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Autore: JoJo    21/11/2011    4 recensioni
Alzai gli occhi e lungo il corridoio, proprio di fianco alla boccia dell'acqua, c'era lei. Ero sicuro che fosse la stessa ragazza, non potevo sbagliarmi. I suoi occhi verdi, orridamente cerchiati di scuro, erano inconfondibili e, oltretutto, mi stavano scrutando con una tale intensità che non lasciava spazio ad altri pensieri. Era lei e stava aspettando me. Così, lasciando Morgan di stucco, mi alzai per dirigermi con passo risoluto verso la mia strana ospite.
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliai di soprassalto, per l'ennesima notte di fila, e come al solito mi ritrovai seduto sul letto, i battiti accelerati del mio cuore che mi pompavano un ritmo frenetico nelle orecchie.
Mi passai una mano tremante sulla fronte, scostando così malamente i capelli che vi erano rimasti appiccicati a causa dello spesso strato di sudore freddo che me la imperlava.
Gli incubi stavano peggiorando.
O, perlomeno, supponevo fossero incubi.
La verità era che ogni volta, al mio risveglio, non riuscivo a ricordare nulla di quello che turbava il mio sonno, notte dopo notte. Tutto quello che mi rimaneva in mente era una sensazione di angoscia quasi palpabile e le scie ormai secche di lacrime che nemmeno ricordavo di avere versato.
Quindi, a rigor di logica, dovevano essere incubi.
Non era raro averne con un lavoro come il mio.
Quando mi ero confidato con Morgan a riguardo, il mio amico e collega aveva riferito quello che all'epoca pensavo fosse un sordido segreto a Gideon. Mi ero arrabbiato per quell'assoluta mancanza di rispetto per la mia privacy, ma il consiglio che mi era stato dato da colui che considero tutt'ora il mio mentore mi aveva aiutato parecchio.
Solo che, gli incubi non se ne erano mai andati del tutto. Tornavano di tanto in tanto, facendo capolino nel mio inconscio ad intervalli irregolari come gli incontri con un conoscente con cui bevi una tazza di caffè ogni tanto. Sapevo gestirli, quegli incubi. Ma questi...
Stava diventando sempre più difficile convincere JJ che i cerchi violacei sotto i miei occhi non erano affatto sintomo di niente di preoccupante, ma soltanto la somma di troppo lavoro e una carnagione eccessivamente chiara su occhi un po' infossati. Sfuggire al suo sguardo corrucciato, decisamente materno nella sua preoccupazione, era diventata la mia nuova missione quotidiana.
Così come rispondere evasivamente e senza sbilanciarmi troppo alle domande di Derek ed Emily. O come cercare di ignorare gli sguardi indagatori e carichi di sospetto di Rossi ed Hotch.
Esattamente come durante tutte le altre notti in cui quei demoni invisibili e maligni venivano a tormentarmi, abbandonai il mio letto e mi diressi in bagno. Non potei fare a meno si aggrapparmi alla fredda ceramica del lavabo con tutta la mia forza, quasi che quello fosse l'unico appiglio a tenermi in piedi a discapito della mia stanchezza. Ero esausto e, quando alzai gli occhi per scrutare la mia immagine riflessa, potevo capire perché i miei amici, la mia famiglia, fossero così preoccupati per me. I miei occhi scuri, infossati ed enormi, sembravano angosciati da qualcosa di terribile. E, mentre i giorni passavano e continuavo a non riuscire ad allontanare quella tremenda sensazione che mi torturava l'anima, capivo che non sarei riuscito ad andare avanti così.
Mi sciacquai il volto con dell'acqua ghiacciata e tornai a fissarmi negli occhi con determinazione: se riuscivo ad ingannare i miei colleghi, sarei stato in grado di farlo anche con me stesso.
Stavo bene, mi dissi in un sussurro, ripetendo quelle due parole come un mantra.
Stavo bene.


Era solo un'allucinazione. Niente di più.
Avevo dovuto far passare ben cinque minuti in cui la parte empatica del mio cervello continuava a cercare di formulare spiegazioni logiche a quello che avevo scorto con la coda dell'occhio poco prima.
Eravamo atterrati da poco dopo il volo da Charleston e io avevo ancora la tracolla sulle spalle quando vidi per la prima volta quella...cosa.
Non ero certo che fosse una persona, anche se la sagoma, scura e minacciosa, aveva di certo un che di antropomorfo.
La mia prima reazione era stata quella di far cadere la mia borsa da viaggio e di sbattere le palpebre ripetutamente, come se quel semplice gesto potesse cancellare in un sol colpo un'immagine che era, doveva essere, solo nella mia testa.
A discapito di ogni mio tentativo, però, l'ombra non se ne andò. Anzi, alla sua minaccia silenziosa si aggiunse una voce denigratoria, all'interno della mia testa, che mi informava che i geni di mia madre e la sua schizofrenia stavano iniziando a fare effetto.
Cercai di ignorare in tutti i modi entrambe quelle presenze inquietanti e se, dopo una dovuta opera di auto-rilassamento, le accuse che mi stavo facendo inconsciamente da solo si affievolirono, quella presenza non accennava ad andarsene.
Aspettai quanto più tempo potei, davvero, ma alla fine dovetti alzare lo sguardo per accertarmi che la mia allucinazione fosse davvero lì e, soprattutto, che cosa potesse mai rappresentare.
Deglutii rumorosamente, conscio di essere il solo ad essere ancora in ufficio, e mi voltai di scatto.
Fu in quel momento che la vidi per la prima volta.
Non era un'ombra, era una donna. Una ragazza, forse.
Non riuscivo a distinguerne i tratti del volto, troppo mascherati da una zazzera di arruffati capelli rosso fuoco che le ricadevano sulla fronte e sugli occhi e da uno spesso strato di una sostanza vermiglia che sembrava decisamente sangue, ma di certo doveva essere umana. La scrutai con occhi indagatori, ipnotizzato da quell'immagine terribile, e quando riuscii a scuotermi dallo stupore per quella visione capii perché di primo acchito mi era sembrata un'ombra.
Era scura. Sporca.
Non capii se fosse terra, fuliggine o che altro, ma sapevo che non avrebbe dovuto essere così sporca.
E poi, grondandogli addosso come l'acqua da un lavandino rotto, gocce vermiglie le si allargavano sui vestiti sudici, lungo le braccia mortalmente pallide, fin sotto i piedi nudi e feriti.
Me ne stavo lì, a bocca aperta, a cercare di dare un significato a quell'incubo divenuto realtà, quando la testa si alzò con un movimento secco.
Corsi via, più velocemente che potei, sperando di riuscire ad arrivare ai bagni maschili prima che il conato di vomito avesse la meglio su di me. Mi gettai nel primo cubicolo libero che trovai e, mentre dicevo addio per sempre al mio pranzo, la mia mente continuava a rievocare un paio di occhi lividi e iniettati di sangue.

   
 
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