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Autore: Hiromi    22/11/2011    8 recensioni
"Tesoro, è finita l'era dell'anti-innocenza: qui le persone girano come trottole ventiquattr'ore al giorno per lavorare, studiare, e per fare sesso - hai capito bene: Sesso! - Cupido è volato via dal condominio sdegnato e il principe azzurro per la disperazione è diventato gay!"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Hilary, Mao, Mariam
Note: Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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If I say I don't need anyone
I can  say these things to you 
'Cause I can turn on any one 
Just like I turned on you 
I've got a tongue like a razor 
A sweet switchblade knife 


Rocket Queen Guns ‘n’ Roses

 

*****************

 

 

Quando finiva con gli allenamenti era sempre distrutto; se poi erano con Boris e Sergey, allora era un uomo morto: quei due erano delle macchine da guerra, delle autentiche furie combattive; allenarsi in loro compagnia era interessante, costruttivo e senza dubbio serviva per affinare le sue tecniche di gioco, ma dopo delle ore i suoi muscoli avevano bisogno di un certo riposo, e a ragione…

 

Dirigendosi verso il bar dell’hotel, decise rapidamente cosa voleva mangiare, onde evitare di perder tempo, ma fu bloccato pochi metri prima da una musica proveniente da una delle sale… Non era certo il suo genere, era più una di quelle danze latinoamericane che si ballavano in gruppo, ma ebbe il potere di farlo arrestare bruscamente.

 

Non si chiese nulla: si avvicinò alla porta socchiusa per poi sgranare gli occhi vedendo una ragazza che conosceva bene ballare al ritmo di quella musica che pareva prenderla fino in fondo.

Avvolta in un vestitino bianco bordato d’oro che lasciava veramente poco all’immaginazione e sottolineava invece la sua perfetta abbronzatura, Julia Fernandéz era bellissima, con i capelli raccolti in una coda scomposta da cui fuoriuscivano due o tre ciocche che le rendevano il viso ancora più selvaggio ed intrigante.

 

Incredibile il modo in cui sapeva ballare quella danza caliente ed appassionante come lei, assurdo come si muoveva, ed inconcepibile pensare come ogni volta sapesse sorprenderlo, giocandolo sempre in contropiede e scoprendo un lato di sé che non conosceva. Quante sfaccettature aveva la Fernandéz?

 

Osservandola, Yuri sentì una strana carica scorrergli vicino, e la riconobbe subito: era l’attrazione che la legava a lei, il calore che la spagnola sprigionava – forte, intenso, lacerante – che lui voleva e desiderava. Che pretendeva.

 

All’improvviso la musica cessò, e l’istante dopo la porta si aprì di scatto. “Non te l’hanno mai detto què no es bueno espiar las chicas que bailan?” la domanda fu posta con il suo classico sorrisetto furbo sulle labbra che tante volte le aveva visto indossare.

 

Possibile che quella ragazza lo mettesse sempre in difficoltà, non si curasse di niente, che fosse sempre con quel sorrisetto scanzonato e furbo sulle labbra, come a prendersi gioco di lui? Sorprendentemente la cosa lo attirava da morire; fossero state altre ragazze si sarebbe irritato, invece se si trattava di lei era tutta un’altra storia. Si sentiva sempre, perennemente attratto da quella tipa così diversa da lui, costantemente pronto ad ingaggiare una battaglia verbale che poi costantemente finiva in qualcosa di più…

 

“Scusa tanto, ma non potevo certo perdermi il tuo ultimo hobby.” Ribatté con voce glaciale e canzonatoria insieme, inarcando brevemente le sopracciglia.

 

Julia scoppiò a ridere, e fu come udire un trillo di campanelli: era rumorosa, una casinista implacabile, ma la cosa lo attraeva.

“Solitamente ballo con mio fratello, ma è da un paio d’anni che abbiamo smesso.” Spiegò, entrando in palestra e storcendo il naso. “Ti sembra? Tango es… ¡Pasion, calienza, ardor!” smanettò, facendogli capire con quel flusso di parole quanto fosse interessata anche a quel tipo di sport. “Non potevo mica avere tutte queste cose con mi hermano!”

 

Lui incrociò le braccia al petto con fare disinteressato e neutro. “Certo.”

 

Julia roteò gli occhi per poi sbuffare. “Ivanov, me das asco.”*

 

Lui ostentò un’espressione divertita. “Non so cosa voglia dire, ma-”

 

“Non è un complimento.” Lo interruppe la madrilena. “E ora sparisci. Me gustaria bailar.”*¹

 

Scrollando le spalle, si sedette in prima fila, ponendo una caviglia sul ginocchio e guardandola con aria di sfida. “Balla, allora.”

 

Lei puntellò una mano su un fianco, scuotendo la testa. “Nada de nada. O te ne vai o balli.”

 

“Non mi piacciono i ricatti.”

 

Lei sogghignò. “A mi non me gusta el lunes, ma la domenica arriva siempre.” *²

 

Trattenne un pesantissimo sbuffo: quella ragazza riusciva sempre a metterlo con le spalle al muro: come diamine ci riusciva? “Bene, allora.” Sibilò, alzandosi.

 

La spagnola esibì un sorrisetto sfrontato e di puro divertimento mentre lo fissava attraversare la stanza facendo per uscire. “Vai pure… Non mi aspettavo altro.”

 

Si bloccò di scatto, fissandola in maniera torva. “Cioè?”

 

“Sei sempre così… Prevedibile, noioso, scontato. C’è mai stata una volta in cui tu mi abbia sorpresa?” al sorriso malizioso di lui, fu costretta a schioccare le labbra. “Fuori dalla camera da letto.” Precisò. “Sei uno tutto d’un pezzo, incapace di emozioni forti a meno che non si parli di orgasmi, e io trovo tutto questo… Triste.”

 

“Non lo trovi triste quando siamo soli, però.” Obbiettò lui, piccato.

 

Julia scrollò le spalle, divertita. “Sarei una bugiarda a contraddirti, ma la verità è che ritengo che tu sia uno che si nasconda dietro quei silenzi arrabbiati e che, ancora peggio, si sfoghi con il sesso. ¡Que tristeza!”

 

Man mano che parlava, si sentì ardere dalla rabbia e il bello era che non se ne seppe spiegare il motivo: l’avevano spesso criticato, gliene avevano dette di tutti i colori, ma le cose gli erano sempre scivolate addosso; perché, in quel momento, in quel posto, con quella dannata spagnola davanti quelle parole acquisivano significato e spessore? Chi era Julia Fernandéz per sconvolgerlo in quel modo?

 

Furioso e spaesato – e non era da lui! – si avvicinò allo stereo sorprendendo prima di tutti se stesso. “Vediamo se sai essere una buona insegnante o sai soltanto criticare.”

 

Quando lo vide premere il tasto play, Julia spalancò occhi e bocca per una trentina di secondi, infine scoppiò a ridere. “Muy bien, Ivanov: uno ad uno. ¿Ma como se dicen? ¡Donde las dan, las toman!”*³ fece, ridacchiando, ancora incredula.

Si pose dinnanzi a lui con uno sguardo che era un mix tra altero e divertito, e gli pose le mani sulle braccia, facendolo posizionare adeguatamente. “Piedi uniti.” sussurrò; se avesse conservato la sua espressione divertita il russo si sarebbe spazientito ed indisposto, invece aveva tramutato il sorriso in uno decisamente più dolce e professionale.

 

Mossero i primi passi verso sinistra, con una madrilena che conduceva per fargli capire come doveva muoversi e un Yuri impacciato e poco a suo agio.

La musica era coinvolgente, i ritmi sensuali, lei era tollerante e pazientissima, pareva non curarsi delle volte in cui le pestò i piedi… Era lui a rendere tutto il quadretto storto.

 

Ma ad un certo punto le note si fecero ancora più sensuali di prima, più incalzanti, e la spagnola affilò lo sguardo, cominciando a fissarlo in maniera libidinosa; i suoi occhi verdi parevano essersi piantati in quelli color ghiaccio del russo, e ardevano in tutto il loro calore.

Una foresta che bruciava in balia del fuoco più intenso e selvaggio: potevano un semplice paio di occhi farlo sentire così? Come il fuoco che notoriamente scioglie il ghiaccio, il quel frangente le iridi di Julia lo stavano fissando in maniera così intensa da farlo sentire quasi scavato nel profondo.

Una sensazione che non seppe definire.

 

La musica si interruppe per un secondo con uno stacco, e la ragazza sorrise, maliziosa, alzando la gamba voluttuosamente piegata che andava a finire sul fianco di lui.

Il gesto di carezzare la pelle della coscia coperta da quel vestitino bianco gli venne naturale, spontaneo, così come quello di fissarla negli occhi non appena la musica ripartì, l’istante successivo.

 

Julia lasciò una sua mano e portò in alto l’altra, facendo una piroetta e finendo – per come lo aveva programmato lei – nella stessa identica posizione di prima.

Fu lui ad attirarla a sé con un brusco gesto del polso facendola finire a due millimetri da se stesso. Quello che successe, il perché un istante dopo si stessero baciando in maniera così furiosa, agitata e vorace, o perché quello successivo si stessero rotolando per terra strappandosi i vestiti di dosso come mossi da una furia che mai avevano sperimentato tranne quando erano l’uno in compagnia dell’altra, rappresentava un’incognita a cui, per il momento preferivano rispondere con il nome di attrazione.

 

 

 

* “Mi dai noia.”

*¹ “Mi piacerebbe ballare.”

*² “A me non piace il Lunedì, ma la Domenica arriva sempre.”

*³ “Chi la fa l’aspetti!”

 

 

 

Il giorno prima era stato una gratificante giornata di riposo, in cui aveva potuto partecipare al torneo in santa pace, tornare a casa e riposare per poi dormire, dormire, dormire.

Non era mai stata una persona pigra, ma era incredibile come si fosse ridotta a riposare circa quattro ore a notte – cinque se le andava di lusso. Delle occhiaie paurose avevano iniziato ad apparire, occhiaie che stonavano con la sua pelle nivea e facevano a pugni con i suoi occhi verde smeraldo. Sospirò, contrariata: probabilmente avrebbe dovuto iniziare a mettere uno di quei correttori che le altre sue amiche usavano tanto…

 

Si diresse verso la biblioteca della zona, una grande struttura che ancora non aveva visitato: se visitava una città, grande o piccola che fosse, doveva andarne a vedere le biblioteche antiche. Non quelle moderne, le multimediali con tutte quelle tecnologie che non sapevano più di nulla e rendevano la struttura spoglia ed insignificante, ma le biblioteche comunali, quelle dove ci si poteva imbattere in libri antichi e polverosi, tomi che avevano una loro storia, che magari avevano fatto scalpore…

 

Quando entrò, salutò le signore che stavano dietro la scrivania con un cenno, dopodiché si immerse negli scaffali, perdendosi in quei libri che sapevano di antico e di vissuto. Ne riconobbe molti, si emozionò quando ne trovò alcuni già letti, e ne prese uno che era bello pesante, ingiallito, e lo avvicinò al viso-

 

“Sei ancora una sniffatrice anonima, a quanto vedo.”

 

Spalancò gli occhi quando se lo ritrovò lì, sbattendo le ciglia per accertarsi di aver visto bene: che ci faceva in una biblioteca?

Non lo vedeva dalla sera delle fresie, e al torneo, il giorno prima, malgrado lo avesse incrociato, si era limitato a rivolgerle un sorriso e nulla di più. Invece in quel frangente eccolo lì, il sole in persona, con quei capelli biondissimi e quel viso tempestato di lentiggini che un anno prima si divertiva a contare fino alla confusione per poi iniziare da capo, sempre.

 

“Ogni libro ha un profumo proprio.” Ribatté, rimettendo quello che stava stringendo al suo posto.

 

“Ah, lo so. Me lo hai detto tu.”

 

 “Che ci fai qui?”

 

Max non smise di sorridere, ma stavolta le sue labbra si curvarono in una smorfia ancora più dolce. “Ti ho cercata dappertutto, come al solito.” Spiegò, avvicinandosi. “A casa non c’eri, all’Avalon non c’eri, sono andato al Plaza e tuo fratello mi ha detto che eri appena andata via… E ho cominciato a dannarmi, come al solito.” Sospirò, divertito. “Com’è che mi danno sempre, se ci sei tu di mezzo?”

 

Potrei farti la stessa domanda. “E’ una tua scelta.” Rispose, fredda, incrociando le braccia al petto.

 

L’americano annuì, come fosse completamente d’accordo. “Vero.” Si avvicinò ulteriormente e la vide sgranare gli occhi quando le ravviò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio. “Buon compleanno, Mari.”

 

Il cuore di lei prese a battere alla velocità della luce, come volesse fuoriuscire dalla gabbia toracica, ma fu lei stessa a dominarsi e a dare l’impressione di un distacco che era ben lungi dal provare, nonostante l’improvviso tenue rossore delle guance. “Grazie.” Mugugnò, accettando di prendere il sacchettino che le porgeva. “Ma non dovevi. Odio il mio compleanno.”

 

 “Lo so, ma mi è venuto spontaneo.”

 

Gli lanciò una breve occhiata. “Non avevo dubbi.”

 

Lui, per tutta risposta, ridacchiò, divertito. “Ti lascio al tuo regalo, mi farai sapere cosa te ne è sembrato.” Con un cenno della mano la salutò, andando via e uscendo dal suo campo visivo.

 

Mariam si accigliò dello strano comportamento del suo ex ragazzo, ma decise di non darvi peso, uscendo da quella biblioteca e ritrovandosene fuori solo due minuti dopo.

Non era mai stata una ragazza dalla curiosità morbosa ed invadente, eppure quando si ritrovò fuori dall’edificio la prima cosa che fece fu aprire il sacchettino e vedere cosa vi era dentro.

Qualcosa che non fece altro che scatenare ricordi su ricordi. Come sempre.

 

 

“Si può sapere cos’è che cerchi così forsennatamente?” il tono del ragazzo era quasi annoiato, un po’ stanco, ma lei non gli diede peso: sapeva di averlo trascinato ininterrottamente in tutte le librerie, edicole e biblioteche di Washington per due giorni, ma pensava che in una città così grande ci fosse quello che cercava, e invece…

 

“Signorina, dobbiamo chiudere.” Dietro al bancone, il tizio lì seduto fu irremovibile. Mariam lo fulminò con lo sguardo, prima di uscire dalla libreria e sbuffare; Max le fu subito dietro, e il suo sguardo interrogativo la spinse a sorridere, se non altro.

 

Leabhar Gabhála na hÉireann.” Per la sua faccia quando pronunciò le parole in irlandese antico, scoppiò in una sonora risata. “E’ il titolo del libro.”

 

Max la fissò riducendo gli occhi a due fessure, in uno sguardo quasi solenne. “Ridillo.”

 

Leabhar Gabhála na hÉireann.Le braccia di lui la strinsero in un abbraccio sensuale, e fu assolutamente spontaneo per lei stringerlo a sé a sua volta. “Cos’è, ti piace la lingua irlandese?”

 

Max esibì un sorriso furbastro. “No, sei tu che sei sexy quando lo parli.” Mormorò, prima di baciarla. “Perché lo cerchi?”

 

E’ il titolo di una collezione di storie in poesia e prosa in medio irlandese; parla della storia dell'Irlanda e dei suoi popoli dalla creazione del mondo al Medioevo. E’ un'importante testimonianza riguardo la letteratura celtica; ce l’ho in inglese e vorrei avercela in lingua originale.

 

Lui rise. “Se nelle librerie ci sono libri in Indi e in turco, dovrebbero avere anche quello che chiedi.”

 

“E’ quello che dico io.” Mugugnò lei. “Ma prima o poi sarà mio.”

 

 

E lo era stato, esattamente un anno dopo. Eccolo lì, tra le sue mani, una copia del libro da lei più agognato e venerato, tutto per lei e solo per lei.

Emozionata e con il batticuore, aprì la prima pagina, trovandosi di fronte qualche riga scritta in corsivo.

 

 

“Ci eravamo incontrati perché doveva accadere, e anche se non fosse successo, ci saremmo comunque incontrati da qualche altra parte.”

Sei stata tu a leggermi questa frase, quel giorno, e io non l’ho mai dimenticata.

Ho spostato le montagne per avere questo libro e fare in modo che ti appartenesse, perché te lo meriti, così come ti meriti il meglio; sempre.

Max

 

Si appoggiò a muro, puntando gli occhi verso il cielo. Malgrado tutte le sue ritrosie, tutti i suoi tentativi di mostrarsi gelida ecco che c’era sempre qualcosa che mirava a sfondare tutte le sue difese. Poteva negarlo o meno, ma era consapevole che quei piccoli gesti mischiavano le carte in tavola.

 

 

 

 

 

Il non sapere cosa rispondere alla domanda di Rei gli fece pensare principalmente due cose: primo, che si era definitivamente fottuto il cervello; secondo, che anche il suo migliore amico non scherzasse in quanto neuroni fusi. Evidentemente, dopo una decina di gloriosi anni passati come bladers, ora si ritrovavano a scoprire che il troppo beyblade era dannoso.

 

“Non rispondi?” Rei incalzò con un sorrisetto quantomeno irritante che gli fece girare le scatole e fissarlo male. La domanda incriminata era, sostanzialmente, una: che te ne frega di che concezione ha Hilary del mondo, degli uomini? Non sarà che ti piace?

 

Inizialmente aveva subito risposto di no, ma era suonato falso alle sue stesse orecchie, e lui era tutto, tranne che un bugiardo.

Poi Rei aveva incalzato, chiedendogli se il suo fosse coinvolgimento mentale, fisico o entrambi, ed era stato allora che era calato il silenzio.

 

In quel frangente, il russo si sentì prendere da una rabbia cieca e controversa: perché quelle domande? Cosa ne sapeva lui stesso dei suoi sentimenti? Cos’erano, due dodicenni alla prima cotta? E perché il fatto – evidente – di non saper decifrare i propri sentimenti lo irritava da morire?

 

 

Rei capì il suo silenzio e decifrò all’istante quei lineamenti distorti dal nervosismo, decidendo di non chiedere altro: capiva di averlo messo abbastanza in crisi, e capiva anche che per Kai Hiwatari c’era un limite a tutto, nonostante lui stesso sostenesse di volerli superare e abbattere, questi limiti.

“Ci faranno impazzire.” Mormorò Rei, riferendosi alle ragazze in generale e cambiando cautamente discorso. “Lai è su tutte le furie perché Mao si frequenta con un ragazzo da un paio di settimane e non gliel’ha nemmeno presentato.”

 

Il russo lo fissò brevemente. “E tu?”

 

Il cinese fece una smorfia sgradevole. “Io… Ci ho pensato.” Fece, dosando attentamente le parole.

 

Kai conosceva Rei da otto anni: era sempre stato rivestito della carica di spartiacque, di saggio del gruppo, di persona matura, che prima pensa e poi parla. Rei faceva parte di quella cerchia ristrettissima di persone per la quale provava una stima sconfinata; il cinese non l’aveva mai abbandonato a se stesso, era sempre stato un amico sincero, leale, e l’aveva sempre capito con un solo sguardo.

Sapeva che in quel periodo, come lui d’altronde, si stava confrontando con sentimenti più grandi di quelli che pensava di provare, ma era una cosa nuova per lui. Il fatto di vederlo irascibile, nervoso… Geloso, era qualcosa di nuovo per chiunque, visto che lui non perdeva le staffe facilmente.

 

Gli chiese di continuare con uno sguardo e Rei fece un sospiro. “Ho pensato al mio comportamento ingiusto e ingiustificato, al fatto che ho totalmente perso la testa e non avrei dovuto, quindi-”

 

Chissà come mai aveva la sensazione che quello che stava per dire non gli sarebbe piaciuto. “Quindi?”

 

“Sta con un ragazzo, è contenta. Mi devo fare da parte.”

 

Kai inarcò le sopracciglia fino a farsele finire nei capelli. “Che stronzata.”

 

L’orientale assunse un’espressione pressoché confusa. “Che devo fare? Lei è passata avanti, ha fatto le sue esperienze, e se le facevo capire che magari-”

 

Lo freddò con un’occhiata per poi sospirare pesantemente. “Non devi farle capire. Devi agire. Dici che ti farai da parte, ma la domanda è: è davvero quello che vuoi?” al viso sconsolato dell’amico, il russo rispose inarcando le sopracciglia. “Infatti. Se vuoi una cosa, prendila.” Fece, incamminandosi per andarsene.

 

Rei sorrise, immediatamente più sollevato da quella chiacchierata che gli aveva schiarito le idee. “Kai?” il moscovita arrestò la sua camminata. “Lo stesso vale per te.”

 

 

 

 

 

Si era preoccupata non vedendolo arrivare, ma in quel frangente, esattamente due ore dopo, aveva lasciato ogni ansia dietro le spalle. Un po’ come Freddie che, con loro nell’appartamento, sonnecchiava placidamente nella sua poltrona mentre loro erano decisamente più impegnati.

 

Mao avrebbe potuto pensare al fatto che quando lui si era presentato da lei – in ritardissimo – si era a malapena scusato e poi l’aveva baciata spingendola sul divano; avrebbe potuto pensare alla sua pelle fredda e alla sua aria sconvolta.

Semplicemente, però, aveva trascurato ogni cosa: sdraiata sul divano, con lui intento a farle dimenticare ogni cosa, si ritrovò a roteare gli occhi quando sentì la bocca di lui scendere sul suo collo. Fece per togliergli quella fastidiosissima giacca di pelle, ma non appena mise le mani sopra e minacciò di tirarla un po’ più giù, ecco che l’atmosfera si ruppe, e bruscamente anche.

 

Lui si staccò di colpo da lei, come spaventato, e lei lo fissò con aria spaventata, smarrita. “Tutto bene?” chiese piano, fissando il non consueto pallore del ragazzo.

 

Le lanciò uno sguardo attonito: come se l’avesse vista per la prima volta in quel frangente, infine si tirò su, palesemente spaventato. “Devo andare.” Biascicò.

Prima che potesse accadere alcunché, la porta della casa venne sbattuta, e Mao si ritrovò sul quel divano da sola.

 

 

 

 

 

“E da quant’è che vi conoscete?”

Hilary fissò Chris, e le venne naturale sorridere: era un ragazzo bellissimo, alto, con due spalle larghe e con due occhi assurdi – non i più belli che avesse mai visto, ma erano belli. Poi era simpatico, divertente. Uscivano insieme da tre settimane ormai, ed era un record per lei. Un record assoluto.

 

“Dalle elementari: Kurt e io siamo sempre stati vicini di casa, ma dopo la scuola ci siamo persi di vista per poi ritrovarci all’università. È l’amicizia più vecchia che ho.”

 

Lei sorrise. “Io e il mio migliore amico ci conosciamo dall’asilo.”

 

Chris si voltò a guardarla. “Siete ancora in contatto?”

 

Hilary scoppiò a ridere. “Eccome! Ce l’avevo tra i piedi fino a ieri, quella testa di cavolo.”

 

“Gli vuoi bene.”

 

Lei scosse la testa. “No, lo adoro, il che è diverso.”

 

Chris la fissò attentamente, e se le sue labbra tradivano un sorriso, i suoi occhi erano serissimi. “Gli sembri molto legata… Ma oltre quest’unico uomo della tua vita potrà mai essercene un altro?”

 

Lei sorrise, furbetta. “Ma c’è.” Fece, spiazzandolo. “Il mio cagnolino Freddie.” E, dopo una risata, lo superò con un saltello, facendosi rincorrere.

 

“Ma così non vale!” anche rincorrendosi nel bel mezzo di Times Square, le persone non facevano caso a loro, proseguendo per il loro percorso ed andando verso la loro direzione, del tutto disinteressati a due ragazzi sorridenti che scherzavano e ridevano tra di loro.

“Ferma, è qui che dobbiamo entrare.” La stoppò all’improvviso il ragazzo, indicando un edificio alto sopra il quale si ergeva un’insegna luminosa.

 

Hilary fissò a bocca aperta prima il locale poi lui. “All’Hard Rock Café?”

 

“Ci eri mai entrata?” prendendola per il braccio la condusse dentro, e la bruna sospirò, riconoscendo tutto quello che mesi prima aveva visto.

 

“Sì, ovvio. Non puoi andare a vivere nella City se non vieni qui almeno una volta.” Bazzicando tra le magliette, i gadget e le chitarre miniaturizzate, presero a scherzare sui vari gusti musicali l’uno dell’altra, pressoché incompatibili. A Hilary piaceva musica che si spostava dal rock al light metal, mentre lui era più sul pop moderno – da Lady Gaga a Christina Aguilera fino a Shakira.

 

Mmm… Sono tutte belle e bionde.” Lo rimbeccò Hilary, con un accenno di finta serietà. “Mi domando se non sia un invito a tingermi i capelli.”

 

Lui la fissò con occhio critico. “Non staresti male.”

 

La giapponese annuì, convinta. “Giusto. Sembrerei un trans.” La loro risata si sparse per tutto il locale, facendo voltare alcune persone e facendo inarcare le sopracciglia specialmente ad una.

 

Chris si voltò leggermente, coprendole la visuale con fare protettivo. “Uhm. C’è un ragazzo che ci sta guardando male. Forse dovremmo andare.”

 

Hilary si voltò nella direzione in cui lui aveva guardato prima per restare basita: perché al sol vedere Kai lì una sensazione di puro senso di colpa le si era fatta strada nello stomaco? E perché lui li stava fissando come ad augurare loro le peggiori torture sulla faccia della terra?

“No, no, lui… Vieni.” In un momento di pura follia, arpionò il braccio del ragazzo, andando verso il russo. Non sapeva perché lo stava facendo – forse per il senso di colpa che non aveva fondamento, forse per provocarlo, o forse per qualche altro motivo che non riusciva a vedere – ma andò lì davanti a lui con un sorriso innocente stampato sul viso.

Kai, ciao. Come va?”

 

La fissò, gelido. “Bene.”

 

“Oh, scusatemi.” Fece, ridacchiando come agitata. “Chris, lui è Kai; Kai lui è Chris. Chris e io-”

 

“Ci stiamo frequentando.” Intervenne immediatamente il newyorkese.

 

Hilary lo fissò, interdetta, aspettandosi di tutto tranne quell’interruzione. “Sì… Esatto.”

 

L’americano parve soddisfatto della sua trovata, perché fissò Kai come se avesse qualcosa in più ed avesse chiarito esattamente come stavano le cose. “Mentre voi due siete amici?”

 

Il russo lo fissò come se al suo posto ci fosse letame anziché una persona vera e propria. Prima rivolse il suo sguardo a lui, poi spostò le sue iridi ametista verso la giapponese. “Sì. Siamo solo amici.” Fece, prima di andare via bruscamente, lasciandoli interdetti.

 

Hilary restò basita, scioccata, sconvolta, quasi inorridita: ce l’aveva con Chris perché aveva marcato il suo territorio come facevano i cani quando si trattava di fare pipì su qualcosa, e ce l’aveva con Kai per averla ferita in quel modo, sottolineando quasi in maniera crudele quel solo.

 

Ah, ma che mi importa!

 

 

 

 

 

Basito, fissò la ragazza che aveva davanti ravviarsi una ciocca ramata dietro l’orecchio e mescolare il brodo che stava cucinando.

Se si parlava di lati nascosti, non pensava che in una come lei ve ne fossero così tanti. Quando gli aveva mandato un sms con su scritto: ‘Vieni da me! Sorpresa. ;D’ non si aspettava certo di trovarla avvolta in un grembiule con i capelli legati come una perfetta massaia. Aveva già preparato e disposto i pesci, fatto il brodo, messo su tre padelle differenti e in quel frangente si stava dedicando a filtrare tutti i brodi che aveva preparato, in una operazione abbastanza complessa.

 

La fissava stordito, come a capire se quella di fronte a lui fosse davvero Julia Fernandéz oppure avesse qualche altra gemella sparsa per il globo…

Quando l’aveva incontrata, anni prima, aveva subito pensato fosse una di quelle ragazze dinamiche ed energiche che non hanno mai passato niente nella vita e che in fondo non hanno alcuno spessore. Che smacco scoprire che non era affatto così.

 

Quando smise di compiere l’operazione, lui sbuffò. “Fernandéz, devo andare via? Sai, non vorrei essere di troppo…” fece, sarcastico.

 

Lei roteò gli occhi, sorridendo. “Se te ho chiamato, tengo una razon, Ivanov.”

 

Il suo sguardo si fece scettico. “Cioè?”

 

“Sei palliduccio.” Spiegò lei, semplicemente. “E io ho pensato che era un po’ che non cucinavo la mi paella de Madrid. Tra un po’ è pronta.”

 

Lui rimase basito. Mentre la osservava trafficare con i vari ingredienti, mescolare il riso, aggiungere il brodo, i frutti di mare e le poche verdure, si chiese perché diavolo lei stesse facendo quello.

 

“Pronta!” La tavola era apparecchiata molto spartanamente, ma quando vi portò lì quel vassoio con quel piatto tipicamente spagnolo perfettamente decorato, tutto prese colore. “Adesso mi dici com’è.”

 

La fissò mentre distribuiva le porzioni, per nulla convinto, poi, quando lei si sedette, la guardò freddamente. “A che pro tutto questo?”

 

Julia accavallò le gambe. “Por qué era tantissimo tiempo que non la preparavo e volevo una cavia.” Fece, annuendo. “E ho falsificato il tuo testamento a mio favore, se tu dovessi morire.”

 

Yuri sbuffò, arrendendosi implicitamente e mettendosi a mangiare il piatto preparato da quella dannata spagnola, che si rivelò essere ottimo. Non pensava che lei sapesse cucinare, ma d’altronde prima di dirle che era stato di suo gusto si sarebbe morso la lingua con i suoi stessi denti.

 

“Allora?” lo sguardo speranzoso di lei era tutto un programma, e si divertì a rispondere con una scrollata di spalle indifferente. “Antipatico.” Soffiò lei, fissandolo, torva. “Comunque sono brava.” Altra scrollata di spalle.

Julia ridacchiò brevemente. “No se cocinar todo… Solo qualcosina. Paella es quello che mi viene meglio por qué mi madre la faceva siempre. Questa è una ricetta di famiglia, diciamo. So cocinar questa, la pasta – me l’hanno insegnato le mie amiche italiane – e la applepie. Poi basta.”

 

“Nient’altro?” chiese, con tono annoiato.

 

Lei scosse la testa. “No, soy terrible nel cucinare carne, la faccio bruciare, oppure la tiro fuori prima ed è cruda.” Scosse la testa. “Diciamo che ho i miei piatti forti.” Fece, deliziata. “¿Y tu?”

 

Si sentì a disagio a quella domanda: non era abituato a parlare di se stesso, ma se lei si era messa in gioco poteva farlo anche lui… No? “Io non ho mai cucinato.” Rivelò, a stento. “E’ Sergey che lo fa, è molto bravo.”

 

Lei annuì, come a prendere atto di quella informazione. “Deve esserci uno che cucina, o sareste morti di fame.” Ridacchiò. “Raùl è più bravo di me, ma lui ama tutto quello in cui può concentrarsi…” sospirò con sguardo lontano, pensando al fratello. “Ultimamente con lui va un po’ meglio, ma... Ti puoi scegliere un amico, non un parente.”

 

Inaspettatamente, Yuri non si perse nemmeno una parola di quel soliloquio, ascoltandolo con molta attenzione. “E una coinquilina?”

 

Julia lo osservò, stranita. “Beh, anche quella te la scegli tu.”

 

“Nessuna delle tue amiche è in casa?”

 

Lei scosse la testa, prendendo a sparecchiare. “No, Hilary aveva un appuntamento, Mariam e Mao ormai staranno lavorando.” Fece, gettando un’occhiata all’orologio.

 

Yuri si guardò intorno: quell’appartamento ordinato e palesemente femminile lo faceva sentire a disagio. “Questo appartamento è strano.” Dichiarò, guardandosi intorno.

 

Julia all’inizio aggrottò la fronte, non sapendo che cosa volesse dire, dopodiché scoppiò a ridere. “So io qual è il tuo problema.” Lo prese per mano, e il contatto generò in entrambi una piccola scarica elettrica che li fece separare bruscamente. “Seguimi.”

Nella stanza attigua vi era un piccolo salotto, con un divano e una poltrona bianca e un piccolo tavolino di vetro.

Alla parete, spiccava, come un pugno in un occhio, un quadro in stile pop art di un bacino femminile, in cui erano messi in evidenza gli slip, la burrosità dei fianchi e il candore di quella pelle.

 

Yuri sgranò gli occhi, fissando prima il quadro e poi lei, che, vedendo la sua espressione, scoppiò nuovamente a ridere. “Vedessi, Kai quando ha messo piede qui non è riuscito a togliere gli occhi di dosso da quel quadro!” esclamò, ridendo. “E tu non sei da meno.”

 

“Questo quadro è-”

 

“Gay.” Julia scrollò le spalle con noncuranza, poi sorrise. “Appartiene alle proprietarie di quest’appartamento. Lesbianas, lesbiche.”

 

Vedere il russo piegare il collo e fissarlo da un’angolazione differente fu ancora più divertente. “Ora si spiegano molte cose…

 

Con un’espressione divertita sul volto, Julia si andò a sedere sul divano, attirando a sé le ginocchia e fissando il ragazzo che stava ancora guardando il quadro. Quando pochi istanti dopo lui la raggiunse, sedendosi accanto a lei, gli rivolse un sorriso. “Vuoi che ti vada a prendere una birra?”

 

“Hai qualcosa di più forte?” chiese, dopo averci pensato un istante.

 

La spagnola si alzò pigramente dal divano, stiracchiandosi leggermente. “Vado a controllare.” Il ragazzo la fissò sparire dalla sua visuale e si concentrò per non sentire il senso di colpa invaderlo quando lei cominciò a trafficare con le bottiglie in frigo. “Abbiamo del rum, della vodka e della birra. Nient’altro di alcolico.”

 

Prese la sua decisione in maniera rapida ed indolore. “Vodka liscia.”

 

Il viso di Julia fece capolino dalla stanza in una smorfia. “Ci vai su pesante, chico…” qualche istante dopo tornò con il bicchiere per lui e con una bottiglia di birra per lei; si accoccolò sul divano con le gambe attirate a sé come prima e stappò la birra. “Da quando suono con il gruppo esta cerveza aquì es la mi favorida.”*

Yuri non la ascoltò per la prima volta nella serata: fissò il liquido ambrato con sguardo deciso, dopodiché lo bevve tutto d’un fiato, facendo restare la spagnola pressoché turbata.

“Non dovresti andarci giù così pesante.”

 

“Non è niente.” Ribatté lui.

 

La ragazza sospirò, decidendo di cambiare discorso. “Sai che comunque ti trovo più colorato in viso? Sarà la mia paella? Se mi dici che è la vodka mi incazzo.”

 

Lui si voltò a fissarla, deciso, e quando la prese tra le braccia la sola cosa che poté fare fu lasciar andare la birra sul tavolino ed abbandonarsi al suo bacio travolgente.

Adorava affondare le dita nei suoi capelli, adorava baciarlo ed emettere gemiti quando ci andava giù pesante – perché anche quello era un frangente in cui non conosceva mezze misure – così come adorava sentire le sue dita fredde scorrere sulla sua pelle, volte ad accarezzarla oppure a tentare di sganciare il reggiseno; impazienti, febbrili, smaniose quelle dita.

 

Lo aiutò a toglierle il reggiseno e lei gli tolse la maglietta, che volarono sul pavimento, così come vi andarono a finire il gilet, la maglietta di lei, e la sua cintura.

Quando prese a baciarle il collo, Julia non poté far altro che chiudere gli occhi e rovesciare indietro la testa, sentendosi trasportata a tre metri da terra.

Ma fu un rumorino stridulo ed acuto, piccolissimo e sottile proveniente dal ragazzo a farle sgranare gli occhi. Un’altra persona non se ne sarebbe accorta, ma lei che fin da piccola era stata abituata ad ascoltare il mondo attorno a sé, sì.

 

Quando alzò lo sguardo e trovò Yuri fissarsi come se qualcosa di terribile stesse accadendo, non seppe cosa fare: d’un tratto pareva esser divenuto di un pallore spettrale, e stava iniziando a respirare a scatti.

 

Non ebbe tempo nemmeno di chiedergli come si sentisse o se avesse bisogno di qualcosa, perché cadde in avanti e lei ebbe la prontezza di togliersi da lì, per non rimanervi incastrata.

Confusa, frastornata, con la stanza attorno a sé che ruotava, Julia chiuse per un attimo gli occhi, tentando di far mente locale.

 

Si rivestì in fretta e in furia ed acchiappò il cordless, chiamando l’ambulanza. Non osò fissare quel ragazzo steso sul suo divano non perché le avrebbe fatto impressione, ma proprio per paura. Dannata, dannatissima paura.

 

 

 

* “Questa birra qui è la mia preferita.”

 

 

 

Due taxi inchiodarono derapando nello stesso istante, nello stesso punto: da uno vi scese l’intera squadra della Neoborg meno un componente, dall’altro una Hilary Tachibana che, scarmigliata e paonazza, si diresse verso di loro palesemente sconvolta.

“Dove sono?” Kai notò immediatamente il suo rivolgersi a Sergey, ragion per la quale la freddò con lo sguardo e passò avanti, facendo ondeggiare la sua sciarpa bianca.

 

“Non lo sappiamo, ci ha telefonato la tua amica due minuti fa e siamo corsi.”

 

La bruna annuì, dirigendosi con la squadra verso il bancone dove un’infermiera diede loro le informazioni verso dove andare. I corridoi dell’ospedale erano simili gli uni agli altri, talmente da generare confusione, ma quando, dopo un paio di minuti, trovarono una Mao che abbracciava una Julia palesemente pallida e sconvolta, capirono di essere arrivati a destinazione.

 

“Cos’è successo?” Boris si rivolse alla madrilena, e la squadrò con la faccia di uno che ha fatto due più due.

 

La spagnola si morse le labbra. “¡No lo sé! Eravamo nel mio appartamento, gli avevo preparato la paella, poi abbiamo chiacchierato, ci siamo presi da bere-”

 

Quando lo disse, tra i russi vi furono reazioni differenti: Kai inarcò le sopracciglia, Boris imprecò e Sergey si diede una manata in fronte.

 

“Non mi vogliono dire niente.” Il tono di Julia era rabbioso. “Sono lì e non mi vogliono dire niente.” Ringhiò. “Io aspetto mezz’ora, dopodiché entro e li prendo tutti a calci nel sedere!” abbaiò.

 

Un rumore di passi li fece voltare tutti. “Se avevo qualche problema nel trovarvi, ora eccovi.” Mariam sorrise, e quando la vide, la spagnola si gettò tra le sue braccia. “Cos’è successo? Come mai sei qui?” le domandò dolcemente, stringendola.

 

La domanda fece ammutolire la diretta interessata e puntare gli occhi di tutti addosso a lei. “Yuri è sentito male e io l’ho accompagnato.” Balbettò, arrossendo.

 

“E’ lui il ragazzo misterioso con cui ti vedevi.” La frase di Mao diede voce ai pensieri di tutti che si fissarono, interdetti.

 

“Non mi vedevo!” saltò subito su la ragazza. “Noi eravamo…” e lì non ci fu bisogno di alcun continuo: il suo rossore fece capire a tutti molte cose.

 

Hilary fissò l’amica, non riuscendo a credere che lei e Yuri avessero condiviso qualcosa di più che un campo di beyblade. Cos’avevano in comune lei e Ivanov dei Neoborg? Assolutamente nulla. Eppure era lui il ragazzo da letto di cui Julia parlava fino allo sfinimento, quello che la faceva tremare di piacere con un solo sguardo.

“Vado a prendere un caffè.” Annunciò all’improvviso, sentendo l’estremo bisogno del magico binomio caffeina e nicotina.

 

 

 

Doveva smetterla di specchiarsi; ogni qualvolta si avvicinava ad uno specchio, per grande o piccolo che fosse, rabbrividiva sempre per il pallore della sua carnagione, per il contorno occhi degno dei più impressionanti film horror.

Uscì dal bagno delle donne ritrovandosi tra l’antibagno e la porta per uscire, frugando nella sua borsa alla ricerca dell’accendino e delle sigarette, ma sobbalzò quando si ritrovò qualcuno davanti.

“Mi stai sbarrando la strada.”

 

Lei lo guardò, torva. “Sempre una dolcezza infinita, tu.”

 

“Potrei dire lo stesso.” Ribatté Kai. “Chris l’hai già scaricato?”

 

Lei mise una mano sui fianchi, provocatoria. “No, è a casa che mi aspetta.”

 

“Buon per te.” Sibilò, trapassandola con lo sguardo.

 

Incrociò le braccia al petto, furiosa. “Se hai le mestruazioni non venirtela a prendere con gente che non c’entra niente. Risolvi i tuoi problemi per i fattacci tuoi.”

 

 

 

Boris e Sergey stavano parlottando tra di loro, mentre le ragazze si erano sedute in sala d’attesa, tentando di calmare Julia. Il suono dei tacchi di Hilary richiamò l’attenzione di tutti, un po’ per il rumore e un po’ perché quelle decolleté suonavano arrabbiate come la proprietaria: vedendola sfrecciare a grandi passi verso di loro, con lo sguardo che mandava lampi, non ci voleva un genio a capire che qualcosa doveva averla contrariata, per usare un eufemismo.

 

“Scusatemi tanto: gli idioti sono sempre qua e là.” Spiegò, sedendosi e ravviandosi i capelli. “Novità?” Julia scosse la testa, stanca e la bruna annuì per tutta risposta.

 

Dovettero passare due minuti prima che arrivasse Kai e un quarto d’ora prima che un medico si dirigesse verso di loro. Si rivolse a Boris, parlando piano e fitto fitto, dopodiché se ne andò.

“Sta bene.” Il russo chiuse un attimo gli occhi, tradendo la sua preoccupazione. “Se vogliamo possiamo vederlo.”

 

Julia si passò stancamente una mano tra i capelli, contenta, dopodiché si rivolse alle amiche. “Ragazze, se volete potete andare, sarete stanchissime… Io rimango qui, mi sentirei meglio se gli parlassi.”

 

Mariam si alzò, fissando l’orologio. “Te la senti davvero?” Julia annuì. “Allora non per essere scortese, ma ho dovuto chiedere un permesso a Mitch per essere qui… Se potessi andare…”

 

Hilary si alzò con lei. “Anch’io andrei, se non hai bisogno di me.” Si sentì un mostro quando lo disse: in un altro frangente non si sarebbe mossa da lì nemmeno se fossero state sotto le bombe, ma c’era qualcosa che la spingeva ad andarsene. Qualcuno.

 

Che codarda che sono

 

“No, sul serio, andate.” Si schermì Julia.

 

“Rimango io con lei.” Assicurò Mao.

La giapponese e l’irlandese si fissarono, insicure, ma una volta che le altre due insistettero non si fecero più pregare: ci fu un abbraccio di gruppo, delle raccomandazioni di saluti da portare a Yuri, e cenni di saluti alla squadra russa, dopodiché andarono via. Ma inaspettatamente la bruna al posto di sentirsi più leggera si sentì solo più pesante.

 

 

 

 

 

Dopo aver ascoltato la sfuriata da parte delle sue mamme su quanto si fossero preoccupate, quanto lui fosse irresponsabile e su quanto fossero state in pena, gli venne quasi da ridere se pensava che non erano altri che i nerboruti Boris e Sergey. Possibile che quei due non avessero niente di meglio da fare se non essere ansiosi per lui?

 

Che palle

 

Era svenuto come un allocco; era svenuto come un allocco per di più mentre stava per fare sesso con lei. Tutto per colpa di quel dannato, fottutissimo-

 

“Ehi.” Un lieve bussare alla porta e poi una testa ramata che conosceva bene; qualcosa nelle sue viscere prese a sciogliersi come burro quando in la vide e, due secondi dopo, quando entrò nella stanza senza nemmeno chiedere il permesso, gli parve quasi che tutto avesse assunto più colore nel giro di un istante.

 

Sono fregato.

 

“Eccoti qua.” Julia gli sorrise dolcemente, sedendosi sulla sedia accanto al suo letto. “Non sai che ansia, che ore di merda che ho passato lì.” Fece, mordendosi le labbra.

 

“Risparmiami il resoconto.”

 

Alla gelida stoccata del russo, la madrilena sospirò profondamente, ignorandolo. “Dovevi dirmi che non potevi mangiare e bere determinate cose, dovevi dirmelo accidenti… Io-”

 

Forse fu per il fatto di vederla così arrendevole e dolce, forse fu per i suoi occhi che divennero pericolosamente lucidi; o forse fu per come si sentì dentro – una miscela di emozioni mai provate né sentite.

Fatto sta che l’interruppe prima che potesse dire altro, fissandola quasi con astio.

“Per favore, Fernandéz, risparmiami i piagnistei. Hai fatto la tua parte mandandomi qui anziché all’obitorio, e questo è quanto. Ci vediamo la prossima volta.”

 

Dovette sbattere più volte le palpebre per accertarsi di aver sentito bene, ma quando il messaggio arrivò a destinazione, Julia sentì solo una grande rabbia montarle dentro, insieme ad una sconfinata delusione.

“Sei un ingrato e un incosciente! Non ti rendi conto di quello che hai, perché sei troppo preso dall’essere attaccato a quello che non hai! In queste ore ho visto soltanto un gruppo di amici morti di paura e… Io che a momenti me la facevo sotto! E per cosa? ¡Por un tonto cobarde ingrato y inconsciente!”* strillò, imponendosi di non piangere davanti a lui. “Il soffio al cuore maligno è grave nelle tue condizioni, specie se stuzzichi la malattia, anziché combatterla! Lo sai, vero, che se vai oltre non potrai più giocare a beyblade?” l’ultima frase fu detta quasi con astio, come se riguardasse lei in prima persona. “Se vuoi questo, allora continua pure così.” sputò fuori, prima di prendere la borsetta e andarsene, sbattendo la porta.

 

Avrebbe dovuto farci il callo a restare spiazzato dagli atteggiamenti di quella furia, invece era sempre, perennemente preso in contropiede.

Sprofondò con la testa sul cuscino, chiudendo un attimo gli occhi e ripensando a quello che la ragazza gli aveva urlato fino ad un attimo prima.

 

Sono fottuto.

 

 

 

* “Per uno stupido codardo ingrato e incosciente!”

 

 

 

Troppo nervosa per qualsiasi cosa, Hilary chiuse il libro di spagnolo, sospirando: quella giornata era stata anche troppo piena per i suoi gusti, come lo era la sua vita in quell’ultimo periodo.

Da quando era uscita con Chris, da quando aveva litigato con Kai, da quando lui si era comportato in modo così villano ed antipatico, da quando avevano scoperto con chi era che Julia aveva i suoi incontri ravvicinati del terzo tipo, la ciliegina sulla torta era stata soltanto litigare con quel russo pieno di sé in ospedale e fuggire via come se il torto ce l’avesse lei.

 

Stronzo, idiota, brutto figlio di..!

 

Alzandosi di scatto, andò in cerca delle sue sigarette, accendendosene una velocemente e aspirandone una piena boccata: perché il fatto di avere litigato con lui per l’ennesima volta la faceva sentire così…

 

Di merda? Mi sento una merda, dannazione! E non ho fatto niente di male… Tanto siamo ‘solo amici’! Oooh, lui e la sua testa di cazzo!

 

Imprecando e bestemmiando al pari di uno scaricatore di porto, andò in cerca di un portacenere, e quando lo trovò si sedette sulla poltrona del piccolo salottino accanto alla cucina, conservando la sua espressione accigliata fino a quando un brusco bussare alla porta non la fece saltare in aria.

 

Chi dannazione è, adesso?

 

Andando ad aprire, sbuffò perlomeno tre volte, contrariata: Mariam era al lavoro, Julia e Mao erano in ospedale, quindi… Chi era che osava interrompere il suo momento da ‘come uccidere Kai Hiwatari in quindicimila differenti maniere?’

 

 

Kai Hiwatari stesso.

 

 

 

 

 

Continua.

 

 

 

 

*nona di Beethoven*

Una promessa è una promessa, signori e signore! Avevo promesso intrighi, casini e tanto altro da concentrare su questi capitoletti che leggerete.

Uno scoppiettante (o almeno mi auguro che vi sia piaciuto, anche se si può sempre fare di meglio…) capitolo di fine mese ci voleva, no? Allora, dopo aver incasinato ancora di più la vita dei nostri protagonisti e senza ulteriori indugi…

Passo a rispondere alle vostre bellissime recensioni che latitano sempre di più rendendomi triste. Sappiatelo.

Ma vi amo lo stesso, che posso farci?

 

A Martedì prossimo!

 

 

 

Hiromi

 

   
 
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