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Autore: Sylence Hill    18/11/2011    3 recensioni
[REVISIONE]: Possibili cambiamenti nel nome dei capitoli e aggiunts o tagli in alcune parti della storia!
Lei: nuova arrivata, tipa dura, lingua tagliente, leale con gli amici.
Lui: bad boy, due occhi come l'oro, mani dure come l'acciaio.
Loro: Gente strana che nasconde più di un segreto.
Ciò che Lei sta cercando può rivelarsi un percorso più insidioso di quanto pensasse.
Il Passato che torna, Misteri da svelare, un Amore da vivere.
Genere: Fantasy, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Sovrannaturale
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CAPITOLO 2
 
Incontri

 
Al termine della prima ora di lezione con il signor Drawn, mi feci indicare dove fosse il mio armadietto, il numero 394, e lui mi disse di controllare nella parte settentrionale della scuola, cioè sul retro, che a detta di lui si partiva dal numero 250 e finiva a 375. Mi feci spiegare la strada e seguendo le istruzioni, mi ritrovai in un corridoio illuminato a giorno da grandi finestre ad arco che ricoprivano tutta la parete e che davano su un bel giardino con statue raffiguranti delle giovani donne con mazzi di fiori e cestini di frutta tra le mani.
Non c’era nessuno nei corridoi.
Seguii la scia di numeri sugli armadietti, fino ad arrivare al mio, giallo. Presi il foglio che mi aveva dato la signora Flinn e composi la combinazione di numeri sul lucchetto. Una brezza calda che  mi spinse una ciocca di capelli davanti agli occhi portò con sé un profumo d’arancia e zucchero e pensai di aver già sentito quell’odore: prima nel parcheggio e poi mentre scendevo le scale.
Un’improvvisa ombra oscurò la luce per un secondo. Mi girai di scatto e mi ritrovai davanti un ragazzo, jeans e maglietta bianca, rannicchiato proprio sotto la finestra che fino ad un attimo prima, era sicurissima, era chiusa.
Alzò due occhi dorati su di me.
E successe qualcosa.
Mi sentii come galleggiare in aria, senza peso, andare alla deriva. Avevo perso ogni contatto con la realtà e solo i suoi occhi mi davano un appiglio per salvarmi.
Per sempre…
Vidi la sorpresa lampeggiare nei suoi occhi e capii che la stessa cosa era capitata anche a lui.
Poi si voltò verso il fruscio che entrambi avevamo sentito provenire dal giardino. Qualche istante più tardi a poca distanza dalla finestra, apparve un ragazzo biondo piuttosto alto che lanciava occhiate in giro come a cercare qualcosa.
O qualcuno…
Quando mi vide guardare nella sua direzione, il biondo si avvicinò di qualche passo, e l’altro si appiattì contro il muro sotto la finestra.
«Scusami.» Un paio di occhi neri si fissarono nei miei. «Per caso hai visto un ragazzo passare di qui? Capelli neri, jeans…»
Con la coda dell’occhio vidi il volto impassibile del ragazzo – il fuggiasco. Impulsivamente decisi di aiutarlo.
Scossi la testa. «Mi dispiace, non ho visto nessuno.» Scrollai le spalle. «Se mi capiterà di vederlo gli dirò che lo stai cercando.»
Dopo qualche secondo, annuì «Non è difficile da riconoscere. Occhi come i suoi li hanno in pochi. Digli che Jake Kingston lo sta cercando.»
Gli sorrisi e annuii. Jake se ne andò.
Quando guardai il fuggitivo, lui si alzò senza staccare gli occhi dai miei. Era alto circa un metro e ottantacinque, largo di spalle e torace, fianchi stretti. Sentivo scorrere una strana tensione tra noi. Scrollai la testa per cancellare quella sensazione.
«Perché ti sei nascosto?» domandai.
«Non volevo farmi trovare.» Lo disse come se la cosa fosse ovvia.
«Hai commesso qualche crimine?»
Un sorriso fugace gli attraversò il viso. «No.»
Sembrava che fosse difficile per lui esprimere una qualche emozione. Si avviò verso il corridoio alla mia destra. Io chiusi l’armadietto e lo seguii.
Visto che lui non voleva tirare in ballo quello che era successo – anche se non sapevo cosa fosse – lo accantonai in un angolo della mente per riprenderlo più tardi, pensando a mente fredda.
Lui voltò appena la testa per vedere chi stesse dietro di lui.
«Non hai altro da fare che seguirmi?»
«Veramente mi serve un aiuto. Direi che me lo sono meritato.»
«Davvero?» Mi guardò con un sopracciglio inarcato.
«Aspetta, fammi pensare.» Feci finta di pensarci, guardando nel vuoto. «Direi di sì.»
Lui sbuffò. «Cosa ti serve?»
«Sapere dov’è la mensa e l’aula di matematica.»
«La mensa è l’edificio bianco qui accanto. L’aula di matematica del primo anno è al primo piano, corridoio a destra delle scale, seconda porta a sinistra.»
«Non mi serve quella del primo anno, mi serve quella del terzo.»
Lui inarcò i sopraccigli in un’espressione derisoria e sorpresa. «Sei al terzo anno?»
«Sì.» Con le mani mimai un’esplosione tipo fuoco d’artificio. «Sorpresa.»
Mi complimentai con me stessa per quell’espressione perplessa che gli calò sul viso.
«Allora, dov’è?» ripetei.
Mi scrutò qualche secondo con quegli incredibili occhi dorati. Mi sentii a disagio ma non lo diedi a vedere.
S’irrigidì. «Vieni con me.»
Si girò e andò verso il corridoio alla nostra sinistra.
Io, muta, lo seguii.
Il silenzio mi dava la sensazione di una cappa di calore in un’estate particolarmente afosa.
«Perché non volevi farti trovare?» La mia voce risuonò lungo il corridoio.
Non rispose.
«Chi era quel ragazzo?»
«Una sola volta visto e già sei caduta ai suoi piedi?» chiese, traboccante di sarcasmo. «Grande! Devo farmi spiegare come ci riesce.»
«Scusa?»
«Cos’è? Hai le idee confuse a causa del ricordo del suo bel faccino?»
Mi fermai. «Per caso quando sei saltato dalla finestra, il cervello ti è caduto in un cespuglio? Perché stai sbroccando.»
Si voltò a guardarmi, lo sguardo ironico. «Vuoi farmi credere che non ti piace? Che lo trovi brutto?»
«Non dico che non sia bello: lo è. Ma se ti piace tanto perché non ti ci metti tu con lui?» Scrollai le spalle. «Senti, se volevi farmi questa scenata di gelosia da vorrei-riuscire-a-relazionarmi-come-Jake-Kingston potevi anche risparmiamelo. Non ho intenzione di “cadere ai piedi” di nessuno. Me la cerco da sola l’aula di matematica. Ci vediamo.»
Lo superai e svoltai a sinistra dove voleva andare lui.
Ma tu guarda se il primo giorno di scuola, mi doveva capitare proprio il tipo con i complessi di inferiorità. E quella strana chimica… Che cavolo!
Se avessi incontrato Jake Kingston gli avrei detto dove trovare…
Non so nemmeno come si chiama.
Lungo il corridoio c’erano una serie di porte e dopo averne superate un paio trovai quella di matematica.
Bussai ed entrai.
Alla cattedra era seduta una donna, con non più di trent’anni, una folta capigliatura nera, e una paio di occhi nocciola che mi inchiodarono appena oltrepassai la soglia.
«Lei è?»
Wow!La sua voce sembrava quella di una cantante lirica, fresca, ritmica, una sinfonia, simile al suoni di campanelle di cristallo al vento.
«Sono Sylence Hill.»
«Oh, la nuova arrivata.» Sul suo viso si allargò un sorriso gentile. «Prego, entri. Confido che la prossima volta rispetti l’orario.»
«Ah, sì, mi scusi. È solo che questa scuola è un labirinto e non ho una mappa.»
«Cerchi un posto libero e si sieda. Benvenuta alla Lexis High School.»
Presi posto nella seconda fila, accanto ad una ragazza asiatica, con ridenti occhi scuri e con una cascata di capelli neri e lisci.
«Ciao, io sono Kima Brookes.» si presentò allungando una mano.
Misi a terra la mia cartella e alzai gli occhi su di lei. Già sapevo quale sarebbe stata la sua reazione. «Sy Hill.»
Strinsi la mano che mi tendeva. Aveva le labbra socchiuse e gli occhi spalancati.
Abbassai gli occhi. Presi dalla tracolla un blocco e una matita e cercai di concentrarmi sulla lezione.
«Com’è la professoressa?» chiesi tanto per chiedere quanto per farla smettere di fissarmi. Oramai avevo imparato da anni l’effetto che facevo a primo impatto con la gente ed ero diventata molto brava a sviarlo.
Lei scosse la testa e chiuse la bocca di scatto. «Non essere preoccupata.» mi disse Kima, a stento. «La signorina Madlain è una tipa in gamba.» assicurò, con il suo buffo accento. Lanciò un’occhiata di sottecchi intorno a lei, poi mi si avvicinò con aria confidenziale.
«Lo sai che hai degli occhi davvero fichi?» sorrise.
Da quel momento decisi che lei sarebbe stata mia amica.
«Grazie. Sei la prima che me lo dice. Di solito restano fermi a guardarmi finché non richiamo la loro attenzione.»
Lei annuì vigorosamente. «Hai ragione. Mi sembrava di essere ipnotizzata come un serpente con il suo incantatore.»
Quella cosa mi fece pensare ad un altro paio di occhi di un forte colore dorato. Anche a me era parso di restare ipnotizzata sotto l’influsso di quello sguardo. E quella strana reazione che c’era stata? Non sapevo cosa fosse, ma avevo intenzione di scoprire se era successo anche a lui.
Io sono un tipo che va dritto al punto. Non mi piacciono per niente i giri di parole. Quel bizzarro magnetismo però…
Scossi la testa per schiarirmi la testa e riportai la mia attenzione alla lavagna.
La lezione fu molto più interessante di quanto pensassi. La signorina Mardlain aveva un modo di spiegare molto fluido e faceva diventare degno di attenzione anche qualcosa di noioso come i calcoli matematici, le espressioni algebriche e tutte quelle altre cose di cui, di solito, non capivo un’acca.
Al termine dell’ora, mentre uscivo dalla porta, Kima mi chiamò e aspettai che mettesse a porto la sua roba e mi raggiungesse.
«Da quanto tempo sei arrivata?» mi chiese.
Vi avviamo lungo il corridoio. «Da una settimana più o meno.» Il suo sguardo mi incitava a continuare a parlare. «Ci siamo trasferite qui da St. Louis a causa del lavoro di mio padre, anche se non ho ancora capito di cosa si tratta. Di solito si chiude nel suo laboratorio, con piante e rocce e ci rimane tutto il giorno. A volte devo chiamarlo a gran voce per distogliere la sua attenzione da quello che sta facendo per sapere se è ancora vivo o se ha fame, ma è troppo occupato per andarsi a prendere qualcosa da mangiare. Comunque, è il papà migliore del mondo.»
«E tua mamma? Lei cosa fa?»
«Non l’ho mai conosciuta. Ogni volta che parlo di lei, mio padre cambia argomento oppure sparisce nel laboratorio dandomi come scusa una cosa che si era dimenticato di fare.»
Il suo viso parve adombrarsi. «Non sai com’è? Non hai una foto?»
«No.» Mi guardai in giro cercando di orientarmi e voltai a sinistra per andare al mio armadietto. «Senti Kima, sai dov’è l’aula di Storia?»
«Oh, io devo andarci! Ti faccio vedere io!»
«Allora prendo il libro e poso questo.»
Ero contenta di avere almeno qualcuno che conoscevo a farmi compagnia.
Ero abituata a cambiare scuola tipo ogni anno. Da quando avevo cominciato ad andare alle elementari, papà aveva iniziato a viaggiare e io con lui. All’inizio ci restavo sempre male, perché ogni volta che legavo con qualcuno, alla fine sapevo non l’avrei più rivisto l’anno successivo. Poco prima dell’inizio del terzo anno delle elementari avevo litigato di brutto con papà perché le cheerleaders mi avevano chiesto di entrare a far parte del loro gruppo. Per me sarebbe stato un sogno, ma fui costretta a dire no perché papà doveva andare in Texas. Non gli avevo rivolto la parola per un paio di settimane, ma alla fine decisi che era inutile tenere in broncio, tanto non l’avrei mai spuntata. Mio padre era figlio unico e non aveva parenti stretti. Non avevo né cugini né zii e i miei nonni erano morti da tempo. Sapevo che, tempo un anno, avrei dovuto rinunciare anche questa scuola, ma per il momento decisi che non avrei permesso a quella premessa di offuscarmi il tempo che avevo.
Presi i libri, seguii Kima proseguire lungo il corridoio. Se avessi cercato di ricordare la strada mi sarebbe venuto il mal di testa, perciò decisi che mi sarei fatta guidare da lei.
«Kima, cosa sai di Jake Kingston?» chiesi, prima che potessi rendermene conto.
«Come fai a conoscere il suo nome?» domandò.
Scrollai le spalle con noncurante. «L’ho sentito dire da un paio di ragazze mentre andavo in aula.» mentii.
«Oh. Comunque so tutto quello che c’è da sapere su di lui. È il ragazzo più popolare di tutta la scuola. Campione di basket, ottimo in tutte le materie, la maggior parte delle ragazze della cade ai suoi piedi ogni volta che sorride. È gentile, generoso, affabile con tutti…»
«Un Principe Azzurro, insomma.»
Ridacchiò. «Insomma, sì.» Sospirò. «Sai credo che debba esserlo.»
«Perché?»
«Per via di suo padre. Vedi, Garrett St. James Kingston è il Procuratore Distrettuale della nostra City. Ha una certa immagine da rispettare e…»
«E se lui si comportasse in modo non adatto al ruolo di “Figlio del Procuratore”, il padre potrebbe risentirne in rispettabilità.»
Lei annuì.
«Magari c’è anche un antagonista del Principe Azzurro, o qualcuno che sia del tutto divergente.» ironizzai.
«Divergente?» Picchiettò con un dito sul mento, riflettendo. «Beh, se intendi uno che è il suo esatto opposto ci sarebbe Red.»
«Red?»
«Sì. Red Hawks. Un mito nella box, ma carente in amicizia, carattere e materie scolastiche. Il Cattivo Ragazzo per antonomasia.»
«Wow, non vorrei essere nei suoi panni.»
«Già, credimi staresti nei guai e non per quello che pensi tu. È il bad boy della scuola e al pari di Jake, le ragazze ne sono alquanto attratte. È al quanto anno, come Jake. Prima quei due erano fantastici, erano amici per la pelle, inseparabili. Fratelli. Se Red finiva nei guai Jake lo aiutava tirarlo fuori. Ma poi, prima dell’inizio del quarto anno, è successo qualcosa che li ha divisi. Non possono stare nella stessa stanza che finiscono irrimediabilmente per litigare. Qualche giorno fa, nel cortile della scuola, sono quasi venuti alle mani.»
«Ma per quale motivo?»
Si strinse nelle spalle. «Nessuno lo sa. Quando è iniziata la scuola, li abbiamo visti uno all’antipodi dell’altro. Oh, guarda, siamo arrivate. Questa è l’aula di Storia.»
Attraversammo la porta e ci andammo a sedere in due posti adiacenti, in un lungo bancone. Le altre due file e quella davanti a noi erano già piene di studenti.
«Nessuno lo ha mai chiesto a loro? Del motivo per cui adesso sono in disaccordo, intendo.»
«A quanto ne so, no. E non credo che lo direbbero facilmente a qualcuno.»
Tirammo fuori dalle borse taccuino e penna. All’improvviso, si girò verso me.
«Sai, Jake ha una cerchia ristretta di amici che gli sono sempre attorno, in cui prima c’era anche Red e non sono le cheerleaders o i giocatori come lui. Si riuniscono ogni giorno a pranzo e si mettono a discutere, di chissà cosa poi. Credo che loro sappiano perché quei due ora sono così discordi.»
Non riuscimmo più a parlare, perché in quel momento entrò in classe il professore, il signor Biggle, un omino quasi calvo e con un paio di baffi grigi.
L’ora successiva, Kima aveva un corso che avevo scelto mentre io non avevo niente perché ero ancora indecisa su cosa fare, perciò ci salutammo promettendo di incontrarci a ora di pranzo.
Avendo un’ora buca, decisi di girovagare un po’ per la scuola per capire se mi sarebbe servita una mappa oppure se sarei riuscita a ricordare in che direzione andare.
Andai verso quella che mi parve la strada per l’entrata principale. I corridoio erano silenziosi, le pareti erano colorate con un caldo giallo tendente all’ocra nella parte superiore e dei pannelli di legno scuro ricoprivano quella inferiore. Era attaccato qualche cartellone con raffigurata la squadra di Cheerleader e quella di basket. Mi avvicinai e scorsi subito il viso di Jake Kingston che sollevava la coppa in segno di vittoria. I capelli biondi scompigliati e umidi di sudore e gli occhi luccicanti e ridenti per il buon esito della partita.
Poi mi accorsi della figura in ombra che giaceva al margine dell’immagine. Il ragazzo dagli occhi dorati che avevo incontrato quella mattina guardava Jake con un’espressione fraterna e un leggero sorriso curvava le sue labbra.
Allora questo deve essere Red Hawks.
Anche se quei due avevano litigato da quell’immagine, dall’espressione sul viso di Red, si capiva che gli voleva ancora bene.
Mi chiesi perché avessero litigato. Magari per qualche problema con il padre di Jake: visto il ruolo che ricopriva nella società, non voleva che il figlio frequentasse compagnie non adatte a lui. Eppure non credevo che Red fosse pericoloso. Ma cosa ne potevo sapere io?
Oppure il motivo era completamente diverso. Magari c’era di mezzo una ragazza. Presumibilmente si erano innamorati della stessa ragazza e lei aveva scaricato l’uno per mettersi con l’altro, che non l’ha presa affatto bene.
Anche questa ipotesi era plausibile.
Persa nei miei ragionamenti, non mi accorsi di essere finita in un corridoio cieco finché non andai quasi a sbattere contro un muro. Mi guardai intorno ma non riconobbi niente.
Dove diavolo ero finita?
Guardandomi intorno, scorsi una porta a pochi passi dietro di me. Aveva un vetro opaco nella parte superiore, ma dai colori capii che portava al giardino sul retro della scuola.
Provai a girare la maniglia e…
Clic.
La porta di aprì su un piccolo vialetto delineato da file di siepi perfettamente potate, tra le quali, a intervalli regolari, si ergevano le piccole sculture che avevo visto dalla finestra nel corridoio. Si sentiva un profumo di erba appena tagliata e rose, di cui scorsi un cespuglio a pochi passi da me. Attirata dal piacevole calore del sole sulla pelle, uscii all’esterno gustandomi la sensazione di libertà che mi attraversò.
L’aria calda di fine agosto varcava ancora le soglie della scuola, sfiorando la pelle come mani tiepide e invisibili. Mi ricordava molto la volta in cui io e papà andammo un parco coperto a New York, creato da un amico di papà. C’erano tantissime varietà di fiori, piante e tutti quegli insetti che si potevano trovare in un prato. Facemmo un pic-nic, o meglio io lo feci, visto che papà passò la maggior parte del tempo a chiuso nel laboratorio insieme al suo amico.
Con papà era sempre stato così, ma non gliene volevo. Faceva tanti sacrifici per me e in qualche modo dovevo ricambiare.
Il dolce fruscio delle vento tra le fronde degli alberi mi distolse dai miei pensieri.
Lansing City era una cittadina molto tranquilla, forse la più placida città in cui mi aveva portato mio padre. Di solito, le nostre tappe ci conducono in grandi metropoli chiassose, asfissianti con i gas di scarico e l’inquinamento urbano, per non parlare delle quasi inesistenti distese di erba. Non portevi trovare un angolo tranquillo: da qualsiasi parte andassi il rumore assordante dei clacson del traffico, i palazzi così alti da coprire il cielo e tante di quelle luci da desiderare di diventare cieco ti braccavano, ti trovavano e ti consumavano.
Certo c’erano anche i lati positivi… ma per una che è abituata a goderseli poco non fa poi tanta differenza volerli ricordare.
Quella cittadina, invece, mi era particolarmente simpatica. Le persone erano per bene e gentili. Come la signora Partecci, la fornaia che aveva la sua panetteria vicino alla casa che papà aveva affittato nel centro. Era un donnone con i capelli grigi come la cenere e i tratti del volto tipicamente romani. Ma quello che colpiva erano gli occhi neri e intelligenti. L’avevo conosciuta qualche giorno dopo esserci trasferiti a Lansing City e avevamo subito legato. Quando passavo di lì la mattina, mi preparava un sacchetto con dei panini appena sfornati, soffici come una nuvola, e quando ero in auto riempivano tutto l’abitacolo con il loro profumo.
Passando davanti ad una finestra per prendere un sentiero laterale, vidi la mia immagine riflessa nel vetro.
Non mi potevo certo definire una bellezza, ma – non voglio peccare di invidia – ero abbastanza carina. La cosa che mi piaceva di più di me erano i capelli. Non li avevo mai tagliati e li avevo lasciati crescere. Sciolti, mi arrivavano appena sotto il fondoschiena ed erano il mio orgoglio. Per praticità li legavo in un’acconciatura, che mi aveva insegnato un’insegnate della mia vecchia scuola, quando mi si chiusero per sbaglio nella porta, pratica e che non dava nell’occhio.
Il viso era una versione femminile di quello di mio padre e soltanto la bocca era diversa, più carnosa rispetto alla sua.
Ma la cosa che più attirava lo sguardo erano i miei occhi. Il colore sfumava dal grigio argento intorno alla pupilla fino a diventare nero intorno al bordo dell’iride.
Li amavo e odiavo. Li amavo perché,a detta di papà, erano dello stesso colore di quelli della mamma. Almeno sapevo qualcosa di lei e me la faceva sentire più vicina. Li odiavo perché attiravano troppo l’attenzione e quando qualcuno mi guarda negli occhi, come aveva detto Kima, rimanevano come ipnotizzati. E li odiavo ancora di più perché, ogni volta che papà mi guarda negli occhi e diceva che sono come quelli della mamma, il suo sguardo si adombra e mi sembra di vedere le lacrime che non ha mia versato quando c'ero io che lo guardo.
Ora che ci pensavo, Red non aveva fatto una piega quando li aveva guardati.
Forse anche lui era concentrato come me su quella strana sensazione che abbiamo sentito...
Nel vetro vidi lampeggiare qualcosa che mi accecò per un attimo. Mi voltai di spalle per capire da dove era arrivato.
Il cuore fece un doppio salto mortale carpiato. Semisdraiato alla luce del sole con qualcosa di piccolo e argentato in mano, vidi il signor-difficili-relazioni, Red Hawks.

  
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