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Autore: MusaTalia    24/11/2011    3 recensioni
Storia d'amore di Aro e Sulpicia; storia di gioielli preziosi e pittori famosi, di capretti belanti e vergini titubanti, di notti passionali e promesse sponsali.
[Quinta classificata al contest indetto da Palm "Ricordi-Only Quileute and Volturi]
Genere: Generale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aro, Sulpicia
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, Contesto generale/vago
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La dama col liocorno
Nickname: MusaTalia
Colore del pacchetto: rosa (pairing: Aro/Sulpicia; prompt: amore)
Prompt: lacrima, regalo
Titolo: La Dama col Liocorno
Personaggi: Aro e Sulpicia
Genere: generale, storico
Rating: giallo
Avvertimenti: missing moments, one-shot,
Note dell’autore: In questo periodo sono in fissa con la serie tv “The Borgias” con Jeremy Irons. Mi è risultato naturale, quindi ambientare un pezzettino del fic nell’Italia di inizio 1500. Mi sono presa la licenzia di giocare con un personaggio storico dell’epoca, Raffaello. Non me ne vogliano i suoi estimatori. Ovviamente ogni fatto da me scritto è pura invenzione, ma spero di essere stata il più attinente e coerente possibile alla Storia, con la S maiuscola. La fic è costruita come una matrioska russa: un ricordo infilato dentro un altro, che è nascosto dentro un altro ancora. E devo ammettere che mi sono sentita molto Proust con la sua madeleine intinta nel tè. Sono inoltre contenta del pacchetto che mi è capitato, molto stimolante, soprattutto per qualcuno come me che aveva momentaneamente detto “ciao, ciao!” al fandom (ormai più di un anno fa) per buttarsi su una sfida in lidi diversi.

La storia si è classificata quinta al contest indetto da Palm "Ricordi-Only Quileute and Volturi"

DESCLAIMER: i personaggi non sono miei, ma appartengono a Stephenie Meyer



La Dama col Liocorno

“Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses,
Et revis mon passé blotti dans tes genoux.
Car à quoi bon chercher tes beautés langoureuses
Ailleurs qu'en ton cher corps et qu'en ton coeur si doux?
Je sais l'art d'évoquer les minutes heureuses!”

“Ho l’arte di evocare i momenti felici,
e rivivo il passato stretto fra le tue ginocchia.
Perché cercare altrove languide bellezze,
altrove che nel tuo corpo e nel tuo cuore soave?
Ho l’arte di evocare i momenti felici!”

Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal, XXXVI, “Le balcon”

 

Quella mattina, quando Aro entrò nelle sue stanze, sua moglie Sulpicia era ancora intenta a prepararsi per la giornata appena iniziata. In quel momento si stava appuntando la lunga chioma dorata intrecciata alla nuca con delle forcine. Per quante volte Aro le avesse proposto di trasformare una giovane fanciulla affinché l’aiutasse, assumendo quindi il ruolo di cameriera personale, Sulpicia rispondeva sempre che preferiva fare da sola, che non gradiva che mani estranee toccassero i suoi capelli. Ed Aro non poteva che assecondare il desiderio della moglie.

In realtà erano ben pochi i desideri che non venivano assecondati; questo perché lui credeva che se avesse esaudito tutte le sue richieste -che nonostante tutto non erano mai particolarmente pretenziose- la sua coscienza non l’avrebbe tormentato con fastidiosi rimorsi.

Sulpicia era il suo prezioso usignolo e come tale bisognava tenerla rinchiusa in un’incantevole gabbia d’oro per assicurarsi che non le accadesse nulla di male.

«Hai passato una piacevole nottata, mia cara?» le domandò avvicinandosi e posandole le mani sulle esili spalle.

«Discreta. Io e Athena abbiamo giocato ai tarocchi. Saranno passati un paio di secoli dall’ultima volta. È stato divertente» rispose sporgendosi per baciare la guancia del coniuge.

«E il ragazzo che ti ho mandato? Era di tuo gradimento?».

Sulpicia pensò qualche secondo alla risposta che sapeva gli avrebbe fatto più piacere. «Gradevole, ti ringrazio».

«Ne sono lieto». Questa volta fu lui a sporgersi per baciare la tempia della compagna, che subito dopo si alzò per andare a scegliere i gioielli da indossare. Mise perle grandi come acini d’uva alle orecchie e, dopo qualche istante di indecisione, pescò un ciondolo dal fondo del bauletto. Un gioiello che raramente indossava.

Aro lo riconobbe immediatamente: quelle fini catenelle d’oro annodate al centro, quel maestoso pendente formato da un enorme rubino dal taglio squadrato incastonato in oro con leggere volute di smalto bianco, sormontato da uno smeraldo rettangolare e concluso da una grande perla a forma di pera; quello era proprio il pendente che aveva indossato, ormai mezzo millennio prima, per farsi ritrarre.

E a ben pensarci, anche quella volta il Signore di Volterra aveva deciso di assecondare un desiderio della sua dama.

 

A quell’epoca era di gran moda per le nobildonne farsi ritrarre dai più famosi artisti italiani, per ragioni politiche, sociali, ma soprattutto per vanità. E la stessa Sulpicia, per quanto donna virtuosa e rispettabilissima, non poteva non peccare di vanità.

Da pochi mesi quel papa spagnolo e nepotista¹, che aveva fin da subito solleticato la curiosità di Aro, era passato a miglior vita e, secondo il sacrosanto principio che morto un papa se ne fa un altro, Giuliano della Rovere (questa volta un italiano) aveva occupato lo scranno di Pietro.

Era un bigio pomeriggio di fine inverno a Volterra, il sole ormai era già sotto l’orizzonte mentre marito e moglie stavano passeggiando lungo i corridoi del palazzo, quando Sulpicia introdusse il discorso. «Sai, mi piacerebbe molto essere ritratta. Come Elisabetta Gonzaga. O Giulia Farnese, La Bella. Credi sia possibile?».

Aro non rispose subito, si limitò ad un neutrale «Ci si può pensare».

E tale pensiero aveva occupato per alcuni giorni la sua mente, che vagliava le possibilità, gli elementi a favore e quelli contrari. Alla fine decise che sì, si poteva fare. Bisognava a questo punto solo decidere chi commissionare. Non voleva certo un artistucolo di primo pelo, ma nemmeno un vecchio accademico bacchettone. Ci voleva qualcuno di ampio respiro, che fosse in grado di rendere giustizia alla bellezza soprannaturale della sua Signora, di immortalare la sua grazia e il suo candore imperituro.

I candidati erano molti, ma in ognuno di loro c’era un certo non so che, un particolare del carattere, del modo di dipingere che avrebbe reso il lavoro insoddisfacente, prima ancora che pennelli e colori fossero stati anche solo preparati. Aro stava addirittura cominciando a pensare di rivolgersi ad un scultore.

Alla fine, però, tornò sui suoi passi.

Fu convocato a Volterra un giovane urbinate di grande talento, che era riuscito a convincere Aro con le sue Madonne dai volti così dolci e malinconici.

Raffaello Sanzio giunse a Palazzo dei Priori sul fare della primavera, quando il clima cominciava ad essere più mite, ma la pioggia continuava a essere impietosa con tutti. Giunse in una di quelle giornate di fine inverno, grigie e pesanti come piombo fuso. Ma nonostante la poca luce, la bellezza di Sulpicia illuminò quella giornata, come il più fulgido sole di agosto. Raffaello ne rimase così affascinato. Mai aveva visto una donna così perfettamente bella: lunghi e lucenti capelli biondi, labbra come boccioli di rose, incarnato del più prezioso avorio, naso elegante e proporzionato, occhi…

Gli occhi lo turbarono. Non per la loro forma o dimensione. Non erano né troppo grandi, né troppo piccoli. Erano occhi qualunque. Ma fu il colore dell’iride a farlo sobbalzare: rosso, come le fiamme dell’Inferno, come l’acqua del Nilo trasmutata in sangue. Erano occhi di demonio in un viso di angelo.

E al fascino si sostituì il timore, accompagnato da un pizzico di malata curiosità.

«Noi non gradiamo che ci vengano poste certe domande» disse Aro rispondendo a tutti i quesiti che vorticavano nella testa del pittore, a cui lui aveva avuto accesso semplicemente sfiorando una spalla.

E Raffaello per più di mille fiorini d’oro -la cifra pattuita per la commissione -era ben lieto di starsene zitto e non impicciarsi. Aveva il suo oro, aveva trovato in quella splendida dama da ritrarre la sua musa e tanto gli bastava.

Il primo giorno si limitò ad abbozzare con della grafite morbida su un fogliaccio ingiallito i tratti delicati di quella donna, che suggerivano un carattere sottomesso e paziente. Nessun gioiello o veste particolare a decorare il tutto. Semplicemente i tratti del suo volto perfetto.

Per il secondo giorno, invece, Sulpicia si era preparata a dovere. Aveva scelto uno degli abiti più belli, rosso e giallo, i colori che le stavano meglio; diversamente dal solito, si era fatta aiutare dalla fida Athenodora per acconciare i capelli in una lunga e folta treccia, che le ricadeva dietro le spalle, sormontata da un piccolo diadema discreto a forma di quadrifoglio, con piccole perle persiane. Per l’occasione, inoltre, il suo sposo le aveva regalato un pendente, creato dai più fini maestri orafi fiorentini, con pietre preziose che venivano da tutto il mondo: lo smeraldo dall’Egitto, la perla dall’Estremo Oriente e il rubino da quel nuovo continente, scoperto da quel genovese che tutti avevano ritenuto pazzo, finché non era approdato su una terra sconosciuta.

Nessuna regina passata, presente o futura avrebbe potuto gareggiare con lei in quanto a bellezza e grazia. Raffaello ne rimase incantato e dovette nascondere, inutilmente, il dispiacere di non trovarsi da solo con lei mentre lavorava. Aro era stato previdente ed aveva ordinato a Corin di sorvegliare la situazione.

Mentre Sulpicia era seduta con lo sguardo rivolto al ritrattista ma che guardava oltre, quasi attraverso il muro, questi la interpellò «Madonna, mi permettete, domani di procurarmi un animaletto con cui ritrarvi?».

«Un animaletto, dite?».

«Credete si possa fare?».

«Non saprei. Che genere di animaletto?».

«Pensavo a un cagnolino. Uno di quelli piccoli e mansueti. Non ne siete spaventata, vero? Perché se vi disturba possiamo farne benissimo a meno».

«Spaventata? Assolutamente no» rispose con un sorrisino che le increspava quella bella bocca. Semmai, sarebbe stata lei a spaventare la bestiola.

Ma il giorno dopo, anziché che con un cagnetto maculato di bianco e marrone ed un nastrino di raso rosso al collo, l’artista si presentò con un capretto, di poco più di una settimana.

«Un capretto?» si stupì la donna mentre andava a sedersi dando le spalle ad una finestra.

«Vi disturba?».

«No» disse con titubanza, pensando di chiedere al marito di cambiare ritrattista. Quell’uomo doveva avere il cervello annacquato da uno dei solventi che usava per sciogliere i colori. Eppure, all’inizio le aveva fatto così buona impressione.

«Benissimo!». E tutto contento, sotto lo sguardo sbalordito e lievemente schifato delle due vampire nella stanza, si avvicinò per adagiare il capretto in grembo a Sulpicia. Il cucciolo inizialmente si agitò, cercando di scalciare con i piccoli ma già forti zoccoli e di mordicchiare l’orlo della manica dell’abito, belando incessantemente.

Durante quei minuti, mentre Raffaello tentava di calmare la bestia, Sulpicia trattenne il fiato.

Ma poi l’animaletto si acquietò.

«Perfetto così» commentò il pittore mentre ritornava alla sua tela, con lo sguardo che guizzava dal capretto all’espressione lievemente sconvolta dalla donna.

Poco dopo, richiamato dalla confusione che la bestiola aveva fatto con i suoi belati, arrivò anche Aro, che impietrì alla vista di ciò che gli si prospettava davanti.

«Un capretto?» domandò in tono irritato e sconcertato.

«Diventerà un unicorno» fu la risposta entusiasta del giovane artista, che si era già messo all’opera ed aveva tratteggiato le prime linee della creatura trattenuta tra le braccia della dama.

Aro sbirciò le linee di lapis sulla tela, per poi tornare con lo sguardo a sua moglie e al capretto, agnello, mammifero, quadrupede, quellocheera.

C’era stata un’altra volta in cui l’aveva vista con in braccio un capretto. E a dirla tutta era stata la prima volta in assoluto in cui l’aveva vista. Chissà se lei lo ricordava.

 

Lui di sicuro non l’avrebbe mai dimenticato. Quella fanciulla che correva verso il santuario di Asclepio, ad Epidauro, che con una mano tirava su la gonna del peplo verginale mentre teneva sottobraccio una creaturina belante, appena comprata al mercato, da offrire in sacrificio al dio della medicina.

Correva per il padre, unico genitore rimastole, gravemente malato, con alle calcagna la fida nutrice dai capelli grigi stretti in candide bende di lino. Forse il fumo delle interiora di quella bestiola da latte avrebbe saziato la fame e la sete del dio, che le avrebbe fatto la grazia della guarigione per il padre.

O forse no.

Fatto stava che la fanciulla col capretto lo colpì talmente tanto che Aro rimase tutta la mattinata fuori dal santuario in attesa che lei uscisse, dopo il lauto sacrificio e le dovute preghiere.

Quando lei uscì, con la nutrice che le trotterellava dietro incapace di raggiungerla per quanto lei stesse solo camminando rapidamente, aveva il viso e la scollatura rossi, con il seno che saliva e scendeva a ritmo dei respiri profondi ed affannosi, alcune ciocche appiccicate alla fronte per il sudore e le mani sporche. Ma nonostante questo Aro pensò che la fanciulla fosse bella. Sicuramente una delle più belle tra le donne umane che aveva visto fino ad allora. Poco greca, a dirla tutta. Più barbara con quei capelli biondi e la statura ben al di sopra della media.

«Sulpicia… Sulpicia! Aspettami, figlia!» le intimava la nutrice gracchiando come una cornacchia e facendo girare tutte le persone vicine al santuario.

Ma la fanciulla, o meglio, Sulpicia, non aveva nessuna intenzione di fermarsi ed aspettare che la vecchia la raggiungesse, perché l’urgenza di ritornare a casa ad assistere il padre malato era superiore a qualunque desiderio, necessità e intimidazione. Pertanto Aro non si stupì nel vederla allungare il passo e scatenare l’isteria della nutrice, che alzò le braccia al cielo imprecando «Per tutti gli dei!» per poi tirarsi su le gonne e aumentare l’andatura.

Aro non sapeva spiegare cosa avesse scatenato la sua curiosità per quella insulsa creatura umana. Forse il suo profumo, simile a molti; oppure il suo salire gli scalini con grazia e naturalezza; o forse ancora il suo sguardo determinato e devoto accompagnato da una foga controllata dei gesti. In ogni caso ora era felice di aver scoperto il nome di quella ragazza.

Ma il nome non era abbastanza. Lui voleva di più, perciò entrò nel santuario e si avvicinò al gran sacerdote, a cui toccò un gomito. Un vortice di immagini cominciò a girare nella sua testa. Ricordi, desideri inespressi, pensieri, preoccupazioni: tutto ciò che la mente di quell’umano aveva prodotto si riversò nel cervello di Aro, che ignorò bellamente i ricordi legati ad una fanciulla bruna di aspetto poco piacente, una prostituta con cui il sacerdote aveva passato le ultime notti, per concentrarsi su tutto ciò che riguardava la bionda Sulpicia, figlia di un umile mercante d’olio, orfana di madre dalla nascita, fedele devota del dio Asclepio e della dea Era.

Quel tocco fu sufficiente a fargli scoprire dove abitasse Sulpicia e di cosa il padre fosse malato. Non era infatti il primo giorno che la ragazza trascorreva al santuario. Nelle settimane precedenti aveva già sacrificato un paio di colombe e portato grano e vino in libagione. Ma tutti i suoi doni non avevano ancora attirato l’attenzione del dio.

Il giorno successivo Sulpicia si ripresentò al tempio. Gli occhi erano solcati da profonde occhiaie, sintomo della notte insonne passata al capezzale del padre. La nutrice, quel giorno, non l’aveva seguita ed Aro interpretò questo fatto come un segno del Fato. Bisognava approfittare di un’Ananke² così generosa.

Entrò anch’egli nel santuario e per quanto non fosse credente da ormai un po’ di tempo (spesso pensava a se stesso e ai suoi fratelli come divinità vere e proprie, che non avevano nulla da invidiare o temere dagli dei olimpici o dai titani rinchiusi nel Tartaro) si inginocchiò sui gradini, assumendo un atteggiamento di preghiera. In realtà osservava la fanciulla, che ad occhi chiusi mormorava le litanie di invocazione.

Quando lei si alzò, lui non poté che imitarla. La seguì lungo alcune viuzze della città, fino a quando non raggiunsero la dimora della giovane nella periferia di Epidauro. Lui la osservò entrare in casa, togliersi il velo dalla testa, versare dell’acqua da una brocca in un piccolo skyphos³ e salire le scale della casa a due piani.

Domani, si disse, la avvicinerò.

Ormai era sempre più convinto che la sua fosse l’idea più giusta; l’unica cosa che gli mancava era carpire i suoi pensieri; assicurarsi che fossero azzurri e puri come i suoi occhi. Aro aveva visto in lei candore, pudicizia, affabilità, ma anche caparbietà e perpetua lealtà nei confronti delle persone a cui era legata da un sentimento di affetto. Tutte qualità perfette per una moglie perfetta. Nessuna vampira conosciuta fino a quel momento possedeva tutte le caratteristiche che lui riteneva necessarie per la sua futura consorte.

Aro rientrò in casa quando ormai era il tramonto. La sorella, Didyme, lo accolse con un sorriso radioso. «Anche oggi fuori fino a tardi fra gli umani, fratello mio?».

Quella chiara provocazione non fu accolta da Aro, che la degnò di appena uno sguardo per poi andarsi a ritirare nella sua stanza. Ma il messaggio non era stato colto: Didyme non aveva la benché minima intenzione di lasciarlo in pace.

«Allora, quali sono i pensieri che ti turbano?».

«Non ho pensieri che mi turbano».

«Ma questo non significa che tu non abbia affatto pensieri che tengono impegnata la tua mente. Sbaglio?».

«Sei petulante, sorella!» la ammonì duramente, ma lei non mollò l’osso, anzi rafforzò la presa.

«Un’eternità di pensieri celati ti renderà pazzo».

«No, sarà la tua irrefrenabile lingua a rendermi pazzo». Quell’offesa, espressa con astio non scalfì minimamente Didyme, che conosceva bene il fratello. Aveva capito subito che qualcosa aveva colpito la sua attenzione. Un qualcosa che si stava trasformando secondo dopo secondo in una vera e propria ossessione.

«Lo so che sei stato al tempio di Asclepio. E dubito che tu sia andato a rendere omaggio ad un dio in cui non credi» ritornò alla carica.

Sorvolando su come avesse fatto a scoprire dove si fosse recato, Aro decise di replicare nella speranza di mettere a tacere la sorella.

«Ero a caccia».

«Una caccia piuttosto infruttuosa, direi. Non è da te, fratello» commentò alludendo alle iridi che tendevano più ad un rosso vinaccia che a un rosso scarlatto.

«Perché non è il solito tipo di caccia» spiegò in tono saccente come se si trovasse di fronte ad una bimba di pochi anni. L’unico risultato che ottenne, però, fu il disegnarsi di un delizioso sorrisino malizioso sulle labbra di marmo della sorella minore. «E lei? Conosci già il suo nome?».

L’arguzia di Didyme era in grado di sorprendere spesso anche chi la conosceva da tempo.

Ad Aro non rimase che rispondere, dopo aver sbuffato per esprimere la sua disapprovazione a una tale inappropriata curiosità «Sulpicia».

«Sulpicia…» ripeté lei assaporando lettera per lettera quel nome, come se tentasse di soppesare la personalità di quella giovane donna e allo stesso tempo cercasse di farne un ritratto. «Scommetto che ha i capelli chiari. Castano dorato…».

«Biondi, in realtà».

«Una vera rarità».

«Non è il colore dei capelli ad interessarmi» diede un taglio netto a tutte le fantasie romantiche agitando la mano davanti al naso. Ed in effetti era vero: non gli interessava minimamente il colore dei capelli, degli occhi, della pelle. Barbara o meno, che importava? Erano il carattere, le potenzialità inespresse, le doti della fanciulla ad essere importanti. La bellezza sarebbe giunta di sicuro in un secondo momento, nell’istante esatto in cui il suo cuore si sarebbe fermato per sempre.

Con quest’ultima battuta si concluse la discussione tra Aro e Dydime.

Il giorno successivo Aro si ripresentò davanti al santuario del dio della medicina, ma di Sulpicia nemmeno l’ombra, per tutta la giornata. E così fu il giorno dopo, e quello dopo ancora. Trascorsero cinque giorni, passati a celarsi nell’oscurità delle viuzze strette e fetide di Epidauro, in attesa che la fanciulla dal capo dorato e gli occhi come polle di acqua di fonte tornasse a rendere omaggio ad un dio che non stava evidentemente svolgendo il suo ruolo in maniera appropriata.

Dopo quei cinque giorni la pazienza del vampiro si era esaurita. Certamente avrebbe potuto cercare un’altra fanciulla con le medesime qualità di Sulpicia da trasformare e rendere la sua compagna. Il tempo non gli mancava di certo e chissà quante altre simili a lei ne sarebbero nate negli anni a venire. Ma ormai lui si era impuntato. Fintanto che Sulpicia non avrebbe dato chiara dimostrazione di non meritarsi la stima e l’attenzione di Aro, lei sarebbe rimasta la candidata perfetta per il ruolo di moglie.

Dunque, spazientitosi, Aro decise di abbandonare quel ruolo di passivo osservatore per passare a quello che meglio gli si confaceva: quello del cacciatore.

Si appostò nei pressi della casa della giovane, che prima o poi sarebbe uscita dalle mura della dimora anche solo per svolgere le faccende casalinghe. Ma ben presto dovette rassegnarsi all’idea che Sulpicia era restia ad abbandonare il capezzale del padre e mandava la nutrice a svolgere tutte le commissioni.

L’unica occasione in cui si assentò fu per andare ad attingere l’acqua alla fonte di Atalanta, a pochi passi da casa. Si sedette sui talloni mentre immergeva la grande brocca in ceramica e tutto l’avambraccio nell’acqua cristallina e gelata. Subito saltò agli occhi del vampiro il tracciato delle sottili vene bluastre sotto la pelle chiara e così poco avvezza alla luce del sole.

Lui le si avvicinò in silenzio, stando ben attento a rimanere sotto l’ombra delle fronde lussureggianti degli alberi che circondavano la sorgente. «Posso aiutarti? Quella brocca sembra pesante» disse in tono affabile, ma facendo comunque sobbalzare Sulpicia che credeva di essere sola.

«Non mi serve aiuto. Ti ringrazio» rispose alzandosi e stringedosi la caraffa al seno, con l’intenzione di ritornare il prima possibile a casa dal padre malato.

«Il mio nome è Aro» continuò imperterrito, ignorando il diniego della fanciulla. «Il tuo?».

«Sulpicia». E nello stesso istante in cui gli rispondeva, lui la toccava, sul braccio ancora bagnato, rimasto immerso nell’acqua. Incredibile a dirsi ma la mano di quell’uomo era più fredda dell’acqua della fonte, più fredda del ghiaccio e a quella sensazione di gelo inaspettato Sulpicia non poté reagire che ritraendo il braccio, cosicché la brocca cadde e s’infranse, bagnando i piedi di entrambi.

«Che maldestra! Mi dispiace così tanto» si scusò cercando gli occhi dell’uomo. Quando li fissò non riuscì a distinguere la pupilla dall’iride, tanto erano scuri.

Aro, da parte sua, che con quel tocco aveva avuto accesso a tutti i pensieri della giovane, le sorrise seducente. Aveva avuto tutte le conferme di cui necessitava ed ormai la decisione era stata presa: Sulpicia sarebbe stata trasformata da lui stesso e in seguito sarebbe diventata sua moglie.

«Non dispiacerti. Temo che sia colpa mia. Le mie mani sono troppo fredde» disse sempre con quel suo sorriso incantatore. «È ora che io vada. Spero di rivederti presto, Sulpicia» disse, lasciandola lì completamente affascinata e con la sicurezza che il giorno seguente l’avrebbe trovata alla fonte ad attenderlo.

Infatti fu così. Lei era lì con la sua brocca. I capelli erano più in ordine rispetto al giorno precedente, il peplo era stato lavato e al collo pendeva un graziosa conchiglietta di mare. Più di quanto Aro si aspettasse. Le si avvicinò schiarendosi la voce per farsi notare. Allora la fanciulla si aprì in un sorriso, il primo che Aro poté gustarsi, e lo salutò cordiale. Lui ricambiò il saluto e le porse una brocca nuova, comprata quella mattina da un mercante appena arrivato dalla splendente Magna Grecia.

«Non posso accettare» fu la prima reazione di Sulpicia.

«Infatti, devi accettare. Consideralo come un dono fatto per farmi perdonare. È colpa mia se ieri ti si è rotta la brocca» replicò mettendole la ceramica direttamente tra le braccia.

«Allora grazie» furono le uniche parole sussurrate con imbarazzo dalla giovane.

 

Continuarono a vedersi alla fonte di Atalanta ogni giorno; ed ogni giorno le loro conversazioni si allungavano un po’, mentre la sofferenza del padre di Sulpicia continuava a crescere, implacabile. Ormai rimaneva davvero poco da vivere a quell’uomo, la figlia ne era ben consapevole, ma nonostante questo non riusciva proprio a rinunciare al suo appuntamento quotidiano con quell’uomo bellissimo. Così anche i sensi di colpa di Sulpicia crescevano.

Una mattina lei si svegliò e capì immediatamente che quello sarebbe stato per il padre l’ultimo giorno passato in mezzo agli esseri umani. Poco prima di pranzo l’umile mercante d’olio esalò l’ultimo respiro; nel pomeriggio avrebbe passeggiato insieme alla moglie nell’Averno.

Tuttavia il lutto ancora fresco, come una ferita appena inferta, non fu sufficiente a trattenere Sulpicia tra le mura domestiche. Lei sapeva bene che avrebbe rimpianto per sempre quella fuga da casa, mentre il cadavere ancora caldo del padre giaceva nel letto; ma sapeva altrettanto bene che avrebbe rimpianto anche il mancare al consueto incontro con Aro.

“Oggi lo incontrerò per l’ultima volta. Anche se non vorrei dovergli dire addio”, si disse, poiché ormai si sentiva legata a quell’uomo.

Raggiunse di corsa il luogo dove erano soliti trovarsi. Lui era già lì, come i giorni precedenti, con il suo sorriso luminoso, ma anche, in un certo senso, terrificante e i suoi occhi così strani, rossi come tizzoni.

Fu come se li vedesse per la prima volta e furono proprio quegli occhi a ispirarle un sentimento di colpa e di vergogna, ma anche di terrore, pertanto, anziché avvicinarsi, mantenne le distanze.

Le lacrime cominciarono a rigarle il volto. Non poteva fare nulla per arginare quei torrenti in piena che le annebbiavano la vista.

«Dimmi chi sei in realtà. Per quale motivo non riesco a starti lontana? Mio padre è morto ed io sono qui a piangere per me stessa, per la mia ingenuità e stupidità, non per la sua scomparsa!». Un singhiozzo le fece sobbalzare il petto. Il cuore le batteva frenetico, come le ali di un uccellino che ha appena imparato a volare. «Che razza di sortilegio mi hai fatto? I tuoi occhi… Sei un demone, o forse un dio? Magari Zeus, o Apollo. Sceso tra gli uomini per sedurre una sciocca come me, appagare i suoi desideri e poi abbandonarmi». C’era paura nelle sue parole. Tanta paura e rabbia. Le stesse che prova un cervo quando viene braccato da un cacciatore esperto.

«Nessun sortilegio. E certamente non sono un dio. Almeno non Apollo o Zeus» Aro scandalosamente sorrideva. «Direi che assomiglio più ad Ade. E se lo vorrai, Sulpicia, tu potresti diventare la mia Persefone. Non dovrai temere la morte, né il dolore. Rimarrai per sempre giovane e bella e avrai uomini sotto di te, che si inginocchieranno alla tua presenza e ti chiameranno Signora».

«Sei solo un sacrilego! Gli dei ti puniranno!»

«Lo hanno già fatto. Ma hanno punito anche te, sebbene non avessi alcuna colpa. Lo hanno fatto per il semplice gusto di prendersi gioco di noi. Però possiamo prenderci entrambi la rivincita. Insieme. Sbaglio o gli dei a cui ti appellavi con tanto sentimento non hanno accolto le tue suppliche? Se starai con me saremo noi a prenderci gioco di loro, per l’eternità».

La logica avrebbe voluto che dopo tali parole Sulpicia fuggisse via, correndo veloce come il vento d’autunno, per non rivedere mai più quella creatura dallo sguardo ammaliante e dalle parole seducenti. Invece lei rimase lì a fissarlo, con gli occhi sgranati resi lucidi dalle lacrime, che avevano smesso di scorrere, e i piedi piantati a terra quasi come se stessero mettendo radici.

Inutile riportare quale fu la scelta della fanciulla e cosa comportò.

 

Aro non avrebbe mai dimenticato quei giorni ad Epidauro passati presso la fonte di Atalanta e sotto il santuario di Asclepio. Ma soprattutto non avrebbe mai dimenticato il colore degli occhi della moglie, quando ancora il cuore le batteva nel petto, su cui si infrangeva un timido raggio di sole che li faceva rilucere come uno specchio di acqua cristallina. Pure i sentimenti provati in quelle occasioni difficilmente si sarebbero cancellati dalla sua memoria.

E proprio in quell’istante, tutte le emozioni provate un tempo riaffiorarono, compresa la brama di possesso e di lussuria.

Congedò pittore e subalterno, che se ne uscirono portando con loro quell’innocente capretto, che inconsapevolmente aveva innescato la catena dei ricordi conservati in un angolo della mente, destinati ad impolverarsi.

Così, finalmente, il Signore di Volterra poté consumare quel suo desiderio, riaccesosi dopo un periodo di tempo che poteva definirsi estremamente lungo, ma anche incredibilmente breve.

Allo spuntare dell’alba Aro si trovava rivestito di tutto punto, seduto sullo scranno che Sulpicia occupava durante le sedute con il pittore. Era impegnato ad osservare la moglie, nuda, distesa sulla pancia sul velluto e la seta dell’abito che lui le aveva donato, insieme al pendaglio, proprio per farsi ritrarre. Lei invece stava giocando proprio con quel gioiello dal valore inestimabile: lo faceva roteare lentamente, annodandolo sul dito sottile, davanti alle braci del camino, accesso solamente per creare un effetto scenico (ed evitare che il povero Raffaello morisse congelato prima di portare a termine il suo lavoro).

Non c’era alcun dubbio riguardo al fatto che molti secoli prima Aro avesse compiuto un’ottima scelta. Come previsto la bellezza era giunta, sviluppandosi in tutto il suo potenziale. Non a caso la sua Sulpicia era ritenuta una delle vampire più belle al mondo. Ma con la bellezza, completamente prevista, era giunto anche qualche cos’altro. Un qualcosa che aveva cominciato a radicarsi in Aro, che nei momenti peggiori esplodeva in una gelosia distruttiva ed ossessiva.

Che fosse quello che molti definivano amore? Probabile.

Più passavano gli anni e più la probabilità diventava certezza.

 

Raffaello Sanzio continuò a presentarsi a Palazzo dei Priori per le successive due settimane. Il dipinto prendeva sempre più forma, una splendida forma, in cui risaltavano la virtù e la grazia di Sulpicia. Mancavano solo gli ultimi ritocchi allo sfondo e da scegliere il colore da dare agli occhi a quella che era stata ribattezzata “La dama col liocorno”.

«Mio Signore, di che colore desiderate che faccia gli occhi?».

Aro sapeva perfettamente qual’era la risposta. Non ci aveva nemmeno dovuto pensare. Guardando sua moglie, rispose al pittore «Azzurri. Come acqua di fonte».

Sulpicia sorrise, come solo con lui faceva, come se si fosse ricordata dei pomeriggi a Epidauro, quando era una fanciulla ingenua, innamoratasi di un perfetto sconosciuto dai capelli neri e dalle parole gentili.

«E azzurri sia!» fu il commento entusiasta dell’urbinate, che immediatamente si mise all’opera per sciogliere la polvere di azzurrite.

 

Così Sulpicia aveva avuto il suo ritratto e persino il marito ne era rimasto entusiasta.

Ora il mondo intero avrebbe potuto ammirare la bellezza della Signora di Volterra, che non sarebbe mai sfiorita, ma sarebbe rimasta sempre la stessa come un fiore di cristallo.

Con l’avvento delle fotografia non c’era più stato bisogno di commissionare a pittori o scultori per avere un ritratto. (E ad essere franchi certamente Aro non avrebbe pagato un Picasso o un Modigliani perché imprimessero con la loro arte l’aspetto di Sulpicia. L’arte contemporanea aveva il suo fascino, era interessante, ma definirla bella…). Pertanto dopo una lunga e ponderata riflessione, aveva finalmente deciso di cedere il dipinto a quelle moderne gallerie d’arte. In ogni caso Sulpicia sarebbe rimasta al suo fianco e perché non beneficiare di una tale bellezza dal vivo?

Certamente i ricordi si sarebbero conservati, come si era conservato il ciondolo, per oltre mezzo millennio.

Aro tornò ad osservare la moglie, che pescava dal portagioie un anellino di poche pretese. Le si avvicinò sottraendole il gioiello dalla mano, per baciarlo ed infilarglielo all’anulare sinistro.


 

¹ Il papa è Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia (1431-1503), diventato papa nel 1492. Nel 1503 gli succede papa Giulio II.

² Ananke in greco significa necessità, ma anche fatalità. Nella mitologia greca corrisponde alla personificazione dell’obbligo assoluto e della forza costringente dei decreti del Destino, è una divinità “dotta”. Presso i poeti, soprattutto i Tragici, restò l’incarnazione della Forza suprema, alla quale devono obbedire anche gli dei. (Le Garzantine).

³ Lo skyphos era una coppa a forma di tazza, con due piccole anse orizzontali. Nell’Odissea è la tazza usata da Polifemo.

* Per chi lo desiderasse, questo è il dipinto incriminato:

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/Liocorno/r_dama.html

   
 
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