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Autore: suni    19/07/2006    7 recensioni
Due momenti d'esasperata rabbia di un prigioniero comunque libero.
Genere: Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CONFESSIONI DI UN MALANDRINO

Non avevo mai scritto niente del genere.

Su stralci della canzone omonima di Branduardi, che è un pezzo secondo me stupendo.

Non cercate una logica, non ce l’ha.

Suni

 

 

CONFESSIONI DI UN MALANDRINO

I Solemny swear that I am up to no good

 

Una confessione.

Vogliono tutti una confessione dal mostro dell’età contemporanea. Vogliono certezza, vogliono guardare da fuori il Colpevole che paga, vogliono sentirlo ammettere le sue nefandezze per poter punire, con la coscienza splendente di chi errori non ne ha commessi.

Ma una cella non è grande abbastanza per contenere la menzogna che stanno domandando a gran voce. Mi duole non poter regalare le confortevoli, comode sicurezze che nel vostro mondo perfetto andate cercando, ma seppiatelo, il mostro è ancora in mezzo a voi e quel che ho da confessare non è davvero quel che vorreste sentire.

 

Mi piace spettinato camminare,

col capo sulle spalle come un lume,

così mi diverto a rischiarare

il vostro autunno senza piume.

Mi piace che mi grandini sul viso

la fitta sassaiola dell’ingiuria,

mi agguanto, solo per sentirmi vivo,

al guscio della mia capigliatura.

 

Ma se con tanto desiderio lo chiedete, allora sia.

Nell’anno 1981 di nostra era io, Sirius Black, eterno bambino, confesso.

Di aver disonorato il Padre e la Madre, e persino il Fratello, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver detto falsa testimonianza, quando la colpa era innocua e il colpevole a me caro, e di non esserne pentito perché di gioco si trattava, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver desiderato la donna d’altri e di essermela talvolta presa, forte della bellezza dei miei vent’anni di esuberante vitalità, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver rubato, quando ciò che prendevo era molto più caro ed utile a me che al suo possessore, e l’ipocrita che nega d’aver fatto altrettanto meriterebbe d’esser qui al posto mio.

Di aver messo a rischio la vita d’altri, senza intenzione, e la mia con ogni forza, perché nulla c’è di più entusiasmante del brivido del rischio che corre al tuo fianco, né c’è vita senza la vicinanza della sua perdita, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver offeso chi mi era inviso, con tutti i miei mezzi e la mia volontà ogni volta che l’occasione mi si presentava, d’aver insultato ed ostacolato e colpito tutti i miei avversari, come l’avete fatto e lo fate tutti voi.

Di aver riso a pieni polmoni ogni volta che l’occasione si presentava, anche del mio prossimo, amico e nemico, con scherno e con intenzione, e di me stesso quando ne avevo voglia, ed ogni giorno lo rifarei, per succhiare, come si suol dire, il midollo della vita.

Di aver giurato e spergiurato sul mio nome e su quanto c’è di sacro, sui compagni e sugli affetti, e d’essermi spesso divertito nel farlo, col senso d’onnipotenza che tutti ben conosciamo.

Di aver mancato di rispetto a tutto ed a tutti, e senza valida ragione, per debolezza e per scherzo, con l’incoscienza di un ragazzo e l’ostinazione d’un recidivo, perché mi andava e perché mi serviva, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver urlato e sostenuto e sostenere che tutti gli uomini sono uguali, indipendentemente da ricchezza, sangue e posizione, e d’aver giudicato con lo stesso metro un ministro e un ubriacone, a seconda che meritassero stima o meno, ed ogni giorno lo rifarei.

Di aver infranto ogni legge che Sistema mi opponesse, quando m’impediva di essere me stesso senza recar danno a chi nulla centrava, e di essermi bellamente infischiato del detto sistema che l’aveva generata, che lo considerassi giusto o sbagliato indifferentemente.

Di aver peccato di superbia, d’invidia, d’accidia, di gola, d’ira e di lussuria, e solo perché ero vivo e vivo volevo sentirmi, e non me ne pento, ma mai d’avarizia, a dispetto di tutti gli insegnamenti in tal senso da me ricevuti in una società che su essa si basa, e d’aver sperperato futilmente ogni giorno tutto ciò che avevo, per me e per chi m’era caro, senza alcun rendiconto.

Di aver seguito con ogni forza il precetto disfattista secondo cui la convenienza ed il profitto non sono che fole senza senso che in nulla devono influire sulla vita, il tutto a danno delle convenzioni su cui il mondo gira, ed ogni giorno lo rifarei.

D’aver infierito su chi era già a terra, se mi era ostile, approfittando della sua debolezza, e d’aver viceversa difeso coloro a cui volevo bene dal più forte, quando lo ritenessi giusto.

Di essere un ingenuo, e di andarne fiero, e di disprezzare con ogni forza chi di quest’ingenuità si è fatto gioco.

Di desiderare la morte d’altri, più d’uno e con tutto me stesso, e desiderare di esserne io la causa.

Di non essere sicuro di nulla se non dei miei errori.

 

Son malato d’infanzia e di ricordi

e di freschi crepuscoli d’aprile,

sembra quasi che l’acero si curvi

per riscaldarsi e poi dormire.

Dal nido di quell’albero le uova,

per rubare, salivo fino in cima,

ma sarà la sua chioma sempre nuova

e dura la sua scorza come prima.

 

Confesso di amare tutte queste colpe e di ripensare ad ognuna con la malinconia dovuta alla soddisfazione che mi hanno donato. Non spezzato, ma piegato, questo sì, lo sono. Godete della sofferenza di chi paga, come ne godrei io al posto vostro. In nulla vi posso rimproverare, e questo non fa che accrescere l’ira che vi porto.

Confesso di maledirvi, e di odiarvi con tutto me stesso, e di non pentirmi di nulla di ciò che ho ammesso.

Per questo, Vostro Onore, il verdetto del processo a cui non sono stato sottoposto è questo.

Colpevole.

 

 

QUATTORDICI ANNI DOPO

 

Gli assassini continuano a non pagare, mentre io sì. Cella sostituita con un’altra, più grande ed ancor più cupa, più dolorosa e costrittiva. Prendetevi i vostri candelabri e rendetemi le mie sbarre.

Godo del digrignar di denti contrariato e intimorito di chi teme il mostro evaso e delle sue certezze infrante, come allora.

 

Io non sono cambiato

Il cuore ed i pensieri son gli stessi.

Sul tappeto magnifico dei versi

Voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buonanotte alla falce della Luna

Sì cheta mentre l’aria si fa bruna

Dalla finestra mia voglio gridare

Contro il disco della Luna.

 

Poiché nulla è cambiato, e sempre si grida al mio linciaggio, con l’arma della rabbia che m’avete regalato voglio di nuovo confessarmi, e dimostrare l’inconsistenza delle vostre punizioni.

Confesso di non essere pentito, nemmeno dopo tutti questi anni, d’aver lottato contro i mulini a vento e di tutto e tutti essermi beffato.

Confesso, che potrei ogni nefandezza, su chi colpisse chi mi è oggi più caro, prometto che ogni colpa sarà mia se qualcuno osa toccare quel ragazzo.

Lo ammetto, non temo nessuna autorità, ma mi nascondo, ed è la mia sola colpa, quella della mia attuale vigliaccheria.

Confesso, di odiare di più ogni giorno, di non avere l’ombra di comprensione, disprezzo chi rifugge dalla lotta e non avrei per loro nessuna pietà. Fraterna solidarietà mi è invisa, confesso, la superbia ancora mi è vicina, giudico via via più aspramente e non ascolto più alcuna ragione.

Non lo nego, agisco sempre per istinto, non calcolo il mio rischio né quello altrui, ed è perché non sono tempi questi per prudenza e cautela.

Confesso, non ho in stima la mia vita, ed è certo uno schiaffo per un mondo che pone l’egoismo e l’interesse per se stessi al primo gradino d’importanza. Ma chi è conscio della propria debolezza, e della propria gran capacità di errore, dovrà, diventando colpevole a sua volta, dar ragione a questa mia convinzione.

Politicanti austeri, guerriglieri della propria convenienza, abili mercanteggiatori di vite giammai vostre, lo dico, lo ripeto e sottoscrivo: confesso di non esservi in nulla affine, e di vivere la cosa con fierezza; vile e debole, lo sono diventato, ma l’anima ancora non l’ho persa.

 

 

La notte è così tersa,

qui forse anche morire non fa male,

che importa se il mio spirito è perverso

e dal mio dorso penzola un fanale.

O Pegaso, decrepito e bonario

Il tuo galoppo è ora senza scopo

Giunsi come un maestro solitario

E non canto e non celebro che i topi.

 

Ma poiché amo poco la finzione, se serve solamente a figurare, aggiungere qualcosa è dovuto.

Lo confesso: avete vinto, sono stanco. La lotta è stata lunga, è stata dura.

Per me solo confesso alcune cose, che spezzano alla fine ciò che sono.

Non credo più che tutti siamo uguali.

Non credo più che esista un solo metro.

Non credo più che questa nostra vita vada vissuta al colmo d’intenzione, ma centellinata invece con prudenza, badando attentamente ai propri affari.

Non credo più che si debba scherzare con regole e leggi d’ogni tipo, ma invece rispettare attentamente ciò che viene imposto dall’autorità, onde evitare pericoli di sorta.

Non credo più che l’ingenuità paghi, è soltanto un difetto, una mancanza, qualcosa molto simile alla mutilazione: la cosa al primo grado d’importanza è diffidare di chi, quale che sia la ragione, troppo s’avvicina alla propria sfera d’interessi.

Non vedo più in che cosa stia la fola del ricercar profitto nella vita. Homo homini lupus, ed ognuno pensi a se stesso. Sicuro che nessuno si darà pena, nel vederti precipitare nel fango.

Non credo più nel rischio, nello scherno e nella beffa.

Gioite, signori della corte, un altro vostro simile ed affine avete dopo tanto intenso sforzo ricondotto nel vostro tetro ovile. Gustate dolcemente la vittoria dell’ascoltare quel che volevate sentire.

Non voglio più la lotta, il rischio e il brivido di chi cavalca l’onda del precario, è vero, è meglio stare nel sistema, mi arrendo a questo vostro dogma.

Nulla, comunque, è importante.

La vittoria è vostra.

 

Dalla mia testa, come uva matura

Gocciola il folle vino delle chiome

Voglio essere una gialla velatura

Gonfia verso un paese senza nome.

 

Un’ultima cosa aggiungo, permettete, prima di lasciar che tutto cada.

Riconoscere non potrà mai chi non spera, chi non sogna e chi non ama la vita in quanto vita, il vero e il falso delle mie parole; Vostro Onore, io non credo che possiate capire quale è vera e quale no delle mie confessioni. Avete avuto ciò che volevate, tanto lo spirito, il segreto all’interiore non è cosa che vi competa od interessi.

Nemmeno a me, oramai, lo dico chiaro e tondo: la vostre piccole diatribe meschine non m’importano più, già guardo oltre, sono sicuro che da qualche parte c’è un mondo differente in cui ristare, un mondo in cui la parola affetto è ancora quanto di più sacro rimanga.

E tenetevi il vostro arcano dubbio sul folle ed incosciente malandrino, di cui non saprete mai se vera redenzione o suprema beffa era il pensiero.

Giuro solennemente di non avere buone intenzioni.

   
 
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