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Autore: _Sihaya    18/07/2006    1 recensioni
E' una fic in prima persona ambientata fra gli eventi descritti nel fumetto di Inoue, nei momenti che l’autore non ha raccontato.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hisashi Mitsui, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Time is running out

 

By Sihaya

 

Eccomi di ritorno! La mia mente malata ha ancora prodotto!

Certo che tu coi titoli proprio non ce la puoi fare! ndTutti

Scusate, ma non è colpa mia se sono le canzoni ad ispirarmi!!

 

Questa volta vi propongo una storia in prima persona… è un esperimento ^^ Siate clementi!

 

Buon divertimento!

Sihaya

 

Slam Dunk appartiene a Takehiko Inoue

Time is Running Out appartiene ai Muse

 

* * *

 

PROLOGO

 

«Lasciami in pace stronzo!», sibilo fra i denti all’idiota che mi stringe il polso. Detesto questo genere di ragazzi, figli di papà che si trastullano con quella misera parte di mondo che giace ai loro piedi, e non credono in nulla se non in sé stessi. La loro arroganza mi disgusta e mi impietosisce allo stesso tempo. Mi libero dalla stretta del bamboccio che mi sta di fronte e gli giro le spalle, scuotendo i miei lunghi capelli biondi.

 

«Con certa gente bisogna saperci fare!», sento parlare alle mie spalle un amico saccente, «quella è una stronzetta di prima riga!», commenta.

 

«Non dire cazzate. So come domarla.», dice l’altro mentre esco dal locale.

 

«Che schifo», sussurro mentre lascio che la porta si richiuda dietro di me. Quando bevo un po’ troppo divento così, mi avvolgo in me stessa disprezzando il mondo intero. Presuntuosa e arrogante. Ma la mia è una sicurezza che crolla come sabbia di fronte a me stessa. Al nulla che sono e a quello che non riuscirò mai a diventare.

 

Mi incammino lungo la strada buia e silenziosa. E’ tardi, ma non ho paura. In fondo non me ne frega nulla di quello che mi può accadere. Per quello a cui servo, posso anche sparire e nessuno si accorgerà di me.

 

Mi fermo davanti ad un distributore automatico. Inserisco le monete nella fessura e prendo un pacchetto di sigarette.

 

Non ho più voglia di camminare e poi mi fa male la testa. Ormai è abbastanza tardi da far impallidire mia madre, qualche minuto in più non cambierà nulla.

 

Mi appoggio pesantemente al muro sporco accanto alla macchinetta e mi lascio scivolare in terra, stringendo le ginocchia al petto e avvolgendomi nella gonna dell’uniforme scolastica. Non sono nemmeno tornata a casa per cena; penso di nuovo a mia madre angosciata. Apro il pacchetto e mi accendo una sigaretta cercando di non tormentarmi, ma non è facile. Forse dovrei bere di più fino a dimenticare ogni cosa, ma non ho abbastanza fegato per farlo.

 

Non ce l’ho perché nonostante io spari a zero su tutto e su tutti, sono avidamente attaccata alla mia inutile vita.

 

Tiro una boccata di nicotina e chiudo gli occhi appoggiando la testa contro il muro.

 

«Stai bene?», una voce mi costringe a riaprili impedendomi di isolarmi come avrei voluto. Alzo lo sguardo verso il ragazzo davanti a me. Tiene una lattina di birra in mano e mi fissa con uno sguardo  profondo e un po’ triste.

 

Lo riconosco: è Hisashi Mitsui. Era in classe con me al primo anno. Mi ricordo ancora di quando si era iscritto al club di basket. Ogni giorno c’era una ragazza diversa ad aspettarlo fuori dall’aula, ma lui era troppo ingenuo per approfittarne.

 

L’ho visto giocare: un vero talento. Era M.V.P alle scuole medie. Poi qualcosa è andato storto, si è fatto male al ginocchio e ha smesso.

 

Ha smesso anche di venire a scuola in modo costante.

 

Dicono che frequenti una pessima compagnia, ma non pensavo di trovarlo in questo luogo.

 

«Hn?», faccio senza rispondere alla sua domanda.

 

Lui beve, sorseggia con calma la sua birra e non smette di togliermi gli occhi di dosso.

 

«Ho detto: stai bene?», chiede dopo un’interminabile silenzio.

 

«Mai stata meglio.», faccio io senza troppa gentilezza. Non voglio dare confidenza ad uno come lui. Non voglio ammetterlo, ma adesso ho paura.

 

«Che ci fa una come te in un posto simile?», chiede lui, pacato e quasi sovrannaturale nella sua indifferenza.

 

«Che ti frega?», rispondo controllando a fatica l’inquietudine.

 

«E’ sporco lì in terra», dice lui, banale.

 

Ho intenzione di tagliare corto. Non mi piace, non so cosa voglia da me e non credo sappia che siamo compagni di classe:«senti, ci conosciamo?», chiedo.

 

«No.», mi risponde.

 

«Io ti ho già visto.», gli dico ad un tratto, sorprendendolo. Credo non si aspettasse questa disponibilità al dialogo da parte mia, e a dir la verità anche io stupisco me stessa.

 

«Ah. Dove?»

 

«Al liceo Shohoku.», dico vaga. Non mi va di ricordargli che siamo nella stessa aula, o forse voglio solo vedere se lo sa.

 

«Che?», dice lui con una faccia stupita che mi fa sorridere. Evidentemente non sa chi sono. Credo che giocherò ancora un po’ con lui.

 

«So bene chi sei. Hisashi Mitsui.», dico con aria da saputella.

 

«Tsk. Il mio nome è famoso fra le donne.», risponde lui adottando la stessa tecnica. Non so perchè mi sto imbarcando in questo dialogo.

 

«M.V.P.», dico scandendo le lettere una dopo l’altra.

 

So che gli faranno male queste parole, perchè rievocano i sogni cui ha dovuto rinunciare. Non è difficile capire che ha sofferto. Quello che non so, però, è il motivo per cui sto dicendo tutto questo, se per il gusto di ferirlo o per non lasciarlo andare.

 

Lo vedo che si morde il labbro e non parla. Mi guarda con arroganza mentre i capelli lunghi gli scendono sul viso rendendo il suo sguardo cupo e freddo.

 

«Che cazzo hai da guardare?», domando io ritirandomi sulla difensiva, «Ti faccio pena?», chiedo interpretando erroneamente i suoi sentimenti: «Oh, non siamo molto diversi noi due.», aggiungo per colmare il suo silenzio.

 

«E tu che ne sai?», mi dice lui e io lo immagino mentre lotta per trattenere l’angoscia che lo divora dentro.

 

«Hai mai avuto un sogno da realizzare?», gli chiedo cinica. So qual è la risposta che ha dentro, ma voglio vedere qual è la versione per il ‘grande pubblico’.

 

«No.», mi risponde ostentando indifferenza. Come immaginavo. Sono tutti così, senza carattere, incapaci di ammettere una sconfitta, di raccogliere i cocci e ricostruire daccapo. Forse per paura di fallire, di accorgersi ad un certo punto che mancano dei pezzi e che nulla sarà mai uguale a prima.

 

Spengo la sigaretta in terra e ne estraggo un’altra dal pacchetto. L’accendo. Chiudo gli occhi lasciando che il suo sapore amaro mi arrivi alla testa.

 

«Abbiamo tutti un sogno che non si può realizzare. L’ho detto che non siamo diversi.», dico come se non avessi udito la sua risposta. Non voglio ferirlo, adesso lo so, voglio soltanto che rimanga ancora un po’ con me. Mi sento sola.

 

Lui sbuffa scocciato, butta la lattina in un cassonetto e si mette le mani in tasca. La sua reazione mi procura un’amara sensazione di tenerezza.

 

«Quella roba ti fa male.», mi dice facendo un cenno con la testa verso il pacchetto di sigarette.

 

«Non più di quanto tu ne stia facendo a te stesso.», gli rispondo io gettando la sigaretta e alzandomi da terra per tornare a casa.

 

Continua…

 

* * *

 

Quando ho iniziato a scrivere questa fic avevo intenzione di ambientare la storia fra gli eventi descritti nel fumetto di Inoue, inserendola nei momenti che l’autore non ha raccontato.

Ci tengo sul serio a conoscere il vostro parere!

   
 
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