Mi
svegliai di soprassalto, per l'ennesima notte di fila, e come al
solito mi ritrovai seduto sul letto, i battiti accelerati del mio
cuore che mi pompavano un ritmo frenetico nelle orecchie.
Mi
passai una mano tremante sulla fronte, scostando così
malamente i
capelli che vi erano rimasti appiccicati a causa dello spesso strato
di sudore freddo che me la imperlava.
Gli
incubi stavano peggiorando.
O,
perlomeno, supponevo fossero incubi.
La
verità era che ogni volta, al mio risveglio, non riuscivo a
ricordare nulla di quello che turbava il mio sonno, notte dopo notte.
Tutto quello che mi rimaneva in mente era una sensazione di angoscia
quasi palpabile e le scie ormai secche di lacrime che nemmeno
ricordavo di avere versato.
Quindi,
a rigor di logica, dovevano
essere incubi.
Non
era raro averne con un lavoro come il mio.
Quando
mi ero confidato con Morgan a riguardo, il mio amico e collega aveva
riferito quello che all'epoca pensavo fosse un sordido segreto a
Gideon. Mi ero arrabbiato per quell'assoluta mancanza di rispetto per
la mia privacy, ma il consiglio che mi era stato dato da colui che
considero tutt'ora il mio mentore mi aveva aiutato parecchio.
Solo
che, gli incubi non se ne erano mai andati del tutto. Tornavano di
tanto in tanto, facendo capolino nel mio inconscio ad intervalli
irregolari come gli incontri con un conoscente con cui bevi una tazza
di caffè ogni tanto. Sapevo gestirli, quegli incubi. Ma
questi...
Stava
diventando sempre più difficile convincere JJ che i cerchi
violacei
sotto i miei occhi non erano affatto sintomo di niente di
preoccupante, ma soltanto la somma di troppo lavoro e una carnagione
eccessivamente chiara su occhi un po' infossati. Sfuggire al suo
sguardo corrucciato, decisamente materno nella sua preoccupazione,
era diventata la mia nuova missione quotidiana.
Così
come rispondere evasivamente e senza sbilanciarmi troppo alle domande
di Derek ed Emily. O come cercare di ignorare gli sguardi indagatori
e carichi di sospetto di Rossi ed Hotch.
Esattamente
come durante tutte le altre notti in cui quei demoni invisibili e
maligni venivano a tormentarmi, abbandonai il mio letto e mi diressi
in bagno. Non potei fare a meno si aggrapparmi alla fredda ceramica
del lavabo con tutta la mia forza, quasi che quello fosse l'unico
appiglio a tenermi in piedi a discapito della mia stanchezza. Ero
esausto e, quando alzai gli occhi per scrutare la mia immagine
riflessa, potevo capire perché i miei amici, la
mia famiglia,
fossero così preoccupati per me. I miei occhi scuri,
infossati ed
enormi, sembravano angosciati da qualcosa di terribile. E, mentre i
giorni passavano e continuavo a non riuscire ad allontanare quella
tremenda sensazione che mi torturava l'anima, capivo che non sarei
riuscito ad andare avanti così.
Mi
sciacquai il volto con dell'acqua ghiacciata e tornai a fissarmi
negli occhi con determinazione: se riuscivo ad ingannare i miei
colleghi, sarei stato in grado di farlo anche con me stesso.
Stavo
bene, mi dissi in un sussurro, ripetendo quelle due parole come un
mantra.
Stavo
bene.
Era
solo un'allucinazione. Niente di più.
Avevo
dovuto far passare ben cinque minuti in cui la parte empatica del mio
cervello continuava a cercare di formulare spiegazioni logiche a
quello che avevo scorto con la coda dell'occhio poco prima.
Eravamo
atterrati da poco dopo il volo da Charleston e io avevo ancora la
tracolla sulle spalle quando vidi per la prima volta quella...cosa.
Non
ero certo che fosse una persona, anche se la sagoma, scura e
minacciosa, aveva di certo un che di antropomorfo.
La
mia prima reazione era stata quella di far cadere la mia borsa da
viaggio e di sbattere le palpebre ripetutamente, come se quel
semplice gesto potesse cancellare in un sol colpo un'immagine che
era, doveva essere, solo
nella mia testa.
A
discapito di ogni mio tentativo, però, l'ombra non se ne
andò.
Anzi, alla sua minaccia silenziosa si aggiunse una voce denigratoria,
all'interno della mia testa, che mi informava che i geni di mia madre
e la sua schizofrenia stavano iniziando a fare effetto.
Cercai
di ignorare in tutti i modi entrambe quelle presenze inquietanti e
se, dopo una dovuta opera di auto-rilassamento, le accuse che mi
stavo facendo inconsciamente da solo si affievolirono, quella
presenza non accennava ad andarsene.
Aspettai
quanto più tempo potei, davvero, ma alla fine dovetti alzare
lo
sguardo per accertarmi che la mia allucinazione fosse davvero
lì e,
soprattutto, che cosa potesse mai rappresentare.
Deglutii
rumorosamente, conscio di essere il solo ad essere ancora in ufficio,
e mi voltai di scatto.
Fu
in quel momento che la vidi per la prima volta.
Non
era un'ombra, era una donna. Una ragazza, forse.
Non
riuscivo a distinguerne i tratti del volto, troppo mascherati da una
zazzera di arruffati capelli rosso fuoco che le ricadevano sulla
fronte e sugli occhi e da uno spesso strato di una sostanza vermiglia
che sembrava decisamente sangue, ma di certo doveva essere umana. La
scrutai con occhi indagatori, ipnotizzato da quell'immagine
terribile, e quando riuscii a scuotermi dallo stupore per quella
visione capii perché di primo acchito mi era sembrata
un'ombra.
Era
scura. Sporca.
Non
capii se fosse terra, fuliggine o che altro, ma sapevo che non
avrebbe dovuto essere così sporca.
E
poi, grondandogli addosso come l'acqua da un lavandino rotto,
gocce vermiglie le si allargavano sui vestiti sudici, lungo le
braccia mortalmente pallide, fin sotto i piedi nudi e feriti.
Me
ne stavo lì, a bocca aperta, a cercare di dare un
significato a
quell'incubo divenuto realtà, quando la testa si
alzò con un
movimento secco.
Corsi
via, più velocemente che potei, sperando di riuscire ad
arrivare ai
bagni maschili prima che il conato di vomito avesse la meglio su di
me. Mi gettai nel primo cubicolo libero che trovai e, mentre dicevo
addio per sempre al mio pranzo, la mia mente continuava a rievocare
un paio di occhi lividi e iniettati di sangue.