuggiva niente, era peggio di un segugio. «Diciamo che è un…»
«Fuel fizio non è alfro fe il frefidenfe fella Fagifa!» Mi anticipò Robbeo, con la bocca stracolma di pizzette. Oltre ad aver le guance piene come quelle di un criceto obeso, teneva stretto tra le mani un piatto di carta strabordante di leccornie e lo difendeva dallo sguardo sconcertato degli altri ospiti come se fosse valso la sua stessa vita.
«Quindi quella mummia tiene in piedi tutta la baracca?» Chiese Celeste sconvolta.
Stavo per risponderle, quando notai una chioma fulva spuntare alle spalle del suddetto vecchio. Gli occhi verde acqua di Annalisa mi immobilizzarono e annaspai alla ricerca di qualsiasi scappatoia le impedisse di incrociare lo sguardo con Celeste. L’ultima volta che aveva avuto a che fare con la mia ragazza, aveva tentato di tutto per raccontarle la verità e non potevo rischiare di perdere Celeste ora che finalmente le cose andavano per il verso giusto.
Era mai possibile che non potevo godermi un momento in santa pace con la mia ragazza?
«Forse sarebbe meglio andare.» Tentennai.
«Perché? Proprio adesso che avrei l’onore di conoscere uno che spreca i suoi soldi dietro a rinoceronti che corrono appresso ad una palla.»
Troppo tardi.
Annalisa avanzò imperiosa, facendosi largo tra la folla senza mai perdere l’equilibrio dai tacchi vertiginosi su cui camminava. Il suo fisico snello era fasciato da un vestito azzurro, in netto contrasto con il rosso fiamma dei suoi capelli, ma qualunque uomo in quella sala si era voltato a guardare la figlia del presidente della società.
Con il viso rivolto verso l’alto e il portamento fiero, Annalisa stava per raggiungerci con una camminata che avrebbe fatto invidia a Naomi Campbell. Cercai la mano di Celeste e la strinsi, sperando con tutto me stesso che la Cavalli non avesse davvero intenzione di spiattellare tutta la verità alla mia ragazza. Celeste meritava di sapere chi ero in realtà, ma sarei stato io a dirglielo.
«Che vuole quella?» Chiese, notando subito Annalisa che avanzava verso di noi.
«Non ne ho idea.» Mentii.
Ormai era a pochi passi da noi, decisa a vendicarsi per quel mio rifiuto. Non avrei mai pensato che quell’incontro di beneficenza pomeridiano si sarebbe trasformato nella disfatta di Leonardo Sogno, e se avessi saputo prima che anche Annalisa-La-Piattola vi avrebbe partecipato, avrei preferito fare le calzette a maglia con mia nonna piuttosto che scavarmi la fossa da solo.
«Perché non tagliamo la corda finché siamo in tempo?» Domandai speranzoso a Cel.
Ovviamente mi beccai un’occhiata tagliente da parte della mia ragazza, con tanto di stritolamento di manco annesso. «Voglio proprio vedere cos’ha da dirmi quel manico di scopa rinsecchito!»
Rimasi sorpreso dalla risposta di Celeste e una parte di me non poté che gongolare a quella sua reazione. Era gelosa di Annalisa, del modo con cui mi si avvicinava al sottoscritto e quel suo gesto mi ricordò una mamma orsa con i suoi cuccioli. Guai a chi glieli avrebbe toccati.
«Sei gelosa?» Sghignazzai, desideroso di sentirglielo dire direttamente da quelle sue labbra morbide e invitanti, in risposta, però, mi beccai una gomitata sullo stomaco.
«Così impari a gonfiare quell’ego spropositato che ti ritrovi.» Commentò.
Era fatta. Annalisa aveva superato le ultime due ragazze che la fissarono come se volessero incenerirla, dopodiché puntò dritta verso di me. Strinsi forte la mano di Celeste e chiusi gli occhi, incapace di andare concretamente in contro a quello che mi sarebbe spettato di lì a pochi minuti. Già mi immaginavo Annalisa che gongolava, Celeste che mi fissava incredula e disgustata, la sua amica tappa che le urlava contro un “Te l’avevo detto” grosso come il Canada ed io, che a fine serata, sarei rientrato a casa come se non fosse affatto passato un mese. Sarei stato solo, di nuovo.
Forse era anche questa paura che m’impediva di affrontare la verità, forse mi ero talmente abituato ad avere Celeste, Romeo e Venera intorno che mi era quasi impossibile farne a meno. Prima c’eravamo solamente io e Ruben, noi e il mio successo. Invece adesso era come se tutti noi facessimo parte di una grande famiglia, dove i problemi dei singoli diventavano quelli di tutti, e dove ci si aiutava l’un l’altro.
Tutti tranne Annalisa. Ero sicuro che lei volesse la mia morte.
Sentivo distintamente il suo tacco 12 che rumoreggiava sul pavimento di parquet della villetta mentre il cuore batteva all’impazzata nel mio petto. Il resto del mondo era scomparso in un istante. C’eravamo soltanto io, Celeste e la verità che rimbalzava tra i nostri due corpi senza mai voler essere assorbita da nessuno dei due.
È finita, pensai, ma quando avvertii distintamente il suono delle decolté di Annalisa oltrepassarci e la mano di Celeste allentare la stretta sulla mia, mi rimase unicamente un vago odore di Chanel n°5 sotto il naso, prima che riaprissi gli occhi e la vedessi puntare come una furia in direzione del buffet.
«Ma che…?» Riuscii solamente a farfugliare, mentre osservavo la scena a rallentatore.
L’unico essere umano incollato al tavolo delle vivande era Romeo e la sua attenzione era totalmente rapita dai bignè alla crema impilati a formare una piramide egizia. Non sapeva più dove metterli, ma era sicuro che doveva arraffarne il più possibile. Non la vide nemmeno arrivare, ma quando si voltò e ritrovò quegli occhi verde mare nei suoi, per poco non gli finì tutto di traverso.
La rossa caricò il colpo e ammollò uno scappellotto a Robbeo che risuonò per tutta la sala e attirò l’attenzione dei presenti.
«Come si permette?!» Ringhiò Celeste, pronta a difendere l’altro suo cucciolo, ma io la bloccai. C’era qualcosa di strano nell’aria, e non si trattava del costosissimo profumo di Annalisa. Mi aveva palesemente ignorato, per la prima volta da quando mi aveva messo gli occhi addosso e non era affatto da lei.
«Sembra che stiano litigando.» Dissi a Cel, osservandoli da lontano.
Erano l’attrazione principale del ricevimento, con il volto di Romeo che era diventato paonazzo a causa di un cannolo che gli era andato di traverso. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime, poi cominciò a tossire mentre Annalisa lo riempiva di pacche fin troppo energiche sulla schiena.
«Possibile che sei così impiastro?» Lo apostrofò, afferrandolo poi per la T-shirt e trascinandolo sul retro della sala.
L’attenzione si era totalmente spostata su quei due e finalmente potevo ritenermi ‘salvo’ dalla Santa Inquisizione di quel pomeriggio d’Aprile. La mia mano era ancora stretta in quella di Celeste, ma lo sguardo azzurro della mia ragazza era puntato sulla soglia dove era sparito il suo migliore amico.
«Che diavolo è preso a quei due?» Domandò esterrefatta, spostando le sue iridi su di me e chiedendomi una spiegazione.
Non avevo idea di dove cominciare, visto che ne sapevo tanto quanto lei. Il comportamento di Annalisa mi aveva totalmente spiazzato e mi sarei giocato perfino le mutande sul fatto che era partita con l’intento di raccontare ogni cosa su di me a Celeste. Eppure la sua attenzione era stata catturata dalla chioma fulva di Romeo e il cervello della Cavalli evidentemente aveva svalvolato.
«Non ne ho idea.» Le risposi, grattandomi il mento.
C’era un qualcosa che mi sfuggiva in tutta quella storia, come se avessi omesso un particolare che non riuscivo affatto a collegare. Era come nel film di Dario Argento, Profondo Rosso, quando per tutta la storia, il protagonista tenta di trovare l’assassino, ma soltanto alla fine si ricorda del suo riflesso nello specchio.
Scrollai le spalle, e mi dissi che non erano affari miei. La nota positiva di tutta quella faccenda era che finalmente Annalisa-La-Piattola si era scollata dal sottoscritto e fino a quando avesse tenuto il becco chiuso, per me poteva anche seppellire Robbeo.
«Eccoti, ragazzo mio.» Disse una voce, facendomi voltare.
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva, mentre davanti a me ritrovai il volto rubicondo di Giampiero Cavalli, presidente della A.S. Roma, nonché padre di Annalisa.
«S-Salve!» Tentennai, cominciando a sudare freddo.
Celeste si dimenticò per un attimo della scenata di Robbeo e tornò ad essere pericolosamente sospettosa. Camminavo su un filo di un rasoio, in bilico tra la vittoria e la sconfitta. Cominciavo davvero a non sopportare più tutta questa tensione, era quasi peggio della finale di Champions League e se avessi continuato di questo passo, ero sicuro che mi avrebbero ricoverato per un esaurimento nervoso.
«Sei sfuggente questo pomeriggio,» commentò il signor Cavalli. «Capisco che questi incontri di beneficenza possano annoiare un campione come te.»
Ecco, stava prendendo la vanga.
«Sono più che altro dei meeting fra noi dirigenti, quelli che tengono in piedi la baracca,» ridacchiò.
Ora stava cominciando a scavare una bella buca.
«Ma dimmi, chi è questa incantevole fanciulla?» Chiese infine, spostando lo sguardo su Cel, livida di rabbia.
Ero sull’orlo del precipizio sul cui fondo era adagiata una bella bara di legno, che avrebbe accolto le mie membra prive di vita, una volte che Celeste Fiore avesse scoperto tutto. Dannato vecchiaccio che non sapeva tenere la bocca cucita, possibile che tutta la famiglia Cavalli – anche inconsapevolmente – marciava contro di me?
«Mi chiamo Celeste e sono la sua ragazza,» disse senza alcun imbarazzo, stringendo la mano grassoccia del padre di Annalisa.
«Sei giovane, avrai sì e no l’età di mia figlia.» Sorrise, poi sospirò, cambiando espressione. «È un po’ di tempo che si comporta in modo strano, come se mi nascondesse qualcosa. Passa intere giornate fuori casa e Dio solo sa dove passa il tempo.»
Né a me né a Celeste interessava molto la vita privata della Piattola, ma almeno il sottoscritto doveva fare buon viso a cattivo gioco. Era pur sempre il mio capo, gli dovevo almeno un po’ di rispetto.
«Prima l’ho vista trascinare via un suo amico.» Dissi, riferendomi a Celeste.
Gli occhi del signor Cavalli si spalancarono dalla sorpresa. «Il Rosso è amico tuo?»
La mia ragazza sbuffò. «Già… anche se è difficile ammetterlo. È il mio migliore amico.»
Avrei volentieri continuato a conversare con il Presidente, ma sentivo il bisogno di districarmi da quella conversazione che avrebbe potuto prendere una brutta piega. Cercai Ruben con lo sguardo e tentai in tutti i modi di fargli capire che sarebbe dovuto intervenire.
Alla fine di quella storia avrei dovuto costruirgli una statua.
«S-Si-Si-Signore,» balbettò intervenendo nella conversazione. «Vo-Vo-Vorrei p-po-portare alla s-su-sua att-atte-attenzione un n-nuo-nuovo s-sche-schema…»
In quel momento afferrai la mano di Celeste e la condussi dov’erano spariti il Rosso e quella matta di Annalisa.
«Ehi ma cosa…?» Si lamentò lei, ma io le feci cenno di fare silenzio.
«Non sopportavo più quel tizio, dovevo liberarmene,» sghignazzai.
Celeste incrociò le braccia al petto e mi fissò in tralice. «A cosa si riferiva prima?»
«Prima quando?» Esclamai, sentendo la gola secca.
«Quando ti ha chiamato Campione. O forse te lo sei dimenticato, tronfio come sei...» Ringhiò.
Per quale motivo mi ero messo con la ragazza più perspicace di tutto il pianeta Terra? Più andavo avanti e più pensavo di essere masochista, visto che mi andavo ad impelagare in situazioni a dir poco assurde.
«I-Intendeva per la competizione fioristica,» annaspai in cerca d’aria.
«Floreale, Ruben… è floreale. Quante volte devo ripetertelo?»
«Sì, come dici tu.»
Non sembrava soddisfatta, affatto. «E tu vuoi darmi a bere che il presidente di una società così importante segua le tue assurde competizioni floreali di cui nessuno ha mai sentito parlare?»
«Sì,» risposi a monosillabi.
«Cosa?»
Sembrava stessimo facendo il gioco delle venti domande ed io non sapevo più come uscire fuori da questa situazione.
«È un appassionato di fiori,» sputai, sparando la prima cosa che mi venne in mente.
Celeste sembrò sul punto di esplodere, quando avvertimmo delle voci ed io la trascinai con me sotto un tavolo nelle vicinanze, coperto da una tovaglia lunghissima.
«Ma che diavolo ti prende?»
Era la voce di Robbeo chiara e distinta. Cercai con lo sguardo Celeste ma, come me, era completamente sbalordita.
«A me?» Sbottò un’altra voce. Annalisa. «Vuoi dire cosa prende a te? Ti sei forse dimenticato cosa dovevamo fare ieri? Sono rimasta un’ora ad aspettarti, poi sono andata al centro commerciale da sola!»
Centro commerciale… ieri… da quando quei due si frequentavano?
«Mi sono dimenticato.» Fu la scusa di quel tonto di Robbeo.
Te pareva. Non era mica il campione in carica di cazzate come il sottoscritto. Modestia a parte, stavo per battere un nuovo record.
«Ah! Ti sei dimenticato, eh?» Tuonò Annalisa, evidentemente più infervorata di tutte le volte in cui l’avevo vista. Anche se non potevo osservarla per via della tovaglia, ero sicuro che il suo viso fosse livido di rabbia e rosso tanto quanto il colore dei suoi capelli. «Posso infrangere il nostro patto quando voglio. Mi hai promesso che se avessi lasciato in pace il bellimbusto, avresti fatto ogni cosa, saresti stato disponibile sempre. Sei il mio schiavetto adesso, te ne sei dimenticato?»
Sgranai gli occhi e per poco non caddi all’indietro contro la parete, sbattendo la testa. Annalisa era una pazza, ecco cos’era e Romeo non era da meno. Cosa gli era saltato in mente? Fare un patto con quel demone dalle sembianze femminili era un’idea da pazzi e lui aveva scelto la soluzione peggiore.
“Ma io a quella l’ammazzo!”, sussurrò Celeste a bassa voce, tentando di uscire da sotto al tavolo. La fermai appena in tempo, anche perché se si fossero scoperte le carte in tavola, ci sarei andato di mezzo, ne ero più che sicuro. Romeo mi aveva salvato il culo ancora una volta, riuscendo a tenere a bada quella specie di gallina viziata.
Ancora una volta la mia famiglia si era sacrificata per me e Celeste, perché credeva in noi.
«No, non l’ho dimenticato.» Ammise il Rosso.
Da quella posizione potevo soltanto vedere le scarpe di entrambi: le Chanel laccate di nero di Annalisa e le consunte Superga rosso vermiglio di Romeo. Erano vicini eppure così diversi, sembrava provenissero da un altro pianeta. Se non fosse stato per me, una ragazza del calibro della Cavalli non si sarebbe nemmeno avvicinata ad uno come Robbeo, che andava in giro con una macchina risalente al periodo napoleonico.
«Bene, allora vedi di seguirmi che oggi ho un po’ di giri da fare e devi essere il mio chauffeur. Saluta i tuoi amichetti di là ed io ti aspetto sul retro, ho la Porche parcheggiata proprio davanti all’uscita.» E detto questo se ne andò, rumoreggiando col suo tacco 12.
Fu quello il momento esatto in cui non riuscii più a trattenere Celeste che sbucò da sotto il tavolino e si avventò sul Rosso.
«Ehi, ma...?» Riuscì solo a bofonchiare, prima che una furia bionda non gli piombasse addosso.
«Si può sapere cosa ti è preso, razza di zuccone?!» Tuonò Celeste infervorata.
«Io? Tu? Cosa?»
«Abbiamo ascoltato tutto,» sbuffai imbarazzato.
Certo, non avevamo fatto una bella figura sgusciando fuori da sotto il tavolo come degli spioni. Fortunatamente si trattava di Robbeo e non di qualsiasi altro essere umano.
«Ah…» Mugugnò. «Non è come pensate.» Si affrettò subito ad aggiungere.
«E come sarebbe, sentiamo?» Intervenne immediatamente Celeste, più battagliera che mai.
Romeo si ritrovò senza parole, come succedeva sempre quando avevi Celeste Fiore davanti agli occhi con le orecchie fumanti e un’espressione arcigna.
«È complicato,» soffiò solamente. «Scusatemi, adesso devo andare.» E sparì dall’uscita sul retro.
Rimanemmo a fissare la porta a vetri ancora aperta mentre i capelli fulvi di Robbeo spiccavano in contrasto col verde del prato su cui si affacciava la villetta.
«Ma che gli prende?» Domandò Celeste sbigottita.
«Non lo so, ma io taglierei la corda, anche perché me so’ rotto de sta qui.» Commentai stufo.
Ci sarebbe stato tempo per giocare alle spie con Romeo e Annalisa, adesso tutto quello che volevo era passare un po’ di tempo da solo con la mia ragazza.
Le posai una mano attorno alla vita e l’attirai verso di me. Celeste non fece resistenza, anche perché la sorpresi con quel mio gesto, poi la feci indietreggiare fino alla parete e la intrappolai col mio sguardo. Le scostai una ciocca di capelli dal viso e la vidi arrossire, ancora.
«Che ne dici se lasciamo questo noiosissimo party e ce la svignamo da qualche parte? Solo io e te?» Ridacchiai, avvicinandomi e dandole un bacio a fior di labbra.
Celeste si mordicchiò il labbro e cercò ancora un contatto. «Ho voglia di svignarmela con te.» Ridacchiò.
Le afferrai la mano e insieme corremmo al di fuori della villa, stando attenti a non dare nell’occhio. Fuori il sole aveva lasciato il posto a dei nuvoloni neri, perciò ci sbrigammo a raggiungere il parcheggio. L’Audi TT bianca spiccava tra le altre autovetture, ma quella più in vista era color rosso ruggine e aveva il parafango tenuto su dallo spago e dallo scotch.
Con un gesto abitudinario mi tastai le tasche della tuta, alla ricerca del mazzo di chiavi, quando realizzai che ce l’aveva Ruben. Ero talmente abituato a farlo guidare ormai, visto che vestiva i panni di Leonardo, che ora mi ritrovavo appiedato e un grande senso di sconforto mi pervase le membra.
«Che hai?» Mi chiese Celeste.
«Non ho le chiavi della macchina, dannazione!» Ringhiai, furente verso me stesso.
Celeste mi afferrò per il braccio e sorrise. «Aspetta.»
Mi trascinò fino al famoso bolide di Robbeo e si chinò, infilando la mano sotto il parafango. Che diamine stava facendo?
«Il pandino ha sempre una chiave di riserva, dal momento che quel cretino di Romeo la perde un giorno sì e l’altro pure.» E dopo due tentativi tirò fuori trionfante una chiave piena di scotch da pacchi. «Ecco qua, adesso possiamo andarcene.»
«E il Rosso?» Chiesi, domandandomi come avrebbe fatto a tornare a casa.
Celeste fece spallucce. «Per me può anche dormire nel portabagagli della spider di quella strega,» sentenziò. «Lo odio quando si comporta da decerebrato.»
Afferrai la chiave che Cel mi porgeva, dopodiché aprii la portiera che cigolò e salimmo all’interno della panda. Una nuvola di polvere si alzò come al solito, facendomi tossire, dopodiché impiegammo circa una decina di minuti per mettere in moto quella specie di catorcio.
«Devi dargli un colpo più preciso!» Specificò Celeste.
«Non imparerò mai…» Sbuffai sconsolato.
«Ma sì, sei bravissimo!» Se ne uscì, fissandomi poi con gli occhi sgranati.
«C-Cosa hai detto?» Le chiesi, non troppo sicuro di cosa avevano udito le mie orecchie. «Era per caso un complimento quello?»
Cel arrossì e abbassò lo sguardo. «Hai capito male. Ho detto che sei un troglodita.»
«No, no! Hai detto che sono bravissimo!» Esultai sorridente, sporgendomi verso di lei.
La mia ragazza si schiacciò ancora di più verso la portiera d’acciaio rosso, avendo timore di cosa potessi farle. «Ora tutto sta nel scoprire in cosa sono davvero così bravo…» Allusi malizioso.
Desideravo le sue labbra, quel suo profumo che non riuscivo più a togliere dai vestiti, quel suo modo di fare e tutti i tentativi che avrebbe fatto per respingermi. Mi sporsi al di là del sedile e posai una mano sul vetro del finestrino, costringendola a schiacciarsi contro il sedile polveroso.
«C-Che fai?» Mi chiese, deglutendo a fatica.
Era ovvio che Leonardo Sogno facesse un certo effetto alle ragazze, ma esercitare tutto il mio fascino con Celeste era qualcosa che mi allettava profondamente. Il modo in cui riuscivo a farle abbassare le difese, a renderla così vulnerabile, a zittire finalmente il cervello e quella sua lingua insolente che mi avrebbe preso a male parole.
Infossai il viso nell’incavo del suo collo, poi soffiai facendole venire i brividi. «Secondo te? Eppure una scrittrice dovrebbe essere piena di immaginazione…»
«Potrebbero v-vederci…» Mugolò lei, intrecciando una mano nei miei capelli.
Mi alzai dal suo collo per incrociare quegli occhi azzurri, liquidi come il mare d’estate e la sua pelle che profumava di sole. La volevo con tutto me stesso, con lei dimenticavo persino il mio nome, addirittura la partita con l’Arsenal che avremmo avuto tra due settimane esatte.
Simone.
Quel nome guizzò nella mia mente come una spada e vi si radicò quasi come un parassita, succhiando e nutrendosi di tutta la leggerezza che avevo accumulato in quel momento. Avevo completamente rimosso la partita di Champions che avrebbe costretto la squadra a passare quattro giorni nella Capitale inglese e non avevo minimamente pensato al modo di dirlo a Celeste. Di certo una delle mie solite scuse non avrebbe funzionato, anche perché una competizione fioristica a Londra era del tutto incredibile, e persino un Robbeo avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. Dovevo inventarmi qualcos’altro, una bugia più credibile.
«Che hai?» Mi chiese lei, vedendomi momentaneamente assente.
«Nulla, hai ragione. Potrebbero vederci.» Soffiai, ritornando al mio posto e accendendo finalmente il motore di quella carretta.
Dopo i vari lamenti delle sospensioni e del cambio che non ne voleva sapere di ingranare la retromarcia, riuscimmo ad uscire dal parcheggio del Centro Sportivo Gianicolo, così m’immisi in Via del Casaletto per poi raggiungere la Gianicolense.
«Dove andiamo di bello?» Mi chiese lei, guardandomi con occhi speranzosi.
Era la prima vera uscita che avremmo passato da soli, salvo altre interruzioni da parte di nonne/amici/ex-fidanzati. Avrei dovuto cercare qualcosa di veramente romantico e dolce, qualcosa avremmo ricordato per sempre.
Quanto sei melenso oggi. Sembra di sentir parlare Rossella O’Hara.
Taci.
Imboccammo una via secondaria e passammo dietro al Colosseo, imboccando il Muro Torto e cercando di raggiungere Villa Borghese. Sapevo che era scontato come posto, ma avevo assoluto bisogno di passare un po’ di tempo con Cel, lontano dal mio mondo e da tutto il resto. Un attimo di respiro, una boccata d’aria che mi avrebbe momentaneamente allontanato dalle mie responsabilità.
Parcheggiai il bolide poco dopo Piazza di Spagna e ci trovammo di fronte ad un paesaggio mozzafiato che ritraeva la Capitale in un pomeriggio uggioso di Aprile. La ghiaia bianca sotto i nostri piedi scricchiolava, mentre il cielo cominciava a scurirsi non solo per i nuvoloni neri addensati sopra le nostre teste. Era quasi il crepuscolo e a Villa Borghese c’erano poche persone sedute sulle panchine, oppure intente a passeggiare.
Cercai la mano di Celeste e lei la strinse nella mia. «Certo che Roma è magica» sospirò estasiata.
«È la mia città.» Le dissi orgoglioso, mentre lei mi fissava con un sopracciglio alzato.
«Riecco il Ruben megalomane,» sghignazzò.
Come potevo spiegarle che sentivo la Capitale come se fosse parte di me? Le sue strade erano le mie ossa, il Tevere era il sangue che scorreva placido nelle mie vene, i palazzoni facevano parte della mia pelle ed ogni fibra del mio corpo urlava Roma Caput Mundi. Non solo perché Roma era una squadra, ma soprattutto perché era la mia squadra. Era una casa, una sorella, la mia unica e sola famiglia da quando mio padre aveva deciso che dovessi fare il calciatore.
«Fortuna che ho te al mio fianco che non perdi occasione di sgonfiarmi.» La rimbeccai, puntandole l’indice contro.
«E questo cosa sarebbe?» Ridacchiò lei, afferrando il dito come un gatto con un piumino.
«È il famoso indice pungolante di Celeste Fiore. Funzionante al cento per cento e testato sul sottoscritto. Mi hai fatto venire un livido qui a forza di colpirmi.» Le dissi, tirandomi giù la zip della tuta e facendole vedere una porzione di pelle.
Lei mi fissò con gli occhi a mezz’asta. «Sei proprio un frignone, andiamo!» Sospirò, prendendomi per mano e incamminandosi all’interno della Villa.
Incrociammo immediatamente un giardino fiorito, poi ci addentrammo scovando una fontana illuminata dai faretti notturni. I nostri passi rumoreggiavano nella ghiaia, attirando l’attenzione delle altre coppiette sedute sulle panchine. Fortunatamente la penombra e l’ebbro di quella magica serata contribuivano a distrarre l’attenzione dei presenti dal sottoscritto, mentre tentavo in tutti i modi di arrovellarmi per risolvere la situazione della trasferta.
Avrei dovuto chiedere al Mister di lasciarmi qui? No, non se ne parlava. I quarti di finale di Champions erano troppo importanti e la partecipazione di Leonardo Sogno a quell’evento non avrebbe fatto altro che darmi l’invito diretto a percorrere il palco per il ritiro del Pallone d’oro 2011. Cos’altro potevo inventarmi?
Se le chiedessi di accompagnarti, genio?
Quell’illuminazione mi aprì gli occhi e mi fece stringere ancor più energicamente la mano di Cel. Certo, avrei potuto chiederle di venire con me, di fare una sorta di fuga romantica. Però c’era ancora un problema, e anche grosso. Un problema dal nome Simone.
Sono più che sicuro che farà carte false per giocare contro di me, a costo di rimetterci il ginocchio.
Sei riuscito a tenere all’oscuro la biondina sulla tua identità nella città eterna, dove ti conoscono anche i sassi. Pensi di non riuscire ad evadere un paio d’ore senza che quel pallone gonfiato di tuo cugino si metta di mezzo?
Giusto. Ce la posso fare.
Arrivammo fino all’Orologio ad Acqua, al centro di Villa Borghese e Celeste si soffermò a guardare la piccola cascata che permetteva agli ingranaggi di segnare il perfetto orario utilizzando unicamente l’energia idrica. Mi chinai anche io, appoggiando i gomiti sulla ringhiera, però rivolsi lo sguardo alla mia ragazza, il cui viso era illuminato dai lampioncini.
«Che hai?» Mi chiese lei, imbarazzata.
Le sorrisi di rimando. «Volevo soltanto guardarti.»
«Smettila, mi fai sembrare cretina!» Borbottò, rialzandosi da quella scomoda posizione e nascondendo il viso tra i capelli biondi.
Quella volta però fui rapido e non le permisi di sfuggire al mio sguardo. Le posai entrambe le mani sulle guance e le sollevai il volto fino a quando i suoi occhi incontrarono i miei. Era il nostro primo, vero, appuntamento e quella notte sarebbe stata soltanto nostra.
«Voglio chiederti una cosa.» Dissi, cercando un po’ di coraggio.
Celeste ormai era in balia del mio sguardo ed io del suo. I nostri occhi erano come calamite, come due magneti che ogni qual volta s’incontravano dovevano unirsi. Sentivano il bisogno di farlo, di annegare l’uno nell’altro, non potevano vivere separati perché ormai erano abituati a cercarsi.
«Cosa?» Pigolò lei, posando le mani sui miei fianchi.
Quel momento era perfetto, quasi idilliaco. Il rumore dell’acqua in sottofondo, le luci soffuse dei lampioni e l’atmosfera della Villa più famosa di Roma a farci da testimone.
«Vorresti andare a Londra con me?» Le chiesi diretto, vendendo lo stupore dipingersi sul suo volto.
«C-Che?» Balbettò incredula.
Sorrisi a quella sua ingenuità, sapendo quasi per certo che non aveva mai lasciato l’Italia. «Simone mi ha chiesto di andarlo a trovare, perciò ho pensato di prenotare i biglietti per il 22 Aprile.»
«Ma… è tra due settimane!» Si rese conto.
«Già.» Le sorrisi, passandole un braccio attorno alle spalle e avvicinandola a me.
Sentivo il bisogno di un contatto, soprattutto in quel momento. Non sapevo se avrei retto bene un suo rifiuto, mi ero messo parecchio in gioco chiedendole di partire con me. Nessun compagno di squadra lo avrebbe fatto, soprattutto non dopo così poco tempo.
Celeste alzò il viso dal mio petto e affondò ancora una volta quei lapislazzuli nei miei. «Sei sicuro?» Chiese poi, spiazzandomi.
«Di cosa?»
«Di voler portare proprio me a Londra. Dev’essere una vacanza dispendiosa e noi ci conosciamo da così poco tempo e…» Ma io la zittii con un bacio.
Allacciò immediatamente le braccia attorno alle mie spalle ed io attorno alla sua vita, sollevandola un poco. Quel bacio richiedeva un maggior contatto, perché la voglia era tanta e c’era stato così poco tempo da passare insieme. Sentivo ogni parte del mio corpo tendere verso di lei, cercarla, starle accanto anche solo per fare presenza.
«Sei la mia ragazza, chi altro dovrei portare? Robbeo?» Le dissi poi scherzando.
La feci ridere e fu una delle rare volte in cui fummo veramente noi stessi, senza le bugie e senza la barriera che Celeste soleva costruirsi attorno.
«E com’è Londra? Bella?» Chiese, sorridendomi a trentadue denti.
Feci finta di pensarci su. «Sicuramente non quanto Roma, anche perché è la città dove è nato il sottoscritto…»
«Piantala di pavoneggiarti, pallone gonfiato!» Ridacchiò, cominciando a picchiarmi.
«Ahia!» Le risposi, poi la inseguii per vendicarmi.
Iniziammo a correre come dei deficienti, lasciando esterrefatte ogni persona che ci guardava. Agli occhi degli altri sembravamo due ragazzini un po’ cresciutelli che si rincorrevano tentando di acchiapparsi.
«Non mi sfuggirai!» La avvertii. «Sono molto più veloce di te!»
Lei si rifugiò dietro un albero. «Ed io sono più intelligente!»
Corremmo fino a quando i polmoni non ci bruciarono e le gambe non si indebolirono –almeno per quanto riguardava Celeste, visto che il sottoscritto era abituato a 90 minuti di andirivieni su e giù per il campo dell’Olimpico –, poi ci ritrovammo spiaccicati contro il bolide impolverato di Robbeo.
Avevamo il fiato corto, la gola secca, le membra tutte intorpidite, ma tutta quell’adrenalina mi aveva reso più famelico del solito. Incrociai il mio sguardo nel suo e vidi riflesso lo stesso bisogno che avevo io. In poco tempo annullammo la distanza che ci separava, dopodiché ci furono solamente i nostri baci. La schiacciai forse un po’ troppo violentemente contro la portiera della macchina cigolante e lei in un gemito soffiato mi accolse. Schiuse le labbra, cercò la mia lingua, intrecciò le dita nei miei capelli e li strattonò fin quasi a farmi male, tanto che ringhiai di disappunto.
«Dannazione, Cel…» Mi lamentai, massaggiandomi la nuca.
Lei mi sorrise come una gatta, puntando quelle sue iridi larghe e scure verso di me. «Sei il solito lagnone,» mi apostrofò ed io mi zittii. «Guarda.» Mi fece notare poi, puntando un dito al di là della mia spalla e indicando il cielo.
Mi voltai quel poco da vedere la coltre di nubi che si era diradata e lasciava intravedere una porzione di cielo limpido ed una luna tonda e gigantesca. Sembrava quasi un pallone da calcio e se ne stava lì, ferma e fiera, sospesa nel cielo di quella notte solamente per illuminarci. 

Sonate au claire de lune [L. Van Beethoven]
«È stupenda.» Riuscii solamente ad esclamare, ma non ebbi nemmeno il tempo di riorganizzare i miei pensieri che Celeste reclamò il mio viso e catturò nuovamente le mie labbra. Avevamo ognuno bisogno dell’altro ed era passato troppo tempo dall’ultima volta che c’era stato quella specie di incontro tra di noi.
Quando è crollato tutto.
Scacciai via quel pensiero perché avrei dovuto godermi ogni singolo momento di quella notte. Nulla andava sprecato e dovevo cogliere al volo ogni attimo, anche perché sarebbe potuto essere l’ultimo. Rischiavo troppo con tutte quelle bugie e avrei potuto perdere Celeste da un giorno all’altro. Il solo pensiero mi faceva male, troppo.
Afferrai la chiave del catorcio e tentai di aprire lo sportello senza staccare le labbra da quelle di Celeste, impresa un po’ impossibile visto che quella macchina era una specie di trappola.
Dopo tre tentativi e una mano da Cel, riuscimmo finalmente ad entrare nell’automobile, ma non ebbi nemmeno il tempo di sedermi che la mia ragazza mi si avventò addosso.
«Mi sorprende la sua intrepidazione, signorina Fiore» sorrisi malizioso.
«È intraprendenza, asino.» Ridacchiò.
Le scostai i capelli su una spalla e cominciai a mordicchiarle la pelle sotto l’orecchio, poi la leccai e le soffiai contro. «Adoro quando fai la maestrina.»
La sentii ridacchiare, poi quando i nostri occhi si rincontrarono non ci fu più spazio per le parole. Ancora una volta le sue mani si posarono sul mio viso, quasi a studiarne ogni piccola espressione, poi le sue labbra si avvicinarono soffici all’angolo della mia bocca.
«Mi piace quando sbagli le parole di proposito,» ammise sorridendo. «Lo so che lo fai soltanto per farti correggere, non sei stupido, anzi…» E lì si interruppe.
«Anzi, cosa?» Le chiesi, pregandola di andare avanti.
«Sapessi…» E continuò a fare la vaga.
Che ragazza bastarda che avevo, mi teneva sempre sulle spine!
«E dai!» Mi lagnai, posandole le mani sulle cosce che aveva allacciato attorno alle mie gambe.
Mi zittì con un bacio, posando le mani sulle mie spalle e facendo aderire il suo seno al mio petto. Un brivido lento mi percorse la spina dorsale e mai mi ero sentito così vivo con le altre. Quello che facevo con le modelle era più che altro un’attività sportiva, un qualcosa che scaricava la tensione accumulata con le partite, invece adesso mi sentivo coinvolto, non avrei mai voluto smettere.
Celeste si staccò da me e mi accarezzò il viso.
«Allora?» Le chiesi, sempre più cocciuto.
«Cosa?»
«Prima hai detto ‘anzi’ e hai lasciato i puntini di sospensione. Cosa vuol dire quell’anzi
Cel sbuffò e roteò gli occhi all’indietro. «Non vuoi proprio smetterla, vero?»
Negai con la testa fino alla morte. Volevo a tutti i costi sentirmi dire che ero speciale, che non ero il troglodita che pensava fossi all’inizio e non avrei ceduto a quella piccola vittoria.
A meno che…
«Ah…» Riuscii soltanto a mormorare, perché dalla mia bocca uscì solo fiato.
La mano di Celeste si era insinuata tra le sue gambe e si era stretta sul cavallo dei pantaloni della tuta, mozzandomi il respiro. L’aria mi mancò tutta insieme, mentre con gli occhi spalancati cercai il suo sguardo. Mi sorrise felina e cercò le mie labbra affamata.
Ammisi che quello era un buon metodo per farmi smettere di fare domande, così mi limitai ad allacciare le mani attorno alla sua vita e ad avvicinarla ancora di più a me. Ben presto quello spazio divenne troppo piccolo e troppo caldo. La luce della luna irradiava i nostri corpi, proiettando le ombre sui sedili posteriori mentre i vetri si erano appannati per il calore rinchiuso in quell’abitacolo.
Celeste si accomodò meglio sulle mie gambe e tirò giù la zip della felpa, scoprendo la maglietta della Roma che indossavo. I suoi occhi erano carichi di lussuria, ma stavolta non erano ottenebrati dall’alcol. Questa notte l’avrei avuta tutta per me, senza rimpianti. Feci risalire le mie mani sui suoi fianchi, slacciandole il giubbotto di pelle e lanciandolo chissà dove alle mie spalle. I nostri baci venivano interrotti unicamente dalla foga dei nostri movimenti, ai vestiti che lentamente si accatastavano sui poggiatesta, oppure sul cruscotto.
Le labbra di Celeste erano morbide come ricordavo, il suo sapore era buono, acre, quasi come l’odore della scorza di limone ma la sua pelle profumava come i fiori d’arancio. Tutto di lei aveva il sapore dell’estate e pregustai soltanto l’immagine di noi su una bella spiaggia.
Interruppe il nostro bacio per cercare ancora i miei occhi, poi mi costrinse a chiuderli lentamente e vi posò sopra le labbra.
«Hai degli occhi così belli,» mormorò tra un bacio e l’altro. «Alla luce del sole sembrano quasi dorati.» Sospirò, sfiorandomi le ciglia. «Ci sono delle pagliuzze d’oro, proprio qui, vicino all’iride.»
Non le diedi altro tempo per parlare. La desideravo con tutto me stesso, e non perché mi ripeteva quanto fossi bello... quello già l’avevo sentito fin troppe volte. Lei si soffermava sui particolari, sulle piccole cose che un corpo perfetto come il mio faceva passare come secondarie. Aveva ragione mia nonna: prima o poi sarei invecchiato e la mia bellezza sarebbe svanita. Celeste invece ammirava di me le piccole cose, quelle che non sarebbero mai cambiate.
Portai una mano sul suo seno e lo strinsi attraverso la stoffa della camicia, facendola sussultare e gemere tra le mie labbra, nel frattempo anche le sue mani si erano intrufolate sotto la stoffa della T-shirt e accarezzavano il petto delicate, come per paura di rovinarmi. Le slacciai i bottoni e affondai le labbra nell’incavo dei seni, mordendo, leccando e reclamando avidamente quel corpo che per la prima volta desideravo soltanto per me stesso. Era la prima ragazza che non mi sarei portato al letto subito, volevo assaporarla con calma, conoscere ogni sfumatura del suo viso, sapere quale fosse il suo colore preferito o se le piaceva fare colazione al letto.
«Oh, Ruben…» Soffiò, stringendo le dita attorno alla mia nuca e avvicinando le mie labbra al suo cuore.
Ebbi un sussulto a quel nome, desiderando con tutto me stesso il giorno in cui non lo avrei più udito uscire fuori dalle sue labbra.
Finii di slacciare i bottoni della camicetta e andai ad esplorare ogni centimetro di quel corpo che mi si era concesso solamente la sera della festa di Annalisa, forse il ricordo più brutto che potessi conservare. Quella notte avevo rischiato di perdere tutto e per la prima volta il mio cuore era stato calpestato con delle semplici parole dette con rabbia.
Strinsi possessivo una mano sul suo seno, forse troppo forte tanto che la feci urlare, ma volevo rimarcare il mio possesso, la brama che avevo di lei. Ormai ero fottuto, non potevo negarlo. Mi sentivo dipendente in tutto e per tutto da Celeste, qualsiasi cosa facessi.
«Mi fai male.» Ansimai, ormai senza più ossigeno nel cervello.
«Scusa.» Mormorò, allentando la presa sui miei capelli.
Io mi staccai dal suo morbido corpo per ricercare il suo sguardo. «Non dicevo per quello,» le sorrisi, dopodiché mi sfilai la maglietta e le posai una mano sul mio petto. «Lo senti?» Le dissi sincero.
«Sì,» soffiò timida. «Sembra impazzito.»
Cercai nuovamente le sue labbra, senza staccarle la mano dal petto. «Sei tu. Mi fai male, mi togli il respiro. Ogni volta, sempre.»
Non ci fu più spazio per le parole. Il resto furono solo baci, gemiti sommessi, sospiri appena accennati che riempirono l’abitacolo di quell’odore acre d’arancio che avrei ricordato per sempre.
Lentamente la sua mano si liberò dalla mia stretta, scendendo a solleticare gli addominali mentre con le mie labbra andavo a stuzzicarle un capezzolo fuoriuscito dal reggiseno.
«Ru-Ruben… ah!» Gemette, riversando la testa all’indietro.
Alzai lo sguardo, odiando quelle cinque lettere che non mi appartenevano. «Chiamami Chicco.» Le suggerii, cercando le sue labbra, le sue guance e poi la colonna abbronzata del suo collo.
Mi accarezzò la nuca, come avrebbe fatto con un bambino, dopodiché volle guardarmi negli occhi quando la sua mano s’insinuò pericolosa sotto l’elastico della tuta. Sgranai gli occhi e cercai di far uscire qualsiasi suono dalle mie labbra, invece soffiai solo aria calda, incapace di muovermi. Celeste mi guardò languida, con il viso per metà illuminato dal chiarore di quella luna che spiava i nostri movimenti, ingorda della passione che si respirava tra di noi.
«Scostati un po’.» Mi suggerì, afferrando i bordi dell’elastico.
Feci come mi aveva detto, posando le mani sul sedile e alzandomi quel tanto che bastò a permetterle di far scendere i pantaloni fino a metà coscia. Inconsciamente abbassai lo sguardo e arrossii violentemente quando vidi in che stato era ridotto il mio amico dei piani bassi. Sfuggii allo sguardo di Celeste e mi sentii un vero idiota per la prima volta.
Ero sempre andato fiero della mia bandana, come l’aveva chiamato una volta Cel, anzi, spesso e volentieri numerose mie fan si erano passate la voce di quanto fossi bravo ad usarla, ma in quel buco di macchina, con il caldo che mi impediva di respirare e il cuore che ormai faceva a gara con le tonsille a chi sarebbe uscito prima dalla mia bocca, ero imbarazzato.
«Che hai?» Mi chiese la mia ragazza, preoccupata.
Deglutii a vuoto alla ricerca di un po’ d’aria. «Niente.»
Celeste riacquistò la sua solita espressione corrucciata e mi costrinse a fissarlo. «Smettila di mentirmi,» affermò perentoria.
«Ho paura di rovinare tutto.» Ammisi sbuffando.
«Cosa?» Mi domandò stupita.
Evitai il suo sguardo portandomi una mano dietro la nuca e con l’altra le carezzai una gamba ancora fasciata dai jeans. «Come l’ultima volta.»
Adesso avevo fatto la figura ufficiale dello scemo patentato. Mi sentivo così vulnerabile quando ero con lei, come se la mia arroganza volasse via in un battito d’ali. Mi ero sempre nascosto dietro la spavalderia, la superbia, la sicurezza di essere meglio degli altri, ma Celeste era riuscita a smascherarmi, a scavare a fondo e scoprire che ero tutto fumo e niente arrosto. Che in realtà non ero chi volessi far credere di essere.
«Tu non hai fatto nulla,» mi rassicurò lei.
Allargai le braccia e cercai a fatica le parole per esprimermi. «È tutto così... nuovo per me.» Sbuffai, infastidito da quella tempesta di emozioni che mi dilaniavano il cuore.
Con una semplice carezza, Celeste mi distrasse da quei miei pensieri e mi riportò sulla terra, lì in quella macchina, tra le sue braccia.
«Stai un po’ zitto.» Mi rimproverò, cercando le mie labbra e insinuando fulminea una mano all’interno dei boxer.
Improvvisamente il mondo divenne di un altro colore, assunse forme e dimensioni diverse mentre il mio cervello scaricava endorfine quasi a volermi sovraccaricare. «Porca tro-…» tentai di esclamare, ma Celeste mi zittì con un dito sulle labbra.
«Se dici ancora una parolaccia, mi rivesto,» minacciò seria.
«...trota?» Conclusi io, sorridendo di sbieco.
Non ebbi nemmeno il tempo di organizzare i miei pensieri, che la mano di Cel cominciò a muoversi lentamente, costringendomi a posare la fronte sulla sua spalla e a dire frasi disconnesse. Era come se il tempo si fosse fermato, come se il mondo aveva smesso di girare e attingesse la sua forza soltanto dal calore dei nostri respiri. Sentivo il suo profumo sotto le mie narici e il suo sapore sulle mie labbra. Cominciai a baciarle il collo, le spalle e mi soffermai in quel piccolo avvallamento tra le sue clavicole, dove dondolava un piccolo ciondolo a forma di bocciolo.
Lei era il mio piccolo fiore d’arancio, dal profumo intenso e dal sapore acre come la scorza di quel frutto. Un fiore capace di resistere alle insidie del freddo, forte e fiero come Celeste. Mentre le nostre lingue si rincorrevano frenetiche, in una danza sfrenata e primordiale, i suoi movimenti aumentavano d’intensità costringendomi a reclinare la testa all’indietro cercando più aria. Riuscii ad abbassare il finestrino di qualche centimetro e vi posai il viso contro, socchiudendo gli occhi e cercando ossigeno. Ormai ero quasi arrivato al limite e il modo con cui Celeste mi fissava non mi avrebbe di certo aiutato. Si avventò sul mio collo, aggrappandosi alle spalle e accarezzandomi con una lentezza che avrebbe potuto uccidermi. Sentii i brividi impossessarmi del mio corpo, caldo e quasi febbricitante, quando la sensazione di pienezza raggiunse il bassoventre costringendomi ad allacciare una mano attorno al polso di Celeste.
Un ultimo sguardo, una preghiera silenziosa, il desiderio di fare piano con lei e di non affrettare le cose. La sua risposta si tramutò in un gesto, in un semplice spostamento della mia mano all’altezza del suo cuore, tra i suoi seni, quei boccioli di rosa che avrei assaggiato fino a sentirmi sazio.
«Anche tu mi togli il respiro.» Disse, e poi, senza darmi il tempo di aggiungere altro continuò a muoversi veloce su di me.
Raggiunsi il punto di non ritorno quando rovesciai gli occhi all’indietro e li puntai verso la luna che, pallida e silenziosa, ci guardava dall’alto ed era come se ci desse il suo permesso, come se ci proteggesse dagli sguardi indiscreti degli altri, in quel parcheggio semi-deserto.
«Guardami, Chicco.» Mi chiamò lei ed io non resistetti al seguire la sua voce.
Celeste mi voleva, desiderava il mio sguardo in quel momento tanto delicato, in quei minuti preziosi che sarebbero stati solo nostri. Le accarezzai il viso delicatamente e lei socchiuse gli occhi, nascondendoli dietro le folte ciglia chiare.
«No, non nasconderli.» La pregai, mentre sentivo il piacere che sopraggiungeva lento.
Lei allora esaudì quel mio egoistico pensiero e schiuse le palpebre, facendomi annegare in quell’azzurro diventato argenteo. Al chiaro di luna, gli occhi di Celeste sembravano metallo liquido, così intensi e allo stesso tempo capaci di annientarmi.
Fu un attimo, poi sentii quella scossa intensa invadermi le membra e una patina scura si dipinse davanti ai miei occhi, trascinandomi in un vortice di sensazioni che durò un attimo, ma che allo stesso tempo fu eterno. Mi sentii libero, vuoto e mi crogiolai in quel calore che Celeste mi regalava.
Forse era questo l’amore di cui tanti raccontavano, forse era soltanto il ricevere qualcosa senza aspettarsi nulla in cambio.

Era la prima volta che mi sentivo così strana. Le sensazioni che stavo provando in quel  momento erano talmente intense e a me sconosciute che non riuscivo nemmeno a trovare le parole per descrivere il tumulto che sentivo dentro di me, che scombussolava ogni mia cellula, qualsiasi fibra del mio corpo. Questo perché Ruben mi era entrato dentro, sera filtrato dentro di me con i suoi modi di fare arroganti e boriosi, con quella dolcezza nascosta che, di tanto in tanto, seppelliva il suo ego spropositato, ma soprattutto con quel sorriso luminoso quanto il sole d'estate, caldo come una tiepida giornata di Maggio.
Era stato l'unico, in quasi ventidue anni di vita, ad essere stato in grado di sciogliere con il suo calore quello strato di ghiaccio che ricopriva il mio cuore. Lo sentivo battere forte, lo sentivo scalpitare nel petto come mai aveva fatto, sembrava essere rinato a nuova vita, come se avesse cominciato a pompare sangue solo quando Ruben era entrato a far parte della mia vita. Il suo arrivo mi aveva sorpreso come un acquazzone, come quella pioggia che ci aveva fatto conoscere. Dapprima solo odio, frequentazioni quasi forzate dal destino che aveva fatto di tutto pur di farci unire, per farci incontrare ancora ed ancora. E a poco a poco era scattato qualcosa in noi, una piccola scintilla che stava dando fuoco ad entrambi, che ci stava incendiando, distruggendo con la sua intensità i dubbi, l'odio e le nostre diversità.
Ruben, anzi Chicco, non era mai stato il mio tipo ideale. Troppo bello, troppo vanitoso, troppo superficiale per una ragazza come me. Eppure era stato in grado di farmi ravvedere, di ribaltare qualsiasi mia convinzione e a farmi provare qualcosa per lui. Cosa fosse, ancora non lo sapevo e non sapevo nemmeno da dove era scaturito tutto ciò. Forse per la sua spontaneità, forse perché era stato uno dei pochi a non farsi intimidire dal mio carattere e a non odiare il mio cinismo, oppure per il modo in cui mi guardava. Mi sentivo desiderata, ogni volta che le sue iridi smeraldine incontravano le mie ed era la prima volta che qualcuno mi facesse sentire bramata.
In quell'esatto momento, stava accadendo e mi sentivo avvampare, mi sentivo scombussolata e faticavo quasi a respirare. Mi stava fissando con i suoi occhi verdi, illuminati solo dai flebili raggi della luna, che ci osservava orgogliosa ed incastonata in un manto di oscurità ed intanto mi accarezzava la guancia con il pollice.
«Sei stupenda, stasera.» Disse con un filo di voce, ancora senza fiato per quella bramosia che la piccola macchina di Robbeo non riusciva quasi a contenere.
«Anche tu sei stupendo,» risposi, allacciando le mani dietro il suo collo e allungandomi verso di lui per baciarlo a fior di labbra. «Questa serata è stupenda. È tutto praticamente perfetto.»
«Fa quasi paura, vero?» Domandò e i suoi occhi cercarono una qualche conferma nei miei.
«Più che altro non sono abituata a tutto questo.» Risposi, stringendomi nelle spalle.
«Già, nemmeno io,» ridacchiò, continuando a strusciare il pollice sulla mia guancia. «È tutto nuovo per me.»
Era impaurito, potevo leggerglielo negli occhi e intuirlo dai suoi muscoli tesi. Aveva il timore di commettere qualche sbaglio, di rovinare tutto quello che stava nascendo tra di noi. Ed io mi sentivo esattamente come lui. Tutte le relazioni che avevo avuto erano state solo un enorme buco nell'acqua, oltre al fatto che con nessuno dei miei ex fidanzati ero stata coinvolta così emotivamente, per cui non mi ero mai posta il problema di poter sbagliare e rischiare, dunque, di perdere tutto. Con Ruben era diverso, con lui era tutto diverso. Forse perché, contrariamente alle apparenze, non era come tutti gli altri. Nonostante lo avessi sempre considerato un troglodita privo di materia grigia, che aveva visto più letti dell'Ikea, in realtà si era dimostrato tutt'altra persona. Lo avevo giudicato troppo in fretta e se il fato non mi avesse dato l'occasione di passare del tempo con lui, non avrei mai avuto l'occasione di conoscerlo per ciò che era davvero.
Accennai un sorriso e mi avvicinai a lui, per sentire ancora una volta le sue labbra contro le mie. Strinsi le mani tra i suoi capelli, spingendolo verso di me e riprendendo quella danza passionale che avevamo cominciato poco prima. Eravamo ancora mezzi nudi, scombussolati da ciò che era accaduto, ma ancora vogliosi di alimentare quel fuoco che incendiava le nostre membra.
Ruben appoggiò una mano sulla mia spalla, spingendomi delicatamente contro lo portiera della macchina, facendo aderire la mia schiena contro il vetro. Mi seguii, spalmandosi completamente contro di me. E, mentre la sua mano scivolava lenta sul mio torace, tra l'incavo dei miei seni, con l'altra tentò di abbassare lo schienale della macchina per ricavare più spazio in quell'angusto abitacolo.
«Ma porca putt...» Stava per dire, guardando arcigno il sedile, ma i miei occhi lo trafissero.
«Ti escono proprio naturali le parolacce.» Borbottai, scuotendo il capo.
«Forza dell'abitudine.» Disse, grattandosi la nuca e sembrando quasi un bambino appena ripreso dalla mamma. «Comunque questa macchina fa schifo! Non si reclina nemmeno lo schienale!»
«Devi avere pazienza,» gli suggerii. «E tanta forza bruta!» Aggiunsi, alzandomi un tantino e urtando il suo petto con il mio. Tremammo entrambi per quel contatto innocente e ci scambiammo uno sguardo languido. Mi allungai verso la manopola e la strinsi, cominciando a girarla con tutta la forza che avevo. Di solito Robbeo faceva un mezzo giro in avanti per sbloccarla, poi tutto indietro. Lo schienale si reclinò con facilità e sorrisi soddisfatta al mio ragazzo, che guardava stizzito il sedile.
«Hai visto, è stato semplice.»
«Te lo avevo allentato io,» bofonchiò.
«La solita scusa che usate voi uomini quando vi dimostriamo che il sesso forte siamo noi.» Ridacchiai, stringendo le sue spalle larghe e abbandonandomi ancora contro il sedile.
Ruben fece una smorfia, una specie di broncio accennato, prima di abbassarsi su di me e baciarmi ancora. Strinsi le braccia intorno al suo torace, sentendo i suoi muscoli tesi sotto le mie dita. Non sapevo se fosse normale o meno sentire il desiderio così impellente di baciarlo e di farmi trascinare con lui in vortici di desiderio. Ma era quasi come se non potessi più fare a meno di lui e di ogni singola parte del suo corpo. Ci conoscevamo da così poco tempo, stavamo insieme da pochi giorni, eppure sembrava che ci conoscessimo da una vita, come se le nostre anime appartenessero all'altro già da molto tempo prima che ci incontrassimo per la prima volta.
Tutti e due avevamo il respiro spezzato, irregolare e le nostre bocche cercavano di recuperare un po' d'ossigeno dall'aria calda, pregna di noi e di ciò che ci stava travolgendo come un'onda. Le sue mani scivolarono lungo il mio corpo, fermandosi sul bordo dei jeans e slacciando il bottone dei jeans.
Appoggiò una mano sul sedile e si sollevò da me, reggendosi a stento sul suo braccio. Dapprima cercò il mio sguardo, poi vi sfuggì puntandolo ovunque tranne che nei miei occhi.
«Forse stiamo correndo troppo.» Soffiò, deglutendo.
«Secondo me no,» dissi semplicemente. «Non pensare troppo e goditi la serata.»
«Non voglio rovinare tutto, accelerando i tempi.» Rispose intimidito.
«Tranquillo, Chicco. Non devi avere paura.» Mormorai, accarezzando quel viso baciato dai raggi lunari.
«Il fatto è che tu non sei come tutte le altre.» Continuò, abbozzando un sorriso.
Ricambiai quel gesto e lo attirai a me con una mano. Mi sentivo speciale in quel momento, importante per una volta. Ed io pensavo lo stesso di Ruben. Ormai faceva parte della mia vita, era stato l'unico in grado di colorare il mondo grigio in cui mi ero rinchiusa, l'unico che era riuscito a farmi uscire dal mio guscio di ostilità e cinismo che aveva allontanato da me un numero imprecisato di persone.
Le sue labbra guizzarono, in pochi secondi, dalla mia bocca verso il mio collo, scendendo  pericolosamente lungo il seno, l'addome per fermarsi all'ombelico, dove indugiò lasciando alcuni baci. Afferrò il bordo dei jeans e lentamente li fece scivolare lungo le mie gambe, inseme agli slip, indietreggiando sul sedile del passeggero per potersi facilitare. Mi fissò per alcuni, interminabili secondi, durante i quali mi sembrò di sprofondare nel verde, reso ancora più intenso dal buio della notte, di quelle iridi che mi avevano stregato.
Mi accarezzò le gambe, osservano con minuziosità ogni parte del mio corpo, come se volesse imprimersi nella mente ogni mio piccolo particolare. Si avventò nuovamente sul mio corpo, con più bramosia, baciandomi dapprima la gamba, percorrendone poi l'intero profilo, risalendo verso la coscia fino ad arrivare all'inguine dove si soffermò a lungo. Cominciò a lasciare dei piccoli e caldi baci lì dove ero più sensibile, strappandomi qualche ansimo sommesso.
Un brivido mi percorse la spina dorsale, scuotendo il mio corpo con intense scosse di piacere. Strizzai gli occhi e mi aggrappai al sedile, sentendo che qualsiasi mio muscolo aveva iniziato a muoversi incontrollatamente, con gesti disconnessi dettati solo dalla bocca di Ruben, dalla sua lingua che si muoveva esperta lungo la mia intimità.
Accarezzò le mie cosce, stringendole per avvicinare il mio bacino ancora di più verso i lui. Ansimai, cercando appiglio ovunque mi capitasse: il volante, lo schienale del sedile, i suoi capelli.
Quella sera c'era la luna, piena che vegliava su di noi, il cielo buio e scuro che ci nascondeva da occhi indiscreti. C'eravamo noi stretti nella piccola e polverosa macchina rossa di Robbeo. E in quel momento solo una parola riecheggiava chiara e nitida nella mia mente, una sola parola che poteva descrivere tutto quello: Perfezione.
Salve salvino!
Siete giunti alla fine del capitolo ed è già una specie di record. Dobbiamo prostrarci umilmente ai vostri piedi per l'enorme ritardo dell'aggiornamento, ma tra corsi, esami e real life non abbiamo un minuto per betare i nostri Orrori (poor Wife). Bene, bene, bene, ma cos'abbiamo qui? Un bel viaggetto a Londra! *w* Ma sono così awsome questi due *li spupazza* e Leuccio ha invitato Celeste alla trasferta che si terrà nella capitale Inglese, contro una delle squadre più forti, ovverò l'Arsenal, nonché la squadra dell'altro Sogno! Ne vedrete delle belle, posso assicurarvelo! E inZomma anche questa volta Leo è scampato ad una potenziale smascherata da parte della sua ragazza e Celeste ha conosciuto il papà di Annalisa, cioè il presidente della A.S. Roma, Mr. Cavalli.
Ma.. ma.. avete notato l'indifferenza di Annalisa nei riguardi di Leo?? O.O' non ci credeva neppure lui quando se l'è vista sfilare di fianco, con l'unico obiettivo di tampinare quel poveretto di Robbeo. E poi la proposta della vacanza, Villa Borghese, la luna... e quel cesso di macchina di Robbeo, ma l'importante è ciò che è successo al suo interno! *_________________*
Basta, sono troppo pucciosi.

Beh, vi lasciamo ai vari commenti. Allur, ringraziamo le 16 persone che hanno recensito lo scorso capitolo -le risposte alle recensioni stanno arrivando =.= -, a quelle che hanno messo la storia tra le preferite/seguite e GRAZIE a chi ogni giorno ci ''rompe'' sul gruppo delle Crudelie ricordandoci quanto questa storia, e le altre del gruppo, piacciano ed emozionino. ç_______ç Ci rendete le Crudelie più felici sulla faccia di questa terra (che presto conquisteremo!) *sniff, sniff*
Come regalino finale di questo capitolo non ci saranno foto, bensì il video-trailer della seconda parte di Come in un Sogno che partirà con il viaggio a Londra. Spero vi piaccia! :3

Come in un Sogno U.K.
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