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Autore: Natalja_Aljona    19/11/2011    1 recensioni
Capelli raccolti, capelli stille di grano, capelli luce di stelle, le sue stelle nelle tue mani.
Treccia sfatta sul vestito chiaro, chioma ribelle, arricciata, scompigliata, sciolti tra le braci delle tue mani, quei capelli.
E lei, a giocarci sempre, con quei capelli, ad intrecciarseli ancora con le dita leggere, a sfiorarti gli occhi, poi, con quelle dita, sbriciolare un sorriso sul timido rossore del volto e ridere, ridere, ridere di te.
Squarcio di cielo, cielo e vertigine, cielo e voragine.
Lei sorride da capogiro e tu davvero non ragioni.
"Alja, mi fai venire le vertigini".
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Natal'ja Eileen Morrison


Tu sei bella anche se non ridi

Sai cadere quasi sempre in piedi

(Vorrei, Roberto Vecchioni)



Bella più che mai

Sorride e non ti dice la sua età

(Alice, Francesco De Gregori)


Il nome del cielo


Poi arrivò il mattino e col mattino un angelo

E quell'angelo eri tu, con due spalle uccellino

In un vestito troppo piccolo e con gli occhi ancora blu

(Caterina, Francesco De Gregori)


Grigiazzurri.

Natal'ja, sciogliendosi la treccia, si scostava i capelli dagli occhi, Natal'ja aveva gli occhi grigiazzurri.

Il grigio avrebbe potuto essere il colore naturale dei suoi occhi, ma l'azzurro era come il veleno, il veleno del cielo, l'azzurro faceva male.

Non erano quel genere di occhi che incantavano, non erano quel genere di occhi che ci si fermava a guardare per la strada, come nell'ingenuo tentativo di carpirvi un segreto, un segreto celato, un segreto più forte di lei.

Non ce n'erano, di segreti, in quegli occhi, erano sinceri, limpidi, c'era forse troppa verità.

Erano una traccia, un indizio, un segnale, un indirizzo, due parole, e quelle parole erano "come lui".

Aveva gli occhi belli, Natal'ja, belli, ma tanto, e anche tristi.

C'era stato un ragazzo, prima di lei, a sfoggiare quelle stille di colori, quell'acqua dolce nelle iridi chiarissime.

C'era stato un ragazzo di cui non sapeva più come parlare, Natal'ja.

E non ne parlava, allora.

Inclinava la testa, s'intrecciava di nuovo i capelli e guardava lontano.

"Beh, non fa niente, è passato anche lui", la sentivano dire, ammettere, giurare.

"Ma tu ci tenevi, ci tenevi, a lui?", le avevano chiesto un giorno, sfacciati, curiosi, quasi certi che la chiave dei suoi occhi fosse quella domanda e che la risposta sarebbe stata, magari abbassando lo sguardo, un flebile "sì".

Non abbassava lo sguardo, Natal'ja.

Ne aveva, di orgoglio, ne aveva da vendere, quella ragazzina.

"Ci tenevo? Non lo so. Ma lui teneva troppo stretto quello ch'è stato di me".

Stretto da far male, stretto al cuore, stretto da catene, catene di sorrisi e di sospiri, catene di ferro ardente, strette da soffocare, non osavano chiederglielo, no.

"No, era strano, lui, era strano, lo giuro, questo non me l'ha detto mai".

"E allora cos'hai da dire, cos'hai da dirci, Natal'ja?".

"Niente, forse, ma siete stati voi a fermarvi, siete stati voi, non ve lo ricordate?".

Sorrideva, Natal'ja, faceva crollare tutti, col sorriso.

Aveva un sorriso che si sarebbe potuto definire dolce, lei, ma dolce di verità troppo lontane, e col tempo, a vederlo, a vederlo sfiorire su un viso di rosa, su un viso di bambina, era parso un'ingenua smorfietta di zingara, ora la luce ch'era venuta a mancare, era parso un sorriso di sogno, felice, ora era un sorriso che faceva male.

Sensi di colpa, rimpianti, Natal'ja pareva non averne.

Pareva non averne, dal sorriso, da quel modo che aveva di guardare e di dire: "io sono qui, tu resta, se vuoi".

E aveva di quei capelli, Natal'ja, che te ne dovevi ricordare.

Chiari chiari, stelle e cielo, sempre arricciati con le dita leggere, come a giocare, per poi scioglierli la sera, scuoterli un poco e sistermarseli sulla spalla sinistra, quasi incurante di chi si fermava ad assistere, magari per caso, a tale lento rituale che sfiorava l'imbrunire.

Poi si alzava, Natal'ja, con la treccia bionda sfatta sul vestito chiaro, e muoveva un po' di neve con i piedi, come in un debole tentativo di sognare d'andare lontano.

Anche i sogni le erano stati impediti, un giorno, o almeno s'era osato minare la libertà dell'azzurro più intrepido dei suoi occhi.

Non un brivido aveva colto la pelle fragile, screpolata di Natal'ja, misera fata delle steppe siberiane: mille, forse.

Ella ricordava un numero, 1482.

Sul suo polso destro, una cicatrice bollente, un marchio di quelli che si sarebbero riconosciuti fino all'ultimo giorno come la condanna psicologica dei forzati di Omsk.

Sette anni, sette anni e la paura.

La sua Russia aveva un segreto, la sua casa, la Siberia, dietro le sbarre pareva svanire, ma fuori era eterna, fuori era il grido del ghiaccio del fiume, era sentirlo scrosciare come in primavera, la primavera biancazzurra quasi sfiorita sotto la neve, la primavera dei Siberiani, era sentire il sole battere, far ridere il cielo come nei Paesi Orientali, giurare di sciogliere le sue catene, e non poter allungare le mani, le mani per bere.

Senza conoscere il vero peccato che le aveva fermato i piedi e le ali, s'era addormentata su una coperta di polvere, cenere e fumo d'un mondo che aveva conosciuto anche nel suo angolo di libertà, s'era addormentata con la chioma ribelle ancora intrecciata sciolta tra le braci di Omsk, in un carcere che pure da innocente sapeva di meritare, ormai conscia di una colpa a cui, neanche ad avere una maledettissima scelta, avrebbe potuto rinunciare.

Era nata in un quartiere, lei, dove tutto poteva finire, ma c'era una cosa, una sola, sempre certa, una parola: la Rivoluzione.

Aveva un amico, Natal'ja, un amico che avrebbe baciato in riva al fiume, il fiume di Omsk, un ragazzino ungherese che il carcere lo conosceva bene, il Capitano del suo quartiere, il Capitano di Forradalom.

Eran passati nove mesi, nove mesi dalla condanna senza processo e da un processo ch'era un insulto, un processo inventato, le aveva stretto una mano oltre le sbarre, le aveva detto: "non dimenticare il tuo nome".

E al Paese di suo padre, l'azzurra Inghilterra che, mai quanto la Russia, amava, era stato un attimo, sì, da sconcertare, da far male, quell'attimo era bastato.

Il giovane greco alla fine della via parlava col cielo e sparava alle stelle, ragazzo dei vicoli, brigante di strada, nato sul Taigeto, gloria di Sparta, e aveva un sole dentro, lui, ch'era l'ombra di quella libertà per cui sarebbe morta, Natal'ja.

Da quel giorno alla fine del mondo, da quel giorno sul mare di Liverpool, la imprigionava sempre in certi sguardi ch'erano scuri di guerra e di armi e dolci al contempo di eroi passati, rassegnati, di tempi di luce e di arti tenaci, in un sogno di sole che bagnava le montagne, in un soffio di filosofia.

Natal'ja s'era innamorata.

E Natal'ja, Natal'ja poi era morta che d'inverni sulle dita ne contava ventitré, era il 1848, l'anno delle Rivoluzioni, le Rivoluzioni che in fondo non erano mai mancate, a lei.

Forse calpestata dalla carrozza dello zar, davanti agli uomini della Terza Sezione, che l'onore d'una forca a Pietroburgo, come i Decabristi, non la meritava, Natal'ja.

Forse uccisa davvero soltanto dalle fiamme di Forradalom, il quartiere dei ribelli che, l'avevano giurato, un giorno avrebbero raccolto i fucili di chi l'aveva detto ieri, "io non ci sto più", e non per scherzo, per gli scarabocchi delle sere in cui d'attentati si parlava per svegliarsi il giorno dopo senza la dannata convinzione d'esser troppo fragili, questa volta per davvero, da scriver sui libri di storia delle scuole, da scriver sui muri della Capitale, avrebbero sparato in mezzo agli occhi dello zar.

L'aveva ucciso lui, poi, lo zar, Feri Desztor di Forradalom, e dopo c'era stato soltanto il patibolo, lo zar aveva ucciso il suo quartiere.

Era morta che forse lo ricordava a fatica, il suo nome.

Eppure l'avrebbero ricordata, forse eroina, forse illusa, Natal'ja.

Natal'ja egoista, distrutta dai sogni, Natal'ja ferita, innamorata del cielo, Natal'ja che il nome del cielo forse non l'avrebbe imparato mai, ma in nome di quel cielo, occhi bruciati e capelli sciolti, nel suo quartiere, nella sua strada, aveva giurato la sua eterna fine, Natal'ja.


Chissà se giochi ancora con i riccioli sull'orecchio

O se guardandomi negli occhi mi troveresti un po' più vecchio

E quanti mascalzoni hai conosciuto e quante volte hai chiesto aiuto

Ma non ti è servito a niente

(Caterina, Francesco De Gregori)




Note


Non è stato facile, scrivere questo capitolo.

C'è tutta Natal'ja, in questo capitolo.

Ci sono tre delle persone più importanti della sua vita in Sic Volvere Parcas, seppur appena accennate, in questo capitolo: Nikolaj Vasil'evič Zirovskij, suo cugino, il mancato pianista polacco, l'ussaro varsaviano dai troppi sogni infranti, distrutto dalle illusioni, dalla croce d'un padre ormai perduto e dalla malattia, morto troppo giovane, morto forse solo per farsi giustizia.

Feri Desztor, l'ungherese, il ragazzo con gli occhi di Budapest, il capo dei Rivoluzionari, il Capitano di Forradalom -dall'ungherese Rivoluzione-, colui che nel 1848 che avrebbe dovuto essere l'anno della sua rivincita, la Rivoluzione Ungherese, a ventinove anni, uccidendo lo Zar -Nikolaj Romanov I, naturalmente una mia “licenza poetica”-e poi impiccato a Pietroburgo, s'è giocato la vita intera.

E “il giovane greco”, Geórgos, Gee. Che in qualche modo un sorriso lo strappava sempre, alla piccola Natal'ja.

C'è un po' tutta la sua vita, la sua vita finita a ventitré anni, in questo capitolo.

La sua infanzia consumata tra i marciapiedi innevati di Krasnojarsk a vendere fiammiferi e il carcere di Omsk, i lavori forzati, la condanna senza processo a causa del passato da Decabristi di suo zio e di suo nonno, condanna scontata bambina eppure inevitabile, perché quando i Decabristi bruciavano idee ed ideali sotto il Palazzo d'Inverno lei era nata da pochi mesi, ma per il suo stesso essere nata in quel 1825, nell'anno della Rivoluzione, per la certezza che se avesse avuto l'età sarebbero state anche le sue, le disperate speranze di quei ribelli, inevitabili.

E a ventitré anni, calpestata dai cavalli della carrozza dello zar, davanti agli uomini della Terza Sezione, la polizia segreta di Nikolaj Romanov I, tra le ceneri di Forradalom, è morta per quei suoi benedetti ideali, e gli si sono frantumati negli occhi, i suoi fragili, ardenti sogni, le sue eterne illusioni.

E George... George è sempre stato tanto, troppo, per Natal'ja.

Il capitolo su di lui arriverà, non so ancora quando, ma arriverà.

Questa è Alja, intanto.

A voi la parola! ;)


A presto,

Marty





  
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